Non finirò mai di stupirmi della fantasia umana quando si tratta di trovare metodi per provocare dolore. Le pene corporali e il metodo di esecuzione dipendevano poi dal genere di reato commesso e dall’estrazione sociale del condannato. Una combinazione orribile era quella di essere accusato di regicidio, indipendentemente se portato a termine o no, e provenire dai ceti più basso. Ed é questo il caso il trattato qui.
Dopo aver letto vari testi sull'argomento posso tranquillamente affermare che il supplizio di Damiens risulta una delle pagine più atroci e difficilmente metrizzabili. Se poi si pensa che a questo spettacolo assistette una folla eccitata e che i fatti risalgono a metà del XVIII secolo é ulteriore motivo di costernazione.
Il misfatto
Luigi XV ripartì per il Trianon, dove avrebbe dovuto festeggiare l'Epifania. Alle sei meno un quarto, mentre si apprestava a risalire sulla propria carrozza, Damiens, che si trovava nei pressi, si aprì un varco tra i ranghi della sua guardia, gli si gettò addosso, ferendolo in modo non grave al fianco destro con una lama di coltello lunga appena otto centimetri per poi fuggire.Il re fece due passi in avanti, barcollò, si appoggiò a de Montmirail, quindi si voltò verso il delfino e il duca Louis de Noailles d'Ayen, e sussurrò: "Ho appena ricevuto un pugno terribile." A quelle parole si portò la mano al petto e la ritrasse insanguinata, dicendo: "Quell'uomo ha attentato alla mia vita. Non arrestatelo e non fategli del male." Rimasto sul luogo del misfatto, non fece alcun tentativo di ferire ulteriormente il re e si lasciò arrestare dalle guardie senza opporre particolare resistenza. Mentre le guardie si precipitavano sul colpevole, il re venne portato nella sua stanza, spogliato e sdraiato sul letto, direttamente sul materasso. Germain Pichault de La Martinière, il suo chirurgo, accorso subito dal Trianon, esaminò la ferita superficiale e dichiarò che non era pericolosa,
Il processo
Dal momento che aveva sempre negato di essere al corrente della dottrina regicida, si accettò la tesi del "mostro" solitario, debole di mente, che soddisfaceva tutti. Giudicato per tentato regicidio, il 26 marzo 1757 fu condannato a morte dal Parlamento di Parigi, con sentenza da eseguirsi secondo l'atroce e complesso rituale dello squartamento, previsto per gli autori di misfatti reputati particolarmente efferati e che richiedessero una forma di condanna particolarmente severa.
“La journée sera rude”
Damiens fu tratto fuori dalla sua cella, e gli arcieri lo portarono in una specie di sacco di cuoio color camoscio, che si chiudeva al collo, non lasciando passare che la testa. Lo si sbarazzò di quell'involucro e, ordinatogli d'inginocchiarsi, il cancelliere gli lesse la sentenza.
Egli ascoltò con singolare attenzione tutti i particolari della sentenza. Il suo viso era giallo come cera; la luce del giorno sembrava stancargli la vista; le sue palpebre s'aprivano e si chiudevano con una specie di movimento convulsivo, ma i suoi occhi nulla avevano perduto del loro splendore.
Quando la lettura fu finita, Damiens fece segno agli arcieri di aiutarlo ad alzarsi, poiché soffriva ancora delle ferite alle gambe. Egli mormorò più volte - Mio Dio! Mio Dio! Mio Dio!
Gabriele Sanson si avvicinò a lui e gli pose una mano sulla spalla. Damiens trasalì e lo guardò con un' aria smarrita; ma in quel momento entrò il curato di San Paolo, e la fisionomia del regicida si rifece calma e sorridente.
Il confessore pregò gli astanti di farsi da parte, ed egli e il condannato rimasero in mezzo alla sala, tutti e due in piedi. Il prete parlava a voce bassa, e Damiens pregava. Pure, a volte, la sua fisionomia diveniva selvaggia, il suo corpo sussultava nervosamente egli si mordeva le labbra con una sorta di rabbia. Allora il prete gli parlava con maggior vivacità, e si vedeva il condannato tranquillarsi a poco a poco.
Il curato non poteva assistere alla tortura, e si ritirò a pregare nella cappella della Conciergerie.
Si propose a Damiens di prendere qualche alimento; c'era lì un ufficiale di cucina con un paniere. Egli esitò un istante, osservò con attenzione quei cibi, poi disse scuotendo il capo:
- A che scopo? Date queste cose ai poveri; almeno serviranno a qualche cosa.
E poichè gli si faceva osservare che aveva bisogno di tutte le sue forze in una giornata così terribile, egli replicò con un accento smarrito e che mal si accordava con le sue parole :
- La mia forza è in Dio! La mia forza è in Dio!
Si riuscì nondimeno a fargli bere un po' di vino. L'ufficiale di cucina bevve prima lui e gli presentò il calice; ma Damiens non potè ingoiare più di un sorso.
Allora, rimesso il prigioniero nella sua amaca, lo si portò nella stanza della tortura, dove già si trovavano i Commissari. Egli prestò il solito giuramento di dire la verità, e subì un ultimo interrogatorio sul banco.
Quest' interrogatorio durò un'ora e mezza.
Egli rispondeva con sufficiente calma alle domande; ma negli intervalli dava segno di estrema agitazione. Si dimenava sul banco, i suoi occhi roteavano nell'orbita, continuamente egli cercava di guardare dalla parte dove si trovavano gli esecutori e i loro aiutanti.
Alfine i giudici-commissari si alzarono e gli annunziarono che, poichè non aveva confessato nulla, lo si sarebbe messo alla tortura.
Gli esecutori lo circondarono, e il torturatore del Parlamento gli mise gli stivaletti, serrandone la corda con più forza che d'ordinario non si facesse.
Il dolore fu acuto. Damiens gettò grida spaventose: il suo viso divenne livido, la sua testa si rovesciò indietro, egli parve svenire.
I chirurghi gli si avvicinarono, gli tastarono il polso, e dichiararono che quello svenimento non aveva nulla di grave.
Damiens riaperse gli occhi, chiese da bere : gli si offerse un bicchiere d'acqua, ma egli domandò vino, dicendo con una voce tremula ed anelante, che la sua energia se ne andava.
Carlo Enrico Sanson l'aiutò a portare il bicchiere alle labbra; quando egli ebbe bevuto, cacciò un profondo sospiro e, chiudendo gli occhi, mormorò qualche preghiera. Il cancelliere, gli uscieri, gli esecutori, gli aiutanti lo circondavano; due giudici si erano levati dalle poltrone e passeggiavano per la stanza; il presidente Molè era pallidissimo, e si vedeva tremare una penna che egli teneva in mano.
Dopo mezz'ora, la tortura fu ripresa.
Fremy, il torturatore, infisse il primo cuneo.
Le grida di Damiens ricominciarono : erano così acute e insistenti che il presidente non riusciva a rivolgergli le domande d'uso. Alfine, tra urla, imprecazioni e preghiere uscenti confusamente dalla sua bocca, egli accusò un certo Gautier, uomo d'affari d' un consigliere al Parlamento, Lemaitre de Ferrière, di averlo spinto al delitto.
Fu dato immediatamente l'ordine di arrestare entrambi.
Le sofferenze di Damiens non cessavano. Al quarto cuneo egli domandò grazia, e implorò più volte: - Signori! Signori!
Gautier e Lemaitre frattanto erano arrivati: li si confrontò con Damiens, e questi non solo non potè indicare dove avesse veduto colui che incolpava, ma ritrattò quasi subito tutto quanto la tortura gli aveva strappato.
I tormenti furono ripresi, e gli si applicò il primo cuneo straordinario.
Dopo l'ottavo cuneo, che era l'ultimo anche degli straordinari, i chirurghi dichiararono che egli non poteva sopportare di più. La tortura era durata due ore e un quarto.
I giudici si levarono con una premura che palesava essere anche le loro forze giunte all'estremo. Il torturatore tolse gli stivaletti. Damiens cercò di sollevare le sue gambe piagate e fracassate. Non potendo riuscirvi, si sporse innanzi e le guardò per qualche istante con una specie di doloroso intenerimento.
L'esecuzione
L'esecuzione di Damiens, essendo Carlo Battista Sanson tenuto a letto dalla paralisi, fu affidata a suo fratello Gabriele Sanson, esecutore agli ordini dei prevosto di corte, il quale volle schernirsene, ma non riuscì. Fu lui che acquistò i quattro cavalli necessari; li pagò 432 lire, somma per quei tempi ragguardevole. Ma egli era così impressionato che all'avvicinarsi del processo ammalò e si pose a letto. Il procuratore generale lo chiamò e gli diede una lavata di capo per la sua pusillanimità. Egli parlava di rinunciare al suo ufficio, quando trovò un vecchio torturatore che s'incaricò dell'attanagliamento, supplizio non più usato dopo l'esecuzione di Ravaillac.
Arrivando sul patibolo, Gabriele Sanson si accorse subito che il vecchio torturatore, il quale s'era incaricato di provvedere a tutto, era ubriaco e incapace di fungere il suo uffizio. Preso da un violento sospetto, egli domandò di vedere il piombo, lo solfo, la cera, la pece : tutto mancava; perfino il rogo, che doveva bruciare i resti del condannato, era una catasta di legna umida e disadatta, che si sarebbe accesa solo con gran difficoltà.
Pensando alle conseguenze dell'ubbriachezza del torturatore, Gabriele Sanson perdette la testa. Per qualche momento, il patibolo offrì lo spettacolo d'una confusione inesprimibile; gli aiutanti andavano e venivano spaventati, tutti gridavano in una volta, e il disgraziato esecutore di corte malediceva la terribile responsabilità che s'era assorta.
Si prepara la scena
Questa scena si prolungò tanto che tutto non era ancora pronto quando il paziente, dopo tre ore di preghiera nella cappella, arrivò sulla piazza di Greve. Lo si dovette far sedere sopra uno dei gradini del patibolo, mentre sotto i suoi occhi si procedeva alle ultime disposizioni per la sua morte.
Egli aveva pianto nella carretta; ma aveva ricuperato ora la sua fermezza, e volgeva sulla folla uno sguardo sicuro. Chiese di parlare ai commissari; lo si portò all'Hòtel-de-Ville; egli si rivolse al signor Pasquier, e lo pregò di proteggere sua moglie e sua figlia. Ritrattò ancora una volta l'accusa portata contro il Gautier, e giurò sulla salute della sua anima che solo aveva concepito l'attentato e solo lo aveva eseguito.
La pentola dove bruciava lo solfo, misto con carboni ardenti, riempiva l'atmosfera dei suoi acri vapori; Damiens tossì parecchie volte; poi, mentre gli attendenti lo legavano sulla piattaforma, egli guardò la sua mano destra con quella stessa espressione di tristezza che era apparsa sul suo volto quando aveva guardato le sue gambe dopo la tortura; egli mormorò qualche brano delle litanie; e disse due volte :
- Che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto''.
Il braccio fu fissato solidamente sopra una sbarra, in modo che il polso sorpassasse il margine della piattaforma. Gabriele Sanson avvicinò il braciere. Quando Damiens sentì la fiamma azzurrasti mordere la sua carne, egli cacciò un grido spaventoso, e si divincolò fra i ceppi. Passato il primo dolore, rialzò la testa, e guardò bruciare la sua mano senza alta manifestazione di dolore che l'arrossamento dei denti, che si sentivano scricchiolare.
Quella prima parte del supplizio durò tre minuti.
Le tenaglie
Egli incominciò a far passare il suo spaventevole strumento sulle braccia, sul petto e sulle cosce del paziente; a ogni morso, l'orribile mascella di ferro strappava un brandello di carni palpitanti, e Legris versava nella piaga boccheggiante talvolta l'olio bollente, talvolta la resina infiammata, il solfo in fusione, o il piombo fuso che gli presentavano gli altri attendenti.
Si vide allora qualche cosa che la lingua è impossente a scrivere, che lo spirito può appena concepire, qualche cosa che non ha confronto se non nell'inferno e che io chiamerò l'ubriachezza del dolore.
Damiens, con gli occhi smisuratamente fuori dalle orbite, i capelli irti, il labbro contratto, stimolava i tormentatori, sfidava le loro torture, provocava nuove sofferenze. Quando le sue carni stridevano al contatto dei liquidi infiammati, la sua voce si mescolava a quell'odioso friggere, e quella voce, che non aveva più nulla di umano urlava :
- Ancora! ancora! ancora!
Squartamento
- Gesù! Maria! A me, a me! - come se avesse invocato d'essere strappato al più presto ai suoi carnefici.
Un aiutante aveva afferrato le redini di ogni cavallo.. un altro s'era collocato dietro a ciascuno dei quattro animali, con una frusta in mano. Carlo Enrico Sanson stava sul patibolo, comandando tutti i suoi uomini.
A un suo cenno, l'orribile quadriga si slanciò innanzi. Lo sforzo fu formidabile, giacchè uno dei cavalli cadde a terra. Tuttavia i muscoli e i nervi della macchina umana avevano resistito alla scossa spaventosa.
Tre volte i cavalli, stimolati dalle grida, dalle frustate, tirarono a tutta forza, e tre volte la resistenza li ricondusse indietro.
Si notò solo che le, braccia e le gambe del paziente si erano smisuratamente allungate; ma egli viveva ancora, e si sentiva il suono della sua respirazione, stridente come l'ansare di un mantice da officina.
Allora il chirurgo Boyer, slanciatosi verso l'Hotel-deVille e fatto sapere ai giudici commissari che lo smembramento non si sarebbe prodotto se non si fosse venuti in aiuto ai cavalli con l'amputazione dei grossi fasci nervosi, ottenne da loro l'autorizzazione necessaria.
Un coltellaccio non c'era; Andrea Legris si decise a praticare con la scure le incisioni necessarie alle ascelle e alle giunture delle cosce del miserabile.
Quasi subito i cavalli si misero in moto; una coscia si distaccò per prima, poi l'altra, poi un braccio.
Damiens respirava ancora.
Alfine, nel momento che i cavalli s'irrigidivano trattenuti dal solo arto che gli restasse, le sue palpebre si sollevarono, i suoi occhi si volsero al cielo : quel tronco informe trovò la morte.
Quando gli attendenti staccarono i suoi tristi avanzi dalla croce di Sant'Andrea per gettarli nelle fiamme, si notò che i capelli del paziente, ancora neri quando era giunto sulla piazza di Grève, erano bianchi come neve.
Questo fu il supplizio di Damiens.
Il resoconto di Bouton
Post esecuzione
Dopo l'attentato, le malelingue si scatenarono, tra gli scritti clandestini che esprimevano con violenza il malessere del regno. Damiens non appariva né come un fanatico isolato, né come lo strumento di una fazione politica, ma piuttosto come il portavoce del popolo disorientato, oberato dalle tasse e ansioso di trovare capri espiatori e difensori al tempo stesso. Voltaire e la maggior parte dei filosofi videro in lui un simbolo del fanatismo che disonorava il secolo di Luigi XV con il suo arcaismo.
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