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La peste di Milano - De pestilentia

Dopo la prima parte introduttiva si entra finalmente nel vivo della peste. La testimonianza di Federico Borromeo (l'io narrante del De pestilentia), ci consente di fare un viaggio nella Milano nel pieno dell'ondata pestilenziale. Le sue testimonianze sono nude e crude, si percepisce l'impotenza delle persone che completamente i balia della malattia cercano e necessitano capri espiatori.

Esecuzioni di presunti untori

De pestilentia

Il De Pestilentia, é un operetta latina vergata nell'infuriare del morbo dal cardinale, resta una sorta di addio alla città. È stata scritta in fretta, senz'altro venne dettata. In essa non c'è da trovare la lenta riflessione o il giudizio meditato: si tratta di un dialogo veloce tra un uomo e la morte durante una pestilenza. Le considerazioni che Federico premette alle descrizioni, le descrizioni stesse, i casi narrati, la morte presente in maniera quasi naturale con un suo risvolto macabro e terrificante fanno del De Pestilentia uno scritto in cui appare lentamente l'animo del cardinale. È un finale, un testamento: egli morirà il 21 settembre 1631. Era intento a «riorganizzare i quadri» - così diremmo oggi - del clero ambrosiano.

La processione dell’11 giugno

Aveva il Cardinale Federico colpe? Sovente si legge che una è sicuramente da addebitargli:
la processione dell'11 giugno, quella gran riunione di folla che fece esplodere il morbo. Ma anche qui è difficile accusare il cardinale. Se si ha la pazienza di leggere gli avvertimenti di san Carlo sopra la peste, tutto si chiarisce. Prescriveva il santo che con l'avvicinarsi del contagio ogni vescovo facesse più volte le «processioni triduane», che esponessero le «Quarant'ore», che ogni pastore dovesse organizzare «solenni processioni e supplicazioni tante volte quante gli parrà bene»

Anche qui Federico aveva seguito Carlo. Con una fiducia che sconfina nella fede e con quel suo animo deciso e popolato da enigmi che i secoli, la lettura dei suoi manoscritti e delle opere che ha lasciato non riescono certo a sciogliere.

L’origine della peste

Questo fenomeno morboso e questa gravissima strage possono aver avuto varie cause, che esamineremo ordinatamente. Infatti anche Omero nel riferire le cause della peste dispiegò la forza della sua intelligenza e della sua saggezza laddove, mescolando realtà e favole, cantò che Apollo aveva scagliato molte frecce. E tale era l'immagine del morbo.

Apollo scaglia la peste

Che la peste sia anche un'arma dell'ira divina non è solo noto in base a prove naturali, ma lo affermano pure i sacri Dottori. Morì per tale contagio un mercante straricco, lo stesso che due giorni prima di spegnersi disse di non aver nessuna paura, eccetto che da parte del proprio barbiere: licenzia perciò il barbiere e ne prende a servizio un altro e lo mantiene in casa tra tutti gli altri servi: costui era malato di peste; così mercante e barbiere morirono insieme.

I soldati sono immuni

Inoltre è stato notato, non senza meraviglia di molti, che raramente la peste contagiava un soldato.

Eppure furono dei soldati a introdurre tale male, ma pochi di loro nel frattempo perirono di questo morbo e quasi la peste non toccò le truppe germaniche causa prima del contagio. Inoltre il nostro esercito di stanza nelle regioni ai piedi dei monti riceve quotidianamente rifornimento da questa città e provincia, eppure esso rimane immune, il che potrebbe costituire la prova che la peste è un'arma divina, che colpisce in profondità e occultamente quanto è destinato.

Soldati Lanzichenecchi

Del resto, se oltre ai misteri del giudizio divino volessimo cercare alcune cause per cui in limiti naturali accade che la peste quasi risparmi i soldati, tra le altre si potrebbe indicare questa: che i corpi dei soldati irrobustiti nelle fatiche e resi sempre più forti risentono meno delle durezze del Cielo. Inoltre, essi raramente abitano ammassati dentro una casa, cambiano spesso i luoghi, alimentandosi per lo più tra i campi, e io ho chiaramente sentito un comandante dell'esercito germanico il quale affermava che non trovavano contro la peste nessun rimedio più efficace che il trasferire in altre sedi quella parte dell'esercito che già era stata infettata, e subito dopo in altre ancora. Infatti egli diceva che grazie a quel mutamento venivano spezzati e dissolti, per così dire, il filo e la trama della malattia stessa; così come anche col cambiamento di luoghi e tempi si rompe il corso delle congiure e ne vengono dissipati i piani.

Il ruolo della carestia

Per quanto attiene a quelle cause della peste che derivano dalla natura, dalla disposizione delle cose e dalla condizione umana, si può senza dubbio affermare che la carestia che precedette il morbo in gran parte fu causa della peste stessa, quasi che la consunzione sopravvenendo dopo la carestia trovasse i corpi degli uomini indeboliti, in quanto le forze erano state distrutte, e resi quasi esangui, e anche perché gli animi erano costernati e afflitti e pressoché ridotti alla disperazione, e da questa schiacciati e oppressi i poveri disprezzavano i poteri, i magistrati e persino la morte. Molti di loro dicevano che era meglio morire una volta per tutte piuttosto che soffrire a lungo ed essere lentamente consumati. 

La rivolta del pane

Le cause della sollevazione affondano nella carestia che affligge il Milanese negli anni 1627-1628 e che ha prodotto un notevole rincaro del prezzo del grano e del pane, mentre la voce pubblica accusa i fornai di nascondere la farina per fare alzare il prezzo del pane, cosa che naturalmente è infondata ma contribuisce a creare un clima di sospetto intorno ai bottegai. 

La rivolta del pane é la sommossa popolare che si scatena a Milano nei giorni 11 e 12 novembre 1628, per questo detta "tumulto di S. Martino" o anche "rivolta del pane"

L'imposizione di un calmiere al prezzo del pane su iniziativa del gran cancelliere Ferrer viene accolta con favore dal popolo di Milano, anche se lascia insoddisfatti i fornai costretti a produrre una gran quantità di merce e a venderla sotto costo, con ingenti perdite economiche; la revoca del provvedimento ad opera di una commissione fa respirare i fornai, ma inasprisce il popolo che, esasperato dalla penuria, cerca un pretesto per dare inizio alla rivolta.

Addentare le erbe

Più o meno, tra la carestia e la peste intercorse lo spazio di un anno e appena terminata quella successe questa.Ormai gli ospizi, i pii alberghi e i ricoveri erano pieni di poveri: e non se ne potevano accogliere né accettare di più, e giungevano talmente avviliti sia dalle offese dei soldati, sia dalla sterilità della terra, che non riuscivano più a resistere. S'erano nutriti di cortecce d'alberi, e una porzione di crusca per loro era simile a un cibo squisitissimo.

I milanesi erano stati a tal punto indeboliti e consunti sia dalla violenza dei soldati che strappavano loro il pane di bocca sia, come ho detto, da tutte le altre disgrazie che, quando poi furono giunti in città, non riuscivano a mangiare e a digerire i bocconi che venivano dati loro come cibo.


Poiché la peste aveva colpito corpi e animi così estenuati, tale male non era tenuto in alcun conto da persone che desideravano per lo più la morte, e morivano lietamente per non tormentarsi ancora pascolando nei prati e addentando le erbe. E questi furono casi visti in grandissimo numero.


Nell'anno 1629 sulla pubblica via fu visto un giovane di aspetto e portamento nobile, consumato dalla fame e dalla malattia, incapace di starsene in piedi, appoggiato perciò in qualche modo a un muro, dopo essersi alzato a fatica da uno strame e da alcune coperte. Urlava costui per il fatto che volendo andarsene e portare con sé le coperte, temeva che non appena si fosse chinato, gli sarebbero mancate le forze per rialzarsi. Aveva ben presente con quanta fatica si fosse prima levato e non voleva lasciare quello strame che costituiva la sua ricchezza e il suo letto.

I Principi untori

Poiché tanto si diffondeva e aumentava la peste, penetrò profondamente negli animi di molti l'opinione che ciò accadesse per opera di alcuni Principi, i quali, per poter realizzare i loro progetti, spargevano questi veleni e infettavano la popolazione. E poiché codeste opinioni risultano abbastanza plausibili tra il volgo e sono accolte con animi creduli, di per sé tale fatto fu di grave danno alla situazione generale. Infatti, mentre sarebbe stato meglio che si ponesse ogni cura nel respingere e scacciare la peste, gli animi furono distolti a indagare chi mai fosse stato il macchinatore e l'artefice di una frode così grave.

Può anche darsi certamente che questi untori avessero concepito nell'animo la speranza di realizzare imprese straordinarie e grandissime, così come anche gli alchimisti e i maghi sono creduli e fin troppo facili ad attendere tutto quanto hanno desiderato. Può anche darsi che abbiano sperato che, estinta una folla così grande di cittadini, essi stessi avrebbero avuto in potere le ricchezze di tante case e che fondi, campi, possedimenti sarebbero stati in mano loro.

Si era sparsa la voce che alcuni imputati tra le torture avessero confessato di essere stati stipendiati da un grande Principe per quel servizio e quel compito di ungere. Tuttavia, quando i giudici indagando e interrogando cercavano di sapere quale mai dei Principi fosse quello, non si poté cavarlo fuori. Ma forse il Demonio si fece beffe attraverso le apparenze e furono permesse alcune cose del genere

Salvaguardia dei magister

Diverse le colpe o gli errori di coloro che amministravano lo Stato in questa vicenda. Infatti da una parte non adottarono rimedi per tempo contro il male, dall'altra lo stesso tempo che si sarebbe dovuto dedicare ai rimedi lo persero cercando in qualche modo di scoprire chi fossero mai gli untori di unguenti.

I loro animi erano occupati dal sospetto che fosse stata organizzata una congiura per impadronirsi della città e trasferirne il potere, cosa che io ho sempre ritenuta completamente priva di fondamento.

Avrebbero dovuto inviare fuori città non solo quelli che la peste avesse già infettato completamente, ma anche quelli che avesse indicato anche un minimo sospetto di tale male. Avrebbero dovuto far costruire ricoveri prima che giungesse la necessità stessa e l'occasione di servirsi dei ricoveri, e tale ritardo fece sì che la peste di un uomo solo ne contaminasse dieci e che dieci ne contaminassero cento. Ma dacché sempre più intensamente aveva cominciato a serpeggiare e ad aumentare il male, affinché non scomparisse la classe intera degli artigiani, i Capi e i Rettori della città, compiuta una scelta di artigiani, avrebbero dovuto mandare i Maestri di ogni attività e tutti i migliori nel proprio ramo in luoghi salubri e mantenerli ivi a spese pubbliche finché ci fosse stata la peste in città.

E non sarebbe stato un impegno di così grande spesa mantenere trecento operai, quale era stato press'a poco il loro numero. Questi in seguito, conservati salvi e incolumi, sarebbero tornati in città e sarebbe stato leggero il danno in tale campo se fossero morti i giovani garzoni e gli aiutanti di infimo conto delle officine, essendo ovviamente facile la sostituzione di tale gente e facile il ritorno agli antichi opifici, affinché non scomparissero i prodotti commerciali come di fatto accadde.

Noi nei primi tempi della peste avevamo esaminato quali in tutto il clero fossero i sacerdoti più validi e migliori e, purché non fossero tenuti occupati da cura d'anime o da impegni del genere, li mandammo fuori città. In tal modo grazie a noi, furono salvati, eccetto ripeto i curatori d'anime che coraggiosamente consacrarono la loro vita alla difesa del gregge e morirono nell'adempimento del loro dovere. Del resto non si sarebbe dovuto agire altrimenti.

I demoni

Non appena aveva cominciato a infierire la peste, si diffuse tra il volgo una certa convinzione che coloro i quali esercitavano l'impegnativa arte di ungere mescolassero agli unguenti anche accordi pattuiti coi Demoni, e che gli stessi unguenti risultassero composti di veleni oltre al veleno vero e proprio della peste.

Dicevano che dai demoni erano ricercati e raccolti rospi e serpenti: tali bestie venivano fatte cuocere e mescolate con il marcio che usciva dalle ulcere dei corpi affetti da peste. In tal modo triplice era stata per loro la via per portare strage: con l'aiuto cioè dei Demoni, per mezzo dei veleni e per mezzo della peste stessa.

Che tutto ciò sia potuto accadere, facilmente sono portato a crederlo; infatti sia i tossici sia le pozioni magiche sono in grado di annientare la vita e nota è la natura della peste. Ma il volgo, secondo il suo costume, come del resto anche alcuni saggi, con un facile passaggio dal vero al fantastico, furono propensi a credere che la città fosse stata occupata dalla forza dei Demoni e che tale forza si fosse ampiamente diffusa per tutti i luoghi, e perciò chiesero che con preghiere e cerimonie tali luoghi fossero purificati. E al pressante desiderio di costoro io diedi soddisfazione.

Furono queste opinioni e questi sospetti le testimonianze e le parole di alcuni individui che, arrestati a causa di unguenti e veleni, dissero sotto tortura di essere stati costretti da un patto e da un giuramento di fedeltà e di essere spinti ai delitti dall'istigazione di quello e confessarono ciò non uno o due persone, ma certamente parecchie.

E ce ne furono di quelli che al Giudice, che li incalzava e li metteva alle strette, dicevano che erano impediti da una forza occulta di confessare il vero: che la gola era loro serrata e ostruita e che era stata data loro dal medesimo Demonio una pozione che, con un arcano potere, proibiva anche di confidare qualsiasi cosa.

Grazie alla confessione di un uomo fu scoperto ciò che difficilmente si potrebbe credere e che ritengo non sia stato poi tanto divulgato. Che cioè, posti sul cavalletto o torturati nei modi più atroci con ogni genere di tormenti, uomini di tal fatta - essendo stata cancellata per intervento violento dei Demoni dalla loro mente la memoria dei fatti che dovevano confessare - avevano subito un tale impedimento da non poter comunicare fatti di cui pure erano a conoscenza: di lì era nata quella ostinazione ribelle alle torture.


Tortura del cavalletto: con questo termine si indica anche uno strumento di tortura noto anche come tavolo di stiramento, composto da una struttura in legno su cui la vittima veniva distesa. Grazie a un sistema di corde e pulegge le braccia e le gambe venivano tirate, fino anche alla disarticolazione

Che così stessero le cose è assai probabile e anche il mio animo è disposto a crederlo. Infatti non si tratta di dire che il Demonio può recare violenza alla volontà degli uomini, che resta assolutamente libera; ma quello può certamente indurre nell'animo un oblio di tal genere che uno non possa confessare e ammettere fatti il cui ricordo sia stato completamente cancellato dalla mente. Io, sentendo dire tali cose, rispondevo ai loro espositori che esse non erano tanto incredibili e strane quanto credevano e consideravano essi stessi; poiché tutti gli stregoni, le maghe, i maghi e alcuni fattucchieri hanno stretto un patto col Demonio e in forza di tale patto è loro concessa sia la forza sia la capacità di porre in opera quanto vogliano realizzare.

Dicevo che il fatto non doveva suscitare una reazione tanto confusa: che piuttosto volgessero l'attenzione a che fossero distribuiti alimenti al popolo affamato; che punissero i colpevoli; che si ricorresse come rimedio alla quarantena e a tutti gli altri provvedimenti per tenere lontana e respingere la peste; che si insistesse nelle suppliche e nell'implorare la protezione divina, che è più potente di ogni malvagio inganno dei Demoni. Io queste cose le dicevo.

Gli untori

Ma non appena il contagio aveva incominciato a infierire in città, si originarono un grave sospetto e gravi terrori che esistessero degli uomini perduti che ungevano e avvelenavano tutti i luoghi e i corpi stessi, diffondendo in tal modo la peste. 

Sopra tale questione sono state fatte molte affermazioni e supposizioni e ci furono alcuni che ritenevano la faccenda essere completamente falsa e inventata.

Circolava la diffusa convinzione che per portare la peste e la morte bastasse toccare appena con tale unguento l'abito a qualcuno, e che fossero stati portati via da questo veleno molti che invece era stata la peste stessa a distruggere. 

Ciò appunto accadeva per una certa abitudine degli uomini a trasferire le proprie colpe su cause esterne e, quasi cercando una scusa alla propria negligenza, dicevano non di essersi appestati per un contatto o rapporto imprudente, ma che era stato teso loro un inganno per mezzo di veleni.

Come a maghi e avvelenatori i Demoni fanno molte promesse ma non le mantengono, così questi untori credettero a molte menzogne, come se potessero essi stessi restare immuni dal male e inattaccabili dalla peste e insieme potessero farsi assassini di chiunque volessero. Una donnetta affermò che erano caduti di sua propria mano tremila uomini; un'altra affermò di essere stata assassina di quattromila.

Come propagare la peste intenzionalmente

Ci furono alcuni che cospargevano di polvere avvelenata la terra o i corpi degli uomini, oppure i frutti e tutte le altre merci che mettevano in vendita per le varie necessità della vita. Altri, dividendo piccoli bocconi unti, andavano in giro per le campagne, e in tal modo contaminavano la gente semplice e bisognosa. Altri distribuivano dolci e biscotti unti e infettati di veleno, attraendo con la dolcezza di tale esca un bambino e qualche bambina, a seconda di come era risultato loro opportuno. Parimenti unsero paglie e spighe affinché le contadine assoldate per mietere le messi durante il lavoro contraessero la peste. Unsero pareti, usci di case, battenti di porte cittadine e angoli e là dove non potevano arrivare cercavano di far giungere il veleno per mezzo di una pertica o di un mantice. Unsero anche delle monete e le diedero ai poveri fingendo di fare carità. E fu scoperto chi ungeva con la medesima marcia le vasche dell'acqua benedetta. Avendo una signora ordinato di distribuire ai poveri delle porzioni di riso cotto, il servo incaricato del compito infettava di unguento il cibo e fu colto in tale delitto. Un altro fingendo di fare la guardia ungeva le altre sentinelle.

E ci fu chi distribuiva rimedi contro la peste nei quali era contenuta la peste stessa. In seguito, catturati e gettati in carcere, costoro tentarono vie di scampo, cercarono di aprirsi un varco tra le guardie, ma non riuscì loro alcun tentativo.

Si raccontavano tutti questi fatti che noi non abbiamo intenzione né di respingere né di affermare.

Tuttavia noi siamo propensi a crederli in gran parte, e di certo io posso sostenere che ci fu un uomo che, mentendo l'abito e la veste di un ordine religioso, fu accolto entro quelle mura, cosicché sparse quegli unguenti che infettarono di peste tutti quanti i frati di quel monastero.
Una forza mortale resta a lungo nei veleni; inoltre è noto che una veste infettata dall'unguento pestifero può nuocere dopo molti anni a chi la tocca, specialmente se si aggiunge anche l'inganno di diavoli.

Ma è stato accertato che molti unguenti erano stati completamente inefficaci e nei primi giorni della peste le transenne della Chiesa cattedrale, che separano il settore e i posti riservati alle donne da quelli dell'altro sesso, risultarono appunto unti, ma quell'impiastro untuoso fu inefficace in quanto gli avvelenatori erano ancora inesperti. 

E una notte le strade e le vie della città furono trovate cosparse di polvere, ma l'averla calcata e toccata non fece danno a nessuno. Ciò poté accadere o per l'inesperienza degli artefici, che in maniera poco adatta mescolarono e cossero l'impiastro, o per il periodo di tempo e il ritardo che annullò la forza mortale. Infatti la natura di tutti gli unguenti è tale che svaniscono e la loro tenue essenza calda facilissimamente si riduce a nulla, perciò sembra necessario (da parte degli untori) tenere serrate tutte le scatole e i vasetti di unguento.

Molti di quelli che venivano portati malati nel lazzaretto, o che venivano condotti là per compiti e necessità diverse, furono trovati in possesso di unguenti e questo dissero essi stessi morendo per paura del giudizio divino. Anzi uno di loro, non appena entrò nel lazzaretto, spontaneamente confessò di aver stretto un patto col Demonio e mostrò un luogo dove aveva dei vasetti sepolti di unguento e, terminata la confessione, spirò. Ma poiché per caso moriva troppo lentamente voleva farsi violenza, e poiché mancava una spada tentò di aprirsi la gola col taglio di una moneta. Del resto entro le mura del lazzaretto a nessuno venne l'idea di portarvi alcun unguento benché molti fossero venuti col preciso scopo di ungere.

Questi untori giunsero a un tale grado di esaltazione e pazzia che bramavano di nuocere ai vicini e ai parenti, così come è accertato che maghe e fattucchiere provano il piacere più intenso quando possono nuocere ai bambini più belli o ai personaggi più nobili. Ciò fanno per ordine del Demonio stesso, che perseguita con odio mortale tutte le creature più elevate e più buone, e le fattucchiere stesse si ritengono meritevoli, comportandosi così, nei confronti del loro diavolo.

In altri tempi l'uso dei veleni fu cosi frequente che si ebbero artigiani e officine adibite a tale scopo e in molti luoghi erano in auge.

Ora non risulta che ci siano degli unguenti né in città né nelle campagne, eppure rimangono ancora le tracce della peste. Quei malvagi infatti sono stari dispersi e si sono allontanati chi in un luogo chi in un altro, e insieme con la speranza di grandi cose hanno portato via anche i progetti che avevano elaborato.

Se capo e autore del piano fosse stato uno dei Principi, non avrebbe cosi facilmente rinunciato ai suoi disegni. Infatti le decisioni e i progetti dei Principi, tutto quello che essi hanno in mente per conseguire il potere, è qualcosa di troppo ostinato perché sia cosi repentinamente rimediato

Che in verità questi untori fossero i più scellerati dei mortali, lo ha evidentemente dimostrato la loro stessa fine, Di essi, infatti, alcuni non diedero alcun segno di pentimento nei momenti estremi e la rabbia e il furore dei morenti fu prova dell'animo che avevano avuto. Anzi uno di loro, colto proprio nell'atto delittuoso di ungere, non potendo altrimenti evitare il violento assalto della folla, balzò su un carro dove venivano trasportati dei cadaveri, stimando di poter essere ivi in salvo. Ma il fatto andò ben diversamente, Infatti fu trafitto di ferite e fu così condotto in carcere dove poco dopo spirò; quindi venne posto sulla stessa carretta e portato alla fossa dove tutti gli altri cadaveri furono inumati.

Renzo dei promessi sposi salta sul carro degli appestati per sfuggire dal pericolo

Casi prodigiosi

Ci fu una nobile giovinetta a cui la peste piagò a tal punto la bocca e la gola che, essendo bloccate le labbra da un orrendo tumore, non poteva introdurre nessun cibo e per tre giorni intieri visse in tale stato.
Passati i tre giorni, i medici praticarono un'incisione; quindi attraverso un tubo inserito nella gola ella poteva assumere del cibo. E in tal modo s'era liberata dal male della peste: peraltro, mentre quasi integra e sana costei veniva sottoposta a una prova di alcuni giorni ancora, improvvisamente morì.

Uno dei padri Carmelitani presso la chiesa di S.Giovanni - che prende il soprannome dalla Conca- aveva la lingua così piagata da un'ulcera pestilenziale che protrusa fuori dalla bocca spuntava per la lunghezza di due dita; costui perì, oltre che per la malattia della peste, anche per la mancanza di cibo in quanto non poteva masticare assolutamente nulla.

Invece nel recinto del lazzaretto una donna, spinta alla pazzia dalla violenza del morbo, per cinque giorni si aggirava nuda qua e là in corsa precipitosa e rodeva e spezzava col morso le funi con cui si voleva legarla, e con pari violenza stracciava le vesti gettatele addosso per pudore. Rimasta intanto senza alcun cibo, offriva un miserevole e tremendo spettacolo. Passò poi quella pazzia e la donna ritornò in sé, assunse del cibo, si ristabili e sopravvisse. Mentre ci veniva esposto il caso di questa donna da coloro che l'avevano visto, ci ricordammo che anche Tucidide nel descrivere la peste di Atene narra che la natura del morbo e dei tempi fu tale che tutti quelli che ne erano presi amavano la nudità e non potevano sopportare in nessun modo le coperte gettate loro addosso.

l Lazzaretto di Milano è stato un luogo simbolo della storia e della cultura della città, testimone di eventi tragici e straordinari. Costruito tra il XV e il XVI secolo, fu concepito come un ricovero per i malati durante le epidemie, in particolare la peste. Il suo nome deriva dal termine veneziano “lazzaretto”, che indicava un’isola dove venivano isolati i lebbrosi.

Nel medesimo recinto e nei chiostri del lazzaretto un altro passò parimenti cinque giorni senza alcun cibo, senza dir nulla mai per tutto quel tempo, così che costui veniva dato per morto. Ma una notte penetrò nelle stalle dei becchini e, sciolto un cavallo selvaggio che era per caso tenuto lì, salì di propria volontà sull'animalé così come era, senza sella né briglia, e attraverso i prati del lazzaretto, per tutta la notte, fu trascinato in una tale corsa che scoppiarono i fianchi al cavallo. Il cavaliere poi assunse del cibo e si ristabili.

Ci fu uno a cui la crudeltà della malattia piagò le gambe al punto che fu necessario secargliele e amputargliele: pure costui si ristabili e con l'aiuto di stampelle ora cammina.

Ci furono alcuni che la medesima malattia, dopo aver loro lacerato il petto, scoprì fino agli intestini, cosicché gli stessi venivano inumiditi con vino bianco e avvolti di fasce in modo che non uscissero ulteriormente. E anche costoro si ristabilirono.

Ci fu uno che spinto alla follia immaginava di essere Papa; costui uscito dai chiostri del suo ordine vagava alla ricerca di qualcuno che gli baciasse il piede come al Sommo Pontefice. E poiché ciò non accadeva e non gli si davano baci alle piante, per il dolore rimase tre giorni intieri senza alcun nutrimento. Poi il Parroco Comerio (questi dirigeva il lazzaretto), capita la malattia di quell'animo, convinse alcuni a baciare comunque il piede a questo pontefice immaginario, se per caso questo poteva costituire un rimedio. Gli si accostarono alcuni a dargli per scherzo dei baci e quello, cacciato il dolore, assunse del cibo e si ristabilì.

Ci fu uno che con la mente offuscata si immerse nelle acque e rimase lì per tre giorni senza cibo, canterellando, con l'acqua che gli sfiorava le labbra. Lì affermava di essere al sicuro dalla guardia, eppure temeva nel frattempo le guardie quasi che gli fossero ormai alle spalle: si tormentava anche perché diceva che gli erano state sottratte con un furto dodicimila monete d'oro dategli in dono dall'Imperatore. Quest' uomo, dopo che fu persuaso che il ladro era stato ormai preso e recuperato il denaro, ritornò in sé. Riferisce Tucidide nel descrivere la peste di Atene che gli uomini in quel tempo ebbero il medesimo desiderio e questa brama di volersi immergere nelle acque e di considerare il piacere più gradito il trovarne di particolarmente fredda.

Un carrettiere o cocchiere, colpito dalla peste, trascorse addirittura dieci giorni senza alcun alimento.

A una donna la medesima malattia divorò a tal punto una delle due guance e tanto la contaminò che fu necessario inciderla tutta e asportargliela e tuttavia sopravvisse a questa tortura.

Lo spettacolo più nauseante era scorgere sangue versato in grandissima quantità da coloro che erano trafitti e dilaniati dalla decomposizione interna dei bubboni. Ci furono due che il mal di testa tormentò al punto che gli occhi schizzarono loro fuori dalle cavità e immediatamente spirarono.

In mezzo a violenti spettacoli di questo genere ci furono anche di quelli che, ridendo e abbandonandosi a gioie smodate, persero la vita mentre affermavano di non avere alcuna malattia né alcuna peste.

Ora continueremo a riferire e a narrare altri casi, grazie ai quali i lettori potranno conoscere anche i costumi abituali della città, e che aspetto aveva prima della peste stessa. Molti presi dalla follia si buttarono a precipizio dalle finestre della propria abitazione, da balconi e da tetti e allora i vicini, dimentichi della propria salute, accorrevano per essere d'aiuto. 
Un tizio si buttò in un pozzo e accorrendo un Parroco col rimproverare e interrogare il frenetico, pervenne al punto che fu strappata una qualche specie di confessione: essa gli risultò comprensibile e perciò ci fu condizione per l'assoluzione.

Da così gran peso di cadaveri erano schiacciati carri e carretti che schiantatisi questi e spaccati i carri, i cadaveri cadevano giù e disseminati a terra vi giacevano per qualche tempo, per il fatto che il numero dei carri era impari rispetto alla moltitudine dei morti.

Dei becchini era tanto grande la crudeltà e la ferocia che irridevano persino alla sciagura e alle miserie pubbliche con insolenza. E uno di essi, portando un bambino piccolo affetto da peste, scherzando diceva di aver preso una lepre e mostrava il piccolo come fosse un leprottino.

Nel sacro giorno dell'Ascensione in quel quartiere della città che si chiama Porta Tosa alcuni dissoluti ballavano in qualche modo con atteggiamento di insolente scherzosità. Accadde che alla sera tutti quelli furono trovati contaminati dalla peste e portati via entro i recinti del lazzaretto; lì furono tutti privati della vita. Avevano avuto i loro suonatori di cetra questi ballerini, che, parimenti scoperti affetti da peste e portati al lazzaretto, per venti giorni (per tanto tempo infatti sopravvissero) si ferivano con colpi reciproci e accesi da forsennati odii si buttavano a terra l'un l'altro con furiosa violenza. Si vedevano sul volto contusioni, lividi e lacerazioni, che si erano fatti reciprocamente come oltraggi, e perirono tutti. Ovviamente: questo poté essere un'evidente prova della giustizia divina nei confronti di coloro che così osano violare le solennità dei giorni consacrati.

Se una donna gravida aveva contratto la peste, aveva un parto con aborto. Alcuni dicevano che il morbo non colpiva gli animali adducendo questa prova: ne sarebbero morti quelli che tiravano i carri. Invece noi affermiamo che gli animali muoiono di peste e risultò accertato che ne erano esempio le capre, delle quali pure fece strage la peste all'interno del lazzaretto.

Forse le forze dei cavalli poterono essere immuni da questo male, come anche i più robusti degli uomini ne furono immuni. In Tucidide si trova che il cane, animale familiare all'uomo, e tutti gli altri animali che si nutrivano di cadaveri furono soggetti alla peste. Ma anche prima di Tucidide, Omero aveva cantato che muli e cani erano periti di peste.

Milano impestata

Ora comincerò a descrivere brevemente quali fossero lo stato e l'aspetto della città allorquando infuriava al suo culmine la peste. Questo fu un periodo di circa due mesi, cioè dall'inizio di luglio alla fine di agosto. E senza dubbio i mucchi di cadaveri e il disgustosissimo fetore nutrivano e alimentavano il contagio. Infatti, benché fossero state scavate fosse enormi e buche profonde per accogliere cadaveri, da esse giungeva l'influsso nocivo della puzza non solo alle case vicine, ma penetrava anche nelle parti più interne della città e poco mancò che fossero contaminate l'aria stessa e la porzione di Cielo diffusa sopra la città. 

Addirittura in quel quartiere che si chiama Porta Nuova, dove si visita il tempio della martire Anastasia e una croce lì posta in un bivio, gli abitanti delle case furono costretti a trasferirsi altrove non potendo sopportare tale fetore. E poiché non erano state preparate le buche per accogliere i cadaveri e non bastavano i carri per trasportarli, i corpi giacevano putrefatti lungo le vie.

Molti mentre procedevano verso il lazzaretto o altri ricoveri preparati fuori della città e vi andavano con le proprie gambe, cadevano avendo affrettato la morte e si aggiungevano ai cadaveri già sparsi a terra; e quasi non era possibile muovere il passo che in ogni momento fossero toccate membra à morti. Quei corpi inoltre, per il fango dovuto alle continue piogge, sia per la nudità dele membra, sia per la marcia delle ulcere, turbavano gi animi e li riempivano di terrore.

I becchini prendendoli e ponendoli sui carri non potevano coprirli né velarli né comporli a causa del gran numero, ma venivano trasportati con le gambe e le braccia penzolanti. Persino le teste pendevano se per caso qualche corpo era di statura un po più grande del normale.

E intanto i becchini, cosa che potrebbe sembrare quasi incredibile a dirsi, si erano abituati a trattare con tanta familiarità la morte e i cadaveri che si sedevano su di essi e, stando seduti, bevevano in continuità.

Portavano via i cadaveri dalle case dopo esserseli caricati sulle spalle come una bisaccia o un sacco, e li gettavano sui carri. Spesso accadde che. mentre qualche morto veniva tolto da un letto, un braccio che il becchino per caso afferrava, essendosi ormai putrefatta e dissolta l'articolazione, si staccava dal busto, e allora abbracciato l'osceno peso essi le affidavano al carro, così come sono portate tutte le altre merci.


Talora furono visti trenta carri in fila ininterrotta pesantemente carichi di cadaveri quanto dei cavalli aggiogati insieme potevano tirare. E il vicinato della Chiesa cattedrale aveva approntato un carro di inusuale grandezza, col quale, fatto andare e tornare piuttosto frequentemente, si sarebbe potuta svuotare qualunque altra città. I carri talvolta erano gravati da tanto peso che i giumenti aggiogati non bastavano ed era necessario cercare altri animali e porli sotto. E, poiché tale operazione per cui si erano fermati poteva magari comportare una certa sosta, si udivano le grida di tutti gli abitanti dei dintorni a causa dell'odore disgustoso.

È camminando a caso per strada molti cadevano; e i corpi putrefatti di costoro emanavano tali fetori, che gli abitanti delle case vicine erano costretti a uscire e a portare via i cadaveri. E un giorno nel palazzo dei nostri Canonici, essendo molti i morti, era tale la pesantezza dell'odore che degli amici certamente fidati mi mandarono a chiedere che dessi l'ordine di chiudere le finestre rivolte verso il portico. Tanto rapidamente i corpi privi di vita si corrompevano e una volta corrotti tanto disgustosamente puzzavano!

Uno rimase in vita, cadutegli ambidue le gambe incancrenite; un altro, scoppiatogli un bubbone sul petto, mostrava, in respirare, orrenda vista i palpitanti polmoni!

Del resto si vedevano le strade della città piene di stracci, di tavole e di ogni genere di vesti e ostacoli al punto che non rimaneva nessun luogo vuoto. Si muovevano solo i becchini e gli altri incaricati: dei cittadini se qualcuno si muoveva lo si identificava subito dall'aspetto lurido, dai capelli lunghi e dalla barba lasciata crescere per molto tempo per il fatto che temevano le frodi insidiose delle botteghe dei barbieri. Se ne andavano senza mantello, appoggiati a un esile bastone: opprimente e miserevole spettacolo.

Gravissimo pericolo di contrarre la peste era nello stesso camminare, e anzitutto si stava in guardia dalle pareti stesse a causa degli unguenti avvelenati che era possibile scorgere qua e là, e a uno dei nostri familiari poiché si era avvicinato troppo a un muro cadde sulla testa molta polvere avvelenata. Noi pure a causa del nostro compito, avendo la necessità di recarci in ogni località, non mettevamo il piede a caso dappertutto, dal momento che ci si presentavano davanti pagliericci sui quali si trovavano alcuni morti o le stesse bende per i bubboni e i carbonchi gettate giù dalle finestre.

Serviva a mantenere la salute il fatto che, come ciascuno usciva di casa, subito al ritorno cambiasse le scarpe e la veste. Lo avevo raccomandato ai preti di usare una tonaca più corta o anche una sopravveste di lino di colore nero, per il fatto che questo indumento era più sicuro in tale occasione e la lana raccoglie più facilmente e più tenacemente la peste.

Doi huomini che andavano per Milano feriti dalla peste, senza palesarla, sono stati hieri decapitati ad esempio di altri; stava la sentenza che fossero archibugiati vivi, ma per grazia hanno ottenuto di morire come è predetto.

Monatti

Già si vedevano aperte le case, non vi era più alcun battente di finestre e usci: tutte quante erano abbandonate al saccheggio per becchini e ladri. Costoro sotto pretesto di disinfettare, lavare e bruciare, arraffavano e trasportavano ogni bene e in tale occasione erano padroni delle cose. Ed ecco costoro senza vergogna né rispetto di niente qualunque cosa si presentasse loro calpestarla, arraffarla, farne preda, buttarla via o grazie all'ampia libertà connessa col loro compito o in fretta e furia mentre andavano rapidamente dalla città alle fosse, dalle fosse alla città senza alcuna sosta

Dapprima campanelli e vesti di colore rosso servirono come segni distintivi per costoro, poi infierendo sempre più la malattia li tralasciarono e non erano più individuati da alcun segnale. Tale razza d'uomini scacciati a prezzo fuori dalle sue aspre montagne correva alla morte per avidità di guadagno. Ma ce ne furono anche alcuni che sopravvissero e si scoprì che tutti i peggiori e i più delinquenti furono subito estinti, che la peste risparmiò per qualche tempo quelli migliori.


Uno di essi, dopo aver seppellito con le proprie mani quarantamila cadaveri e aver compiuto coraggiosamente e onestamente il suo dovere, congratulandosi infine entrò nel lazzaretto e lì avendo pranzato allegramente con gli altri compagni non poté evitare la malattia.

Questo genere di uomini, benché fosse considerato pauroso e disgustoso e tutti fuggissero dalla loro vista e dal loro contatto, era tuttavia pubblicamente implorato dalle finestre affinché volessero entrare a prendere i cadaveri. Naturalmente lo schifo e l'orrore suscitato dai becchini era superato da un altro schifo e orrore, dal momento che i corpi putrefatti grondanti di marcia e di sangue corrotto restavano davanti agli occhi dentro la camera, spesso dentro il medesimo letto. Ma con essi non valevano le lacrime, non le preghiere: con il denaro bisognava ottenere che essi entrassero nelle case. Appena entrati, come ho detto, si scatenavano e non servivano più le leggi.

E venne il tempo in cui anche i delitti e le offese di costoro furono trattati con indifferenza, dopo che ovviamente era sopraggiunta la pubblica disperazione.

Morti erano gli apparitori, le guardie e i servi pubblici: anche la custodia delle carceri era trascurata e quando bisognava eseguire la condanna di qualcuno si cercava inutilmente un boia. Anche i magistrati e i giudici delle cause capitali erano morti ed era stata la peste di tale violenza quale suole essere quella di un torrente, quando è trascinato da una furia totale e strappa e porta via ogni cosa.

Cercavano di gridare dalle finestre molti con flebile voce, chiedevano un'elemosina e mezzi di sostentamento dopo aver calato giù dei sacchetti e dei panieri, non risultando vana la loro preghiera. Anzi soldi e offerte venivano dati con generosità e ben si può dire che nulla mancò meno ai poveri in questo tempo che alimenti e pane. Del resto, quando la peste aveva smesso di infuriare ed era cessato il disgustosissimo odore di cadaveri, essendosi ormai dissolti e ridotti in terra i corpi, seguì un'esalazione ancor più nauseante di quel fetore, mentre venivano bruciati insieme stracci, vesti e materassi gettati lungo le vie.

Lazzareti

Ai primi paurosi sospetti di peste avevano creduto i Magistrati e i maggiorenti della città che potesse bastare ad accogliere la moltitudine il lazzaretto che fecero costruire fuori delle mura della città anticamente i Duchi di Milano, ed esso è meritatamente annoverato tra i nostri edifici degni di ammirazione.
Ma in breve quegli stessi edifici si trovarono pieni zeppi e fu necessario far costruire altrove dei ricoveri 

Entro quei recinti gregoriani morivano cinquecento al giorno e ciò per molto tempo. Tali recinti, ovvero mura del lazzaretto, nei primi giorni erano stati certo un opportuno rifugio per accogliere la moltitudine e liberare le case. Peraltro quando ormai tanta era la gente portata lì che erano disposti in dieci per ogni camera ed era necessario sistemare dei letti all'aperto in rutti i portici, si credette che la soluzione stessa avesse alimentato più intensamente la peste.

Pertanto sembra che possiamo indicare sia il vantaggio sia lo svantaggio di tale luogo come segue: senza dubbio se quegli edifici e quelle camere non sono completamente riempite il domicilio è salubre; se è affollato oltre misura c'è il pericolo che si corrompa l'aria a causa delle pareti tutt'intorno e del giro ininterrotto del muro attraverso cui i venti non possono passare liberamente. Meglio dunque sarebbe stato costruire ricoveri per tempo e ciò fu reso chiaro dalla sorte dei villaggi. Rimane un trattato di San Carlo sulla forma secondo cui bisognava preparare i ricoveri. Se si osservasse tale forma e descrizione non vi sarebbe più alcun bisogno di questi lazzaretti che vengono costruiti di sassi. E avesse voluto il Cielo che per tempo si fosse previsto e provvisto per ciò!

Perirono circa [...] cittadini: ai vari moti, crescite e decrescite della luna cresceva o diminuiva la malattia: mutava sede e luogo e si modificava persino l'aspetto delle ulcere.

Casi degni di pietà

Tra i drammatici esempi di questo tempo sopracitato mi sono sembrati degni di pietà quelli che accaddero a bambini e neonati dell'età più innocente e più ingenua. Ignara di pericolo e di morte, tale età cadeva nel modo più penoso e veniva sterminata quasi da colpa reciproci. Sotto il tetto paterno, nel letto e al tavolo contraevano la peste, mentre servivano i genitori affetti da peste, o venivano essi stessi infettati dalla cura di quelli e ne erano contaminati. Anche il fratello servendo il fratello, o la sorella piccola servendo la sorella in questi mutui atti di dedizione perivano contaminatisi reciprocamente, o si spegnevano dopo gli stessi genitori o prima della loro morte.

Si scorgevano schiere di fanciulli che si recavano al lazzaretto in gruppi e particolarmente miserevole spettacolo era il bambinetto più piccolo d'età che sosteneva uno più grandicello che non stava in piedi per la violenza del morbo, o questo stesso che prestava aiuto al minore, intanto, pur lui stesso senza forza e la capacità di reggere. E io vidi un giorno andando per gli incroci della città in un gruppo infantile di tal genere una bambina di sette o otto anni che, vacillando qua e là per la violenza della malattia, era sostenuta e tenuta in piedi da un fratello minore. Attraverso miserie del genere andavano al lazzaretto insieme e alla morte.

E come questa città, questa patria supera per bellezza di forme tutte le altre città e terre d'Italia e vi era prima della strage a Milano una bellissima progenie di entrambi i sessi; così misto ora alla bellezza si vedeva il languore, che avrebbe potuto spezzare di pietà anche gli animi dei barbari. E tali schiere di gente che usciva erano ogni ora sotto gli occhi.

Addirittura dentro alle camere e nelle case della città non una sola volta accadde che - essendo sul letto morti i genitori - la prole semplice e inconsapevole chiamasse papà e mamma, ritenendo che fossero assopiti e intanto avevano contratto anch'essi la peste e poco dopo morivano.

Col corpo appestato una donna si coricava riscaldando nello stesso letto il figlio neonato. Muore la madre e il figlio sopravvissuto per alcuni giorni succhiò le medesime mammelle e quegli alimenti non gli procurarono la morte, un caso come quello appunto che anche Plinio riferisce essere stato ritratto in un antico quadro.

Spesso furono visti posti sulle spalle dei figli i genitori mentre venivano ricoverati nei recinti del lazzaretto con grandi pianti di chi li portava, e cadevano sotto il peso.

In una povera casa - morti tutti quelli che vi abitavano - un bambino di quattro anni sopravvissuto al padre e alla madre poté provvedere a se stesso e scampò alimentandosi con qualunque cibo per alcuni giorni sotto il medesimo tetto. Né ciò deve sembrare incredibile a nessuno, essendo stato accertato con l'esperienza che la necessità è maestra anche di azioni grandi e inaudite.

A un padre morente, oltre alle solite esortazioni alle preghiere, solitamente recitate secondo il rito della Chiesa, nell'estremo momento della vita fu accanto il figlio esortatore a ben morire e maestro, col compito e l'ufficio di sacerdote.

Genitori portarono via i loro figli al lazzaretto e con le proprie mani li ponevano sui carri per non permettere che i becchini li toccassero. Una donna, tenendo tra le braccia un neonato contagiato dalla peste e baciandolo, essendo rimproverata dal medico proprio per questo, quasi cercasse di darsi spontaneamente la morte, rispose di essere spinta dall'amore materno e di non potersi privare di quella consolazione.


Essendo una bambina di nove anni morta sotto gli occhi della madre, questa non volle che essa fosse presa dai becchini, ma pose lei stessa sul carro il cadavere.
Poi rivolta ai becchini disse: «Voi prenderete stasera pure me» e, ritornata nella camera e osservato dalla finestra il funerale della figlia, poco dopo spira.

Questo episodio in particolare potrebbe essere stata l'ispirazione per una delle pagine più famose del "promessi sposi" del Manzoni 

ALESSANDRO MANZONI, I promessi sposi - capitolo XXXIV - La mamma di Cecilia

Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunciava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori.

Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de'volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.

Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così». Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affacendò a far un po' di posto sul carro per la morticina.


La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come su un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: «addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri». Poi, voltatasi di nuovo al monatto, «voi», disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola». Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.

Il ruolo delle capre

Entro le mura del lazzaretto inoltre, poiché alla moltitudine degli infanti non bastavano affatto le nutrici, venivano tenute in quei prati delle capre per tale compito, e anche quegli animali diedero alcuni esempi di carità da ammirare. Infatti queste, udito un vagito e delle grida di neonati, accorrevano spontaneamente, si abbassavano e porgevano le poppe, e se per caso il neonato non poteva raggiungerle con la bocca, col fracasso e una certa inquietudine chiedevano aiuto.

Inoltre una capretta, con uno straordinario senso di amore che non si potrebbe facilmente comprendere in una bestia, prese a proteggere un neonato e non voleva offrire le mammelle a nessun altro e, quando per metterla alla prova questo le fu sottratto e nascosto, riconosceva la voce e il vagito proprio di quel bambino e, trovatolo, dimostrava una gioia incontrollabile.

Invece, per quanto riguarda la forza dell'amore paterno e materno per quanto grande sia, esso è spento e distrutto dalla forza della peste e piuttosto raramente in tale tempo si scorgono delle lacrime. La causa deriva dal fatto che un amore diviso in più parti non si può attaccare fortemente a nessuna parte. La salute di un figlio è motivo di preoccupazione per un genitore, ma si cerca anche la propria salute e la si ama di più.

Si temono i mali dei parenti, ma anche il timore del proprio pericolo tormenta ciascuno. Di fronte a queste prime manifestazioni della peste, sempre tutte le altre cause di paura sono considerate con minore preoccupazione e, a poco a poco, gli uomini si abituano a tenere in scarso conto quei fatti che vedono accadere quotidianamente. Onde la fragilità dell'amore umano è provata di fronte a quella carità che è data per ispirazione divina alle anime. Infatti tanti preti e ottimi sacerdoti, pur di corrispondere a questo amore e carità, tennero in scarso conto la morte. Che così stessero le cose lo compresero i saggi e dicevano che per questa abitudine e per questa necessità quotidiana gli uomini quasi acquisivano l'animo di becchini e si spogliavano di misericordia e dolore, di amore e timore.

Era motivo di orrore anzitutto la vista dei cadaveri, mentre venivano spinti a precipizio dalle finestre e si concedeva tuttavia un qualche perdono all'atto disumano perché a causa della lentezza dei becchini e dei carri marcivano i cadaveri in casa e ne emanava un odore insopportabile. Del resto anche gettati nella via giacevano ivi per qualche tempo essendo sorde le orecchie nei confronti dell'autorità dei Magistrati ed essendo impotente il soccorso delle leggi, che servirono finché il male serpeggiava lentamente; le stesse, quando si era ormai diffusa troppo ampiamente la peste, venivano tenute in scarso conto. E i Magistrati stessi in seguito spontaneamente confessavano di aver perso il coraggio quando la violenza del morbo aveva superato i rimedi. Così evidentemente la giustizia divina, quando non vuole che sia evitata la sua forza minacciosa, dapprima toglie la ragione agli uomini poi vibra le sue frecce.

Le confessioni e il sentimento dei morenti

Risultò evidente che questo era stato caratteristico di tale pestilenza, che cioè essa mutò in meglio i malvagi e i peccatori abituali. Per quasi vent'anni uno aveva evitato i sacri misteri e i sacerdoti, con sacrilego ardimento; eppure costui morì con straordinaria attestazione di fede e rendeva grazie a Dio perché gli era toccato di andarsene con siffatta morte.

Molti che erano entrati nel lazzaretto con l'intenzione di ungere, confessato spontaneamente il proprio delitto, non senza una certa speranza di salvezza morirono.

Ci furono anche alcuni del gruppo dei pii ai quali, al momento del trapasso, si manifestarono divine visioni e sappiamo che ci furono due Francescani della regola più severa ai quali nel morire apparvero a uno la santissima Vergine, all'altro l'Angelo custode. I più entravano nel lazzaretto per nessun altro scopo se non per conseguire l'indulgenza che era stata offerta per dono Apostolico della Chiesa a chi moriva lì, e per tale dono, lasciate spontaneamente le case e la cura dei propri affari, vi si recavano a morire. E, fosse per influsso e ispirazione divina, fosse per paura del male, si comportavano con tanta modestia che, pur essendo contate sedicimila presenze, non si sentiva la voce di nessuno e nessun grido. Tre volte al giorno pubblicamente rivolgevano suppliche e partecipavano tutti alla Divina cerimonia, recandosi ad essa in schiera ordinata attraverso i prati, senza che si rifiutasse nessuno di quelli che soltanto riuscissero a stare in piedi.

In nessun caso mai peraltro mancarono gli addetti, e ciò da una parte deve sembrare certamente straordinario, dall'altra è particolarmente adatto a precisare la natura, i costumi e il comportamento abituale del popolo milanese. Certamente un genere d'uomini mite, condiscendente e pietoso, se non li toccano disperazione e offese. Queste le sopportano a fatica e facilmente si irritano e si ribellano.

Per caso la situazione aveva richiesto che si ponessero sentinelle al Palazzo del Governatore. Fu scelto per ciò un gruppo di giovani, del quale sembrava che niente potesse essere più adatto a qualunque compito militare. Tanto li si vedeva pari ai pericoli e armati contro la morte stessa sia per il fiore dell'età sia per la robustezza delle forze! E tuttavia tale coorte sfortunata cadde in quattro giorni e la peste li abbatté tutti con la sua arma. Si può ben credere che, poiché allora veniva particolarmente esercitato il delitto dell'ungere e quell'arte malvagia, si fossero inseriti nella postazione alcuni esperti di tale arte delittuosa e avessero avvelenato questa coorte.

I pubblici inservienti

In tanta confusione e sovvertimento di cose venne in città una donna, la quale affermava di possedere straordinari rimedi per tener lontana e scacciare la peste. A costei fu prestata fede come esigevano la occasione e i costumi della città. Benissimo. Viene mandata costei nel lazzaretto presso la chiesa di San Gregorio e, ricevuto l'ordine di tirar fuori i rimedi che aveva, impegnandosi attivamente in tale compito per alcuni giorni era quasi considerata direttrice e sovrintendente del lazzaretto. Non era ancora passata una settimana che tale scacciatrice di peste contrasse il morbo e morì. Sarei portato a credere che la crudeltà del male abbia superato i rimedi che conosceva costei e li abbia annullati e che gli esperimenti, fidando nei quali era venuta, fossero stati efficaci per una peste non altrettanto atroce e violenta.

Stravaganza e sciocchezza dei rimedi

Cercare quali siano i rimedi per tener lontana e guarite la peste è compito dei medici e non spetta certo a noi dire qualcosa su tale argomento. Parimenti non tratterò di quegli esperimenti magici e dei prodigi. Riteniamo infarti che quelli non debbano esser definiti rimedi, ma sciocchezze e deliri di uomini. Tratteremo soltanto di quel genere di rimedi che portavano essi stessi la morte; per alcuni infatti non vi fu altra causa di morte se non il fatto che avevano posto troppa fiducia nel proprio rimedio. È propria di tutti i rimedi, ovvero amuleti, una certa e definita facoltà e virtù. Né io potrei dubitare che i casi orrendi e le morti di moltissimi che persero la vita tra scherzi e conversazioni possano essere fatti risalire alla eccessiva sicurezza che i rimedi davano loro. Infatti costoro fiduciosi irridevano la peste e la peste a sua volta irrideva loro. Ci furono alcuni che il morbo, dopo averli aggrediti una o due volte o più spesso, non poté abbattere; costoro certo si lasciavano curare durante la malattia, ma non avevano assunto nessun rimedio prima della stessa. Ci furono anche alcuni che nel pieno ardore della malattia, o perché mancavano i medici o perché mancavano i rimedi, guarirono senza alcuna cura, il che suole accadere anche con altri rimedi. Il medico più efficace infatti è la natura stessa. I rimedi sono più efficaci a scacciare la malattia dopo che è sopraggiunta che non a impedirle di sopraggiungere.

All'inizio della peste ciascuno teneva in mano pallottole d'argento o di legno e pastiglie preparate con aceto o con qualche essenza gradevole e piacevole certamente, ma senza alcuna utilità e con un danno piuttosto certo. Infiammavano infatti la testa e le vie dell'odorato, rese più ampie, ammettevano come quello piacevole così anche gli odori più disgustosi, essendo il capo riscaldato; certamente si aveva più danno che utilità, due condizioni che pur tra loro opposte sono congiunte in tutta la vita dei mortali.

Alcuni portavano sospesa al collo una piccola quantità di argento vivo, racchiuso in vetro o in una cannuccia e dicevano, vero o falso che fosse, che l'argento vivo si anneriva, attirava e assorbiva qualunque sostanza malefica si fosse avvicinata al corpo; e con tale persuasione mutavano sovente quel piccolo peso, mettendone uno integro e recente al posto di uno ormai inquinato e contaminato. Altri portavano una noce, due fichi secchi e un po' di erba ruta: strano quanto fossero fiduciosi in questo rimedio. Si era sparsa la voce che così avessero sostenuto i medici, ma era stata un'affermazione di ubriachi e gozzovigliatori quella secondo cui contro la peste non vi fosse rimedio più efficace che il bere a digiuno un bicchiere di vin di Creta.


Alcuni seguivano anche rimedi superstiziosi che io ho rimproverato pubblicamente e, scoperta la maligna frode del Demonio, costoro ritornavano ai rimedi che si chiedono alla natura. Di essi il più efficace contro la peste io ritengo sia vivere con sobrietà, abitare col corpo pulito in luoghi aperti ai venti, non troppo impediti da oggetti e da suppellettile domestica. Stiano inoltre a cuore le pulizie e sia pure temuta la peste, ma sia temuta con misura. Abbiamo visto infatti che morirono coloro che da una parte avevano troppa paura, dall'altra cercavano rimedi con eccessiva preoccupazione.

Intorno a tutto questo tipo di rimedi restano molti scritti: noi confessiamo di non averne usato alcuno oltre a quelli che ho ricordato: sobrietà e pulizia.


Federico Borromeo visita il lazareto durante la peste de 1630, Milano, Biblioteca Ambrosiana

La ripartenza

Più mitemente e più umanamente ci sembra di poter dire che, affinché la città di Milano quasi dissolta sia ricostruita, debbono tutte le altre città benevolmente fornire i Maestri più eminenti ed eccellenti che avevano in ciascun genere, con l'impegno naturalmente accettato da parte nostra di rimandarli e restituirli non appena, grazie a ciò, questo popolo e questa città avrà ricostituito una adeguata generazione di allievi. Così entrambe le parti avranno gloria e onore: sia quella che avrà dato appunto un dono di tal fatta, sia quella che avrà restituito quello stesso con integra lealtà. E verrà aggiunto inoltre quel soprappiù di gratitudine che rimarrà eterna presso persone memori di tanto beneficio; riteniamo quindi che questo sia il rimedio più adatto a restituire dalla rovina le arti e le officine.

In ogni caso i più esperti maestri di queste arti dovranno essere fatti venire, e le più celebri città d'Italia, Roma, Napoli, Firenze, Bologna e le altre che coltivano le arti, sopporteranno di buon animo che si allontanino da loro alcuni artefici. In tale modo potranno credere che anche noi un giorno o l'altro ricambieremo il favore e insieme rifletteranno che questi benefici sono di tal fatta che aumenteranno sempre la lode e la gloria di coloro che li tribuirono ad altri.

Outro

Certo che se ora, appena finito di leggere queste tragiche testimonianze, torniamo con la mente al passato prossimo ed al nostro COVID avremmo finalmente la forza di rivalutarlo, di rivederlo da un altra ottica.
 Si, il paragone é brutale, ma anche questo particolare evento non può far altro che farci riflettere e pensare all’altissimo livello che abbiamo raggiunto in campo sanitario e finalmente essere riconoscenti a chi ha permesso tutto questo senza andare a scomodare potenziali  presenze ultraterrene.

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Giordano Bruno. Scagli la prima pietra che non ha mai udito tale nome. Probabilmente se si conosce il nome si saprà anche come ha finito i suoi giorni; bruciato vivo. Stop. Ma non basta. Così come non basta passare a velocità supersonica in piazza campo dei fiori a Roma per una rapida occhiata al monumento a lui dedicato. Ci sarà pur un motivo se tra migliaia di messi al rogo a lui hanno fatto la statua. Che diamine. Questi i pensieri mentre riguardo gli scatti strappati a Campo dei fiori in una soleggiata giornata primaverile. A distanza di due anni approfondisco il personaggio e il percorso che lo ha portato ad essere ridotto in cenere a Roma, a poche centinaia di metri della capitale di Gesù Cristo Nostro Signore P.S. É un puro caso che il post esca esattamente lo stesso giorno della sua esecuzione. Il monumento  Nel centro di piazza Campo de' Fiori, in mezzo alle bancarelle del mercato e al vagabondare di romani e turisti, si leva il monumento a Giordano Bruno. Il filosofo è tu...

Hotel Dakota

A volte i musei sono nei posti più insoliti. Un evento particolare può infatti essere preso come filo rosso per l'arredamento di un albergo. Questo é quello che hanno deciso i gestori dell'albergo Dakota a Meiringen Hall dell'hotel Dakota di Meiringen L'incidente Il 18 novembre 1946, un Dakota C-53 americano decollò da Vienna con dodici passeggeri per un volo diretto a Pisa. Dopo lo scalo a Monaco, il pilota Ralph Tate decise di sorvolare le Alpi svizzere e sbagliò le condizioni di altitudine. Volando troppo basso, l'aereo sfiorò il ghiacciaio Gauli a 3350 metri di altitudine a una velocità di 280 km/h. L'aereo sbanda nella neve alta, supera dei crepacci e alla fine si  ferma, senza che i 12 occupanti riportassero ferite pericolose per la vita. A bordo c'erano quattro membri dell'equipaggio e otto passeggeri, tra cui quattro donne, alti ufficiali dell'esercito americano e una bambina di 11 anni. La nebbia e i forti venti costrinsero il Dakota ad att...

Marignano 1515: la battaglia dei giganti secondo il Traxino

Trovo miracolosamente un altro testo inerente la battaglia di Marignano. Vero crocevia della storia svizzera. Questa pubblicazione risulta particolarmente interessante perché arricchita (quasi la metà del testo) da numerosissime note  L'Europa è in fermento, la prospettiva che un'area geografica di importanza fondamentale come il ducato di Milano sia caduta in mano agli svizzeri e al loro comandante, cardinal Schiner, è ritenuta inaccettabile, seppur con la poco credibile assunzione al trono di un figlio del Moro, Massimiliano Sforza, manovrato dallo Schiner e senza nessun margine d'azione autonoma. Nonostante l'indubbio impegno e coraggio da essi profuso, unitamente alle elevate perdite, durante il secondo giorno è ormai evidente a tutti che il vincitore della battaglia è l'esercito francese. Gli svizzeri cominciano a ritirarsi dal Ducato, protetti da alcune robuste retroguardie, rientrando nei propri territori, ma a testa alta: hanno infatti ben combattuto ed il l...

L’arte di invecchiare

Finché lo scorrere del tempo non diventi uno dei principali pensieri o addirittura sfoci in un ossessione stiamo sicuramente navigando nelle tumultuose acque della gioventù. Inesorabile é purtroppo il passare del tempo, ma questo lo si avverte con lo "scollinamento" (vedi capitolo sotto). All'improvviso sembra tutto fragile, insicuro, ci si rende conto che al contrario dei videogiochi la vita é una sola, appesa ad un filo che potrebbe rompersi da un momento all'altro. Da qui si impone profonda riflessione e una ricerca di filosofie capaci di accompagnarci con grande serenità al più democratico dei giorni.  Negli appunti lasciati di Schopenhauer, e nuovamente racchiusi in un vademecum tascabile trovo alcune risposte a questi pensieri tipicamente serali giusto "prima di spegnere la lampada sul comodino”.  Maestro della sponda superiore del Reno - Dittico: Hieronymous Tschckenbürlin e la morte, 1487 Museo d'Arte Basilea Definizione della vita secondo Schopenhaue...

Una nuova partenza

Ho gestito un blog dal 2004 al 2016 Dal 2016 ho preso una pausa, nel frattempo il mio stile di vita e i miei interessi sono mutati, si potrebbe sostenre che sono passato dall'epoca "tardo bimbominkia" al "consapevole di un esistenza da sfruttare bene", o ancora, come amo dire, aver cambiato la mia stagione umana, che sia da "primavera a estate" o da "estate a autunno" non l'ho ancora capito. Nel frattempo i miei interessi si sono spostati fondamentalmente su due temi: montagna e storia. Perché Suvorov55? Suvorov55 é un nome che riesce a racchiudere entrambe le mie passioni, cosa abbastanza difficile in una parola; si tratta di un percorso proposto da una delle innumerevoli app di escursionismo che propone di ripercorrere il percorso fatto dal generalissimo Suvorov nelle alpi svizzere nel contesto delle guerre napoleoniche, il percorso si chiama appunto Suvorov55 ed é una dei miei innumerevoli obiettivi che mi sono proposto di raggiungere....

VERSO

Quello che ci si para dinnanzi é sempre solo una facciata, un lato della medaglia, solitamente il più bello. Ma per conoscere bene qualcuno occorre mangiarci un sacco di sale assieme. L'operazione di scoprire il lato oscuro dei quadri é decisamente più semplice ma raramente non viene trattato perché il lato bello prende per se tutto l'interesse in quanto decisamente la più degno di ammirazione. Si potrebbe dire la stessa cosa dei singoli delle canzoni che uscivano con una seconda traccia, le famose B Sides, sempre un po' bistrattate, a torto, in quanto anche loro erano delle perle destinate a rimanere a vivere all'ombra della parte bella. Ma ritorniamo ai quadri, la Kunsthaus di Basilea decide di farci scoprire cosa sta dietro ai quadri. A oggi non mi sono mai posto grandi aspettative al riguardo, l'unico punto a riguardo erano le ali delle pale d'altare, che vengono solitamente esposte aperte nei musei, ma che nella realtà erano in questa posizione in corrispon...