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Accademia dei Facchini della Val di Blenio

Leggere “Accademia della val di Blenio” nella pinacoteca di Brera di Milano mi ha lasciato alquanto sorpreso, oltretutto non si tratta solo di un accenno geografico ma apre le porte su una particolare sfaccettatura legata alla storia artistica della Milano del XVI° secolo. Già, ma che centra la valle di Blenio?

Tutto nasce da questo dipinto fotografato in data odierna;

Autoritratto in veste di abate dell'accademia della Val di Blenio - 1568, didascalia “ZAVARGNA NABAS VALLIS BREGNI ET. P. PI.
Giovanni Lomazzo, Pinacoteca Brera

Le didascalie sul posto indicano quanto segue:

Il pittore e teorico ci guarda, in capo un cappello con foglie di vite e alloro allusivi al vino - ricordato anche dal medaglione - e alla gloria poetica. 
Pure il tirso avvolto di edera è attributo di Bacco, mentre il compasso indica l'attività di pittore e la scritta ricorda la carica di Abate dell'Accademia della Val di Blenio. A essa dal 1560 erano iscritti tra i maggiori artisti milanesi, che vi si riunivano fingendosi facchini provenienti dalla valle ticinese, utilizzandone dialetto e costumi, con intenti anticlassici e grotteschi.

In tempi severi in cui a Milano si cercava di bandire anche le feste, alcuni artisti fondarono un'associazione segreta e bizzarra, l'Accademia dei Facchini, in omaggio ai facchini ticinesi di cui scimmiottavano il gergo, mescolandolo ad altre lingue. Erano amici che si incontravano in segreto, usavano una lingua inventata e si riconoscevano da alcune caratteristiche nell'abito, come Lomazzo, che qui si ritrae con il simbolo dell'annaffiatoio. 

Facchinerie ticinesi

Ma che lavoro eseguivano esattamente i Ticinesi in Italia? E quali erano le conseguenze sociali?
Purtroppo il libro di riferimento "Facchinerie" é esaurito e non é in ristampa, riesco però a trovare un analisi su di esso:

Il gruppo di facchini che dall’inizio del Seicento trovò impiego nella compagnia della Dogana di Livorno si formò mediante un’operazione di scorporo da una precedente compagnia insediata proprio a Pisa, riflesso del più vasto processo di spostamento del baricentro economico della Toscana costiera, che in quello stesso periodo si stava muovendo dall’antica città marinara alla nuova realtà labronica. Tali facchini provenivano da una serie di comunità – ‘paesi stretti’ li si definisce nel libro, con un aperto richiamo al grande lavoro di Raul Merzario – situate in Valtellina, nel Canton Ticino (a tal proposito si parla di Svizzeri) e soprattutto nella Bassa Bergamasca. Addobbati ricostruisce le vicende di questi immigrati cercando di incrociare il loro punto di vista con quello della variegata società di arrivo, così come, più in generale, con quello delle autorità politiche granducali, le quali giocarono un ruolo di primo piano nel lungo processo che trasformò Livorno in una delle principali città portuali del Mediterraneo.

Addobbati (l'autore del libro) riesce a penetrare nella vita delle comunità montane da cui i facchini erano partiti e dove le loro famiglie riuscivano a godere di un certo prestigio e benessere, talora di una vera e propria agiatezza, come dimostra per esempio il riferimento al consumo devozionale e all’attività creditizia svolta da alcune confraternite locali. Come detto, i guadagni che i facchini riuscivano a accumulare a Livorno non servivano alla sussistenza delle loro famiglie, ma costituivano una risorsa supplementare che ne accresceva le capacità di spesa in ambito locale e conferiva stabilità all’intera economia domestica

Sul dialetto ticinese

La varietà dei dialetti delle valli del Ticino settentrionale, si distinguono dal milanese e dal comasco per la maggiore palatalizzazione e asprezza dei suoni. Inoltre, benché si tratti di una caratteristica comune a tutti i dialetti dell'arco alpino:
Il Ticinese del pari che tutti i dialetti montani, varia non solo da valle a valle, ma da luogo a luogo, per modo che sovente nella valle istessa distinguendosi di leggeri tre o quattro dialetti diversi ripartiti in parecchie varietà.
Ivi la sola proprietà, che dir possiamo generale, consiste nella rozzezza delle forme e dei suoni; ma sì le une che gli altri variano all'infinito, sicché ardua impresa sarebbe il contrassegnarli ed enumerarli

Per esempio in un comune in una estremità nella quale il letto si chiama lecc, in altra licc, chi poi pretende di parlar più civilmente dice lett, alla milanese

L'accademia dei facchini

Nel 1560, in cui Carlo Borromeo, futuro santo, veniva nominato cardinale diacono dallo zio Pio IV, un curioso sodalizio di artisti, nobili, letterati, scultor (ma anche intagliatori, ricamatori, orafi) dedito allo scherzo e alla goliardia, fondava a Milano l’Accademia della Val di Blenio

Già il nome suscitava ilarità perché la valle dell’alta Lombardia (oggi nella Svizzera italiana) era nota per gli zotici che da lì scendevano verso Milano in cerca di un’occupazione perlopiù come facchini. Anziché mettersi sotto l’egida del cardinale che predicava la più rigorosa obbedienza ai dettami controriformistici del Concilio di Trento difendendo così la cattolicità dall’assalto delle eresie protestanti che premevano dai confini a Nord della sua diocesi, gli eccentrici sodali si erano affidati alla protezione di Bacco.

Gli affiliati, che si creavano un nome ed una personalità fittizia, si riunivano sotto le false spoglie di popolani; nello specifico di vinaj o facchini da vino provenienti dalla zona di Blenio, ricordati per la parlata aspra e fortemente caratterizzata,  queste caratteristiche del dialetto eran da loro esagerate, e non sempre intese bene.
Essi erano costretti a mantenere una sorta di segreto iniziatico, negli anni della severa ed ascetica controriforma lombarda di Carlo Borromeo.

San Carlo Borromeo in piena adulazione in questo "Madonna in gloria con il bambino tra Sant'Ambrogio e Carlo Borromeo del 1603 - musei sforzeschi Milano

l’Academia della valle di Blenio tentò di nobilitare coi poètici nùmeri la lingua, i costumi ed i rozzi concetti di quella pòvera plebe, servirsi delle poesie dei facchini per documentare una varietà valligiana che riteneva più autentica di quella in uso, poiché non contaminata dal dialetto di koinè e dall’italiano: Anticamente vi si parlava un linguaggio che veramente potevasi appellare dialetto di Blenio. Il tutto nel libretto del pittore milanese Paolo Lomazzo, intitolato: Rabisch dra Academiglia dor Compà Zavargna, nabad dra Vall d’ Bregn 

I componenti dell'accademia si divertivano e divertivano il pubblico con mascherate in carnevale e in altre occorrenze di pubblica allegria

Lomazzo nominato Abate in difesa del manierismo

Nel 1568, il circolo nominava suo Abate il pittore, poeta e teorico Giovan Paolo Lomazzo, il quale da una parte scriveva trattati di complicate teorie artistiche come «L’idea del tempio della pittura » e dall’altra un libro come «Rabisch», la prima raccolta a stampa di scritti e componimenti poetici in dialetto lombardo, un’opera collegiale con episodi da taverna, pesanti allusioni sessuali, imprecazioni, cataloghi nominali, insomma con tutto il repertorio burchiellesco e bernesco del gusto per il rovesciamento dei ruoli sociali, il cibo, i visceri, gli escrementi.

Scritto vestendo i finti panni dei facchini e simulandone linguaggio e costumi, «Rabisch» (anche nella grafia senza h finale) significava «arabeschi», ovvero bizzarrie, invenzioni grottesche; concetto che rientrava perfettamente all’interno della cultura dell’insolito e del capriccioso del Manierismo cinquecentesco. La metamorfosi e l’ibridazione erano contenuti essenziali così come il disordine, l’antiintellettualismo, il rifiuto del decoro e dei concetti rinascimentali di limite, finitezza e equilibrio a favore del perenne mutamento e fluire della Natura.

Il frontespizio dei Rabìsch (la raccolta di poesie dialettali dell'accademia)
Rabisch dra Academiglia dor compa Zavargna nabad dra Vall d Bregn, Milano 1589
 [ed. moderna a cura di D. Isella, Torino 1993].
Quando sono giunto a questo capitolo ho avuto le mie certezze,.
L'utilizzo frequente della "A" dove solitamente non utilizzato (ad esempio la "A" nell'articolo DRA ACADEMIGLIA o anche DRA VALL D'BREGN) rende il tono molto più sbragato alla parlata, l'effetto é assicurato, e lo dico io da abitante da una valle attigua, figuriamoci per un signorino della grande città di Milano.
Questo utilizzo della "A" é però tipico di solo alcune zone della valle di Blenio, notoriamente Aquila

Leonardo era una figura chiave per quell’ambiente antiletterario, antiumanistico e antimoraleggiante e l’Accademia teneva viva proprio quella vena profana che a Milano aveva come supremo modello i volti deformi e grotteschi disegnati da Leonardo, quelle «teste caricate » che illustravano in modo estremo la casistica dei moti dell’animo e la ricerca fisiognomica soprattutto nei profili rugosi e deformi dei vecchi. 

Aurelio Luini, Ol compà Digliagòr e Ol compà Braghetògn (due accademici della Valle?), Milano, Ambrosiana

L’Accademia rappresentava dunque l’ultimo baluardo, l’estrema difesa di quel mondo immaginifico profano presto destinato a scomparire. Dopo la peste, infatti, Carlo Borromeo bandì ogni tipo di festa e spettacolo considerandoli concause del flagello inviato da Dio e augurandosi che la provvidenza «estingua, seppellisca, atterri affatto le passate memorie di giuochi, spettacoli, maschere e brutture del carnevale. . . Vadano ormai perpetuamente in esilio insieme con le maschere, e le commedie, e le favole del mondo, e li spettacoli profani, coi quali ha questo popolo in questo tempo particolarmente così profanati i santi giorni delle feste».

Contenuti del Rabisch

Fino a tempi recenti i Rabisch non hanno goduto di grande fortuna e diffusione per una ragione «essenzialmente linguistica, connessa con la difficoltà di intenderne anche solo la lettera».

Alla prima edizione commentata e filologicamente attendibile della raccolta si è arrivati, per merito di Dante Isella, solo nel 1993: «‘‘il propellente iniziale’’ per questo lavoro gli venne dall’interesse dimostrato dagli studenti del Politecnico di Zurigo per un corso da lui tenuto nei primi anni Ottanta su antichi testi lombardi»

Oltre ai vincoli, ai modelli e alle convenzioni tipiche della poesia, che possono deformare o falsare il dato linguistico, e al gusto barocco e grottesco di quel tempo e di quel ambiente, queste poesie sono infatti redatte da parlanti milanesi in un dialetto bleniese di maniera, impressionistico e ipercaratterizzato, quando non in lingua zerga o in lingue di fantasia, macaroniche e parodiche come il “similbergamasco” o il “similbolognese”. 

In sostanza, i Rabisch sono scritti in una varietà d’invenzione modellata sul dialetto grossolano e aspro parlato dagli stagionali che allora e nei secoli a venire giungevano a Milano dalla Val di Blenio.

Gli 8 testi

Il primo testo è l’Origen e fondament dra Vall de Bregn (‘Origine e fondamenti della Valle di Blenio’)

Il secondo documento è il Pròlogh in onó de Bacch, inanz a r’incoronaçigliogn dor Zavargna, dicc dal compà Borgnign (‘Prologo in onore di Bacco, avanti l’incoronazione dello Zavargna, detto dal compare Borgnign’

Il terzo testo riguarda le Çerimonigl e significaçigliogn di còss c’han da ornà or Nabad (‘Cerimonie e significato degli ornamenti che deve avere l’abate’), come per esempio «ra pell dor cavrett» (‘la pelle del capretto’), «or sacch» (‘il sacco’), «ra còrda e ra fusella» (‘la corda e la fusella’), ma il testo racconta anche «dra forma dor sigill de Bregn» (‘della forma del sigillo di Blenio’), ecc.

Appaiono poi gli Straducc dra vall de Bregn (‘Statuti della Valle di Blenio’) e I còss ch’o’s denn osservò in Bregn (‘Le cose che si devono osservare in Blenio’)

Chiunque avesse voluto entrare nell’Accademia avrebbe dovuto dare prova del suo valore e rispondere a L’interogaçigliogn ch’o s’han da fà dar gran Scanscieré pos ra gneregada a col ch’o vûr intrò in dra Vall de Bregn (‘Le domande che devono essere fatte dal gran Cancelliere, dopo il convitto, a chi aspira ad entrare nella Valle di Blenio’). Queste vertevano sulla vita e il lavoro dei facchini e includevano per esempio la descrizione della brenta e del pagliolo che il facchino doveva portare – «Com’ va ra brenta» (‘Come dev’essere la brenta’), «Com’ va or pagliû» (‘Come dev’essere il pagliolo’) –, ma anche un’attenta descrizione del buon vino rosso – «Come besògna ch’o siglia or vign ross bogn» (‘Come bisogna che sia il vino rosso buono’) – e una spiegazione su come scorticare i capretti – «Com’ se scortega i cavritt» (‘Come si scorticano i capretti’)

Com’ se scortega i cavritt

Tramite l’ottavo e ultimo documento, I nòm dor Nabad de Bregn e di sett Savigl ch’o fugn facc da lù (‘I nomi dell’Abate di Blenio e dei sette savi che furono nominati da lui’), si viene a conoscenza della gerarchia interna all’Accademia e dei membri che ne facevano parte

La raccolta

Conclusa questa prima parte, inizia la raccolta vera e propria composta da sonetti, frottole, barzellette, cui fanno eccezione due testi di corrispondenza

II 4 è una lode del digiuno rivolta al Buovi: il mangiare, secondo Lomazzo, fa entrare la febbre nelle ossa e il povero sventurato che non riesce a cacare è destinato a morire (vv. 12-14):

E se par quòst qualcugn no pò chigà
O r’è fòrza ch’or traga gl’ultem vess
O che s’cipad or vaga ar mond da là

[E se, per esso, qualcuno non riesce a cacare
è forza che tiri le ultime loffeo che
scoppiato, vada al mondo di là?]


Il tema è successivamente rovesciato in II 5 (che riprende le parole-rima del sonetto precedente), dedicato al Foliani: non vi è gioia più grande, afferma lo Zavargna, di poter cacare quando si ha la pancia piena (vv. 12-14):

Mò che dolceza è quella dor chigà,
Quand ch’o s’ha piegn ra bòglita, e trà di vess
E pû tornass a impì, descià ò de là!


[Che dolcezza è quella del cacare,
quando si ha piena la pancia, e trar loffe,
e poi tornare a riempirsi, di qua e di là!]


Ma i Rabisch non sono ancora conclusi, in quanto in calce alla raccolta si trovano sia una Tavola della lingua di Bregno più oscura con la Toscana adietro per intenderla meglio, che non è altro che un glossarietto nel quale sono registrate in ordine alfabetico alcune voci in «rengua d’ Bregn»

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