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La peste di Milano - Federico Borromeo

Uno dei temi su cui ho fatto il focus é quello della peste: siamo reduci dal COVID che rapportato alle ondate di peste del basso medioevo e del risorgimento in confronto sono bazzecole. Ma l'elemento che rende ancora più drammatica la terribile epidemia della peste é la completa ignoranza che ne ha amplificato la tragicità; le tecniche e conoscenze dell'epoca non riuscivano a stabilirne l'origine e porre di conseguenza una cura. La popolazione era letteralmente in balia di una terribile malattia che portava ad una morte tra atroci sofferenze in pochi giorni. Se ci si ferma un attimo a pensare, a cercare di metterci nei panni di chi ha passato tutto questo, il sentimento di smarrimento e impotenza prende il sopravvento. In altre parole l'orrore allo stato puro.

Malgrado la vastità dell'argomento e i numerosi contributi letterari fino a ieri non ero riuscito a trovare una testimonianza sul campo, di qualcuno che ha vissuto con la peste, nella peste, un testimone diretto che riuscisse a trasmettere al lettore le sensazioni di miseria e di trionfo della morte che aleggiavano incontrastati.
Poi quando meno te l'aspetti in una biblioteca, indicatami dal mio dottore, in una piazzetta nel cuore di Como trovo un libricino pubblicato da una casa editrice mai sentita che inevitabilmente mi balza all'occhio: la peste di Milano, quella dei promessi sposi, quella degli untori, quella "assaggiata" al castello sforzesco. E il testimone é una persona di tutto rilievo, Federico Borromeo, il nipote di quel Carlo Borromeo tanto famoso dalle nostre parti.

Suddivido il libro in due parti: nella prima si parla di Federico Borromeo e alcune sue indicazioni particolare mentre nella seconda parte si tratta il De pestilenzia

Federico Borromeo

San Barnaba: Federico salì in pulpito, e con voce quando chiara e sonora, quando rauca e flebile, facendosi intendere in tutto il circostante campo, vaticinò, come i profeti, ciocché avvenne.

«Milanesi! popolo infelice! Moltitudine che stai per divenir preda della peste! Già ti sovrastano le saette della giustizia divina: andrete cadaveri sotterra, e le anime vostre dovranno presentarsi al tribunale di Dio. Ma tu, o popolo, non mi vuoi credere finché non avrai riempiti di morti le fosse, finché le tue carni non saranno pasto ai vermi!»

 Federico é nipote di Carlo Borromeo
Indubbiamente l'uomo non era dei più mansueti.

Biagio Guenzati,' autore di una sua biografia (ancora manoscritta), una sorta di complemento a quella del Rivola, ci ha lasciato di lui un ritratto fisico dal sapore barocco. 
Val la pena conoscerlo: «Il temperamento era igneo, con qualche miscura d'umido [...] La testa trono della ragione, grande, e ritonda [...] Sotto ciglia grandi spiravano dolcezza, e maestà gli occhi [...] Le guance carnose, e un poco cadenti, ne mai increspate dagli anni: naso ordinario ben profilato: bocca maestosa, labbra porporine, mento piccolo con poca barba [...] Li capelli sopra la fronte naturalmente
arricciati [...]
».



Nei Sacri ragionamenti, nella parte riguardante i discorsi tenuti nei sinodi diocesani, si leggono le differenze che per Federico esistevano tra laici e clero: «[..] dobbiamo conservare tutti la dignità comparendo di rado in pubblico, e con lo star lontano dagli altri». E, puntualmente, questo principio lo troviamo nella sua vita, nell'aprile del 1595, allorché Clemente VIII lo nomina arcivescovo di Milano. Federico vorrebbe ritirarsi, non se la sente di affrontare la carica. Ci vorrà, ancora una volta, l'intervento di san Filippo Neri al quale occorre aggiungere il cardinale Valier, che gli compone il De cauta imitatione sanctorum per incoraggiarlo, o meglio per rendergli meno pesante quell'eredità di san Carlo che Federico si appresta ad amministrare. 

Tali atteggiamenti si potrebbero interpretare come una timidezza innata, sempre presente in lui. Ma una timidezza che non ha paura di trasformarsi in decreti. È del 7 agosto 1611 l'editto Che niun ecclesiastico secolare o regolare vadi alle comedie, dove il cardinale ordina ai suoi sottoposti di usare il tempo «che è sì precioso, utilmente, et attendendo con solecitudine alle divine laudi, et appresso occupandosi nelli studi delle sacre lettere» e non di assistere a «qualunque profano spettacolo» e di non porgere orecchio «vagando per le piazze a cose inutili, et nocive». Chi non ubbidirà sarà punito.

Fonda accademie e infine dà vita all'Ambrosiana, un'impresa non d'ordinaria amministrazione in quei tempi.

La brama del sapere continua. Progetta il De nova sphera, non disdegnando le questioni fisiche, matematiche e meccaniche; si occupa anche di scienza politica, come prova il De gratia principum, stampato a Milano nel 1625. Ma l'elenco delle opere del periodo milanese è sterminato. Ancor oggi non lo conosciamo con esattezza: possiamo soltanto dire che intorno ad esso si accumularono secoli di equivoci e che tutta questa produzione fu da lui realizzata in poco tempo.

Federico resta un enigma. Colto, nervoso, imprevedibile, consacrato al fare, questo cardinale sembra sfuggire a tutte le possibili definizioni.

Il Rivola, all'inizio della sua biografia, ci dice che cantava sovente da solo e che amava osservare a lungo il cielo stellato. Ma questi non sono che lampi e illuminano per pochi secondi un'esistenza complessa. Durante il suo episcopato si celebrarono nove processi per stregoneria, però non sappiamo ancora il suo reale comportamento in questi frangenti. Possiamo soltanto dire che con la Monaca di Monza il cardinale agì con il massimo della correttezza, che si mosse con decisione e che seppe perdonarla, addirittura che ne progettò una biografia.

Federico e la peste

Giungiamo così alla peste. Il morbo come fu accolto dal cardinale?
Secondo una fonte attendibile, egli girava per Milano «in lettiga serrata d'ogn'intorno con vetri»

Ma anche in questo caso, egli si comportò con fermezza. La decisione di mandare una parte del suo clero - «i sacerdoti più validi e migliori» - a salvarsi fuori città, mentre i curatori d'anime con i restanti pastori venivano trattenuti a Milano, ci può sembrare terribile. Tuttavia il cardinale seppe prendere una decisione che alla fine diede risultati degni di nota. Perché, grazie ad essa, la Chiesa ambrosiana si trovò perfettamente in forze dopo la strage del morbo, a differenza dello Stato spagnolo, che vide ridotte al minimo le proprie energie.

Lui, comunque, rimase a Milano. Se così non fosse stato, questa decisione da principe rinascimentale lo avrebbe trasformato agli occhi della storia in un potente crudele e pauroso: una definizione che non gli sta bene. Potente sì, crudele poté anche sembrarlo in talune occasioni (soprattutto se il suo modo d'agire viene isolato dal risultato generale e ci si sofferma sui dettagli), pauroso non ci risulta nemmeno nelle decisioni più pesanti.

Altri particolari che si sono notati di Federico durante la peste si possono tranquillamente esaminare. Non oscurano la sua figura. Credette al potere delle unzioni? È vero, ma problemi di questo genere rappresentavano argomento di studio per i dotti e un capitolo di notevole importanza nelle discussioni mediche.

Battesimo

Obligo principale de Curati è ministrare a suoi sudditi i Sacramenti fra quali il primo è il Battesimo, il cui proprio ministro deve essere Sacerdote, se bene per accidente in caso di necessità può esser anco laico. Hor se l'infante nato sarà infetto di pestilenza, o pur anco sospetto, come quando nasce da Madre appestata, o anco da Madre sana, ma sequestrata, e rinchiusa in qualche casa, o Lazaretto per haver pratticato in luogo o con persone sospette si deve quanto prima per l'instante pericolo di morte dal Parocho, o d'altro Sacerdote deputato alla Cura de gli appestati battezzare per infusione conforme all'uso Romano, differendo quelle ceremonie, che ricercano il contatto della creatura, o de suoi panni, anco l'Untioni, e uso del Compadre, e Commadre in tempo, che sia cessato il sospetto. In absenza di Sacerdote la puotrà, e doverà battezzare ogn'altro, che sappi la forma, che questo è il detto caso di necessità, che con l'instante pericolo di morte nell'infante, ricerca anco l'absenza, o impotenza del ministro ordinario. S'avverta a star discosto più che si puotrà, e di fraporre tra il Sacerdote, e infante un vaso di fuoco acceso con incenso, o altri suffumigi, che rendono l'aria purgata, come d'assenzo, o altre herbe odorifere con aceto.

……s'usino tutte quelle cautioni che le saranno in pronto, come fumigare la Camera con fiamma se ben fosse di paglia, di lauro, di ginepro per purgare quell'aria, che può essere infetta, fare, che siano aperte le finestre, e usci, fraporre tra l'Infermo, e Sacerdote un vase di fuoco, bagnarsi i polsi, la faccia con accetto; e al tempo della peste passata s'usava di portare in mano una palla di legno, d'osso, overo d'argento forata, e cavata di dentro, che conteneva un spongia bagnata nell'accetto, e altri confortativi composti per diffendere l'odorato dalla forza de fiati infetto, o aria corrotta. S'averta particolarmente a star in sito, che tra l'Infermo, e Sacerdote l'aria trappassi per traverso, e non in faccia.

Estrema unzione

Quanto al ministrare l'estrema Untione a gl'appestati, si rimette alla carità del Parocho: puotrà ministrarlo con le sudette cautioni, e nella camera, e con l'Infermo, e lasciando le preci, il Sacerdote succinto come sopra farà le cinque Untioni necessarie a cinque sensi, dicendo per ciascuna Untione le prescritte parole della forma, e bastarà Ungere un senso solo in questo caso, e non ambiduoi come si suole per l'ordinario, sì come anco si potrano lasciare l'Untioni de piedi, e delle reni, che non sono tanto necessarie, s'abbrucci subito il bombace, che doverà essere più grosso del solito, e la mano si purifichi maneggiandola per la fiamma, o con acceto come sopra. S'avverta, che l'Infermo, mentre vien unto, stia con la bocca chiusa, e col respiro volto in altra parte, che verso il Sacerdote con il corpo coperto più che sia possibile; acciò che dalle carni, e dal letto riscaldato non essali l'infettione.

Lettere contro gli spiriti infernali

Dal vedere, che questo male contagioso affligge tuttavia sì gravemente la Città, e singolar rimedio sia il ricorrere alla divina maestà, valendosi dei mezzi proposti, et adoperati dalla santa Chiesa per impetrar aiuto e protettione contro la malignità degli spiriti infernali, che non cessano mai di travagliare la creatura humana in diversi modi tanto nel corpo quanto nell'anima; per questo habbiamo stimato dover essere di molto giovamento conforme ancora all'instanza fattaci sopra di ciò, l'ordinare che si facci una generale benedittione delle case 
Per l'essecutione di questa benedittione s'è stabilita un'istruttione intorno al modo di farla con quel meno disturbo, e pericolo che sia possibile. Di questo nostro ordine ogni Parocho ne darà quanto prima notitia alli capi di famiglia della sua parocchia: gl'avisarà della giornata, che farà la benedittione et insieme gl'ammonirà che nell'istesso tempo, nel quale egli sarà avanti la porta loro per la benedittione ciaschuno d'essi se ne stij con la propria famiglia in casa recitando le litanie,

Dall'Arcivescovato di Milano alli 2 Agosto 1630.
FB
Ludovicus
Cancellarius Archiepiscopalis

Fatti durante la peste

Assecondando i magnati, che alle prime minaccie del contagio fecero quanto loro suggeriva il timore e l'esperienza, Federico si diede premura per salvare i corpi, e più assai le anime del proprio gregge. Né credendosi atto a sostenere da solo sì grave incarico, raccoglieva ogni giorno a consiglio i più prudenti suoi sacerdoti, eccitandoli ansiosamente ad esporre le loro opinioni, ed agiva in conformità delle medesime e della propria saggezza.
Ottimo consigliere, sulla cui autorità riposava sicuro, era S. Carlo, che scrisse Commentarj ed il Memoriale intorno la pestilenza del suo tempo (1576).

Traendo norma da tali Memorie, altre aggiungendone, Federico stabili il metodo di tenersi in quelle calamitose circostanze, additando ai sacerdoti ed al popolo la via che guidava a salvamento. Indicò che cosa dovessero fare, che cosa evitare, per non contrar la peste coll'alito o col contatto, e per non inasprire vieppiù l'ira divina.

Tramise a sacerdoti tutte le facoltà ch'egli aveva dalla Santa Sede per assolvere i moribondi, e nuove impetronne dal Pontefice, estendendole a tutto quanto il clero della diocesi, affinché non mancassero ai peccatori negli estremi momenti i soccorsi della religione. 

Assicurava che non si muoverebbe dal suo posto finché la peste durasse in Milano, non uscendo né dalla città, né dal palazzo se non chiamato dalla salute del popolo o da qualche pubblica necessità. E attenne la promessa fino al punto che da taluni si tacciò la sua costanza di pertinacia; imperocché, morti quasi tutti i famigliari, Federico, desolato e mancante de necessarj sussidj, ricusò di partire, contro le preghiere degli amici, dei grandi, degli stessi medici, i quali lo persuadevano a ritirarsi per alcun tempo in una salubre villa.

Pregato, andava a visitare i Lazzaretti, e affacciavasi alle porte ed alle finestre dei poveri tenuti in sequestro per soccorrerli. Non vietava l'accesso a chiunque voleva parlargli

Un sacerdote che abbandonò il proprio gregge, fu da Federico costretto a tornare, sotto pena di sospensione: con tutti poi largheggiò di ricompense, estendendole anche ai loro parenti.

I parrochi, i canonici, i semplici preti si meritarono lodi per sì esemplare condotta; e molti, cui sarebbe stato lecito l'allontanarsi, rimasero al posto, fungendo il ministero di parrochi. I Domenicani specialmente, i Teatini, i Frati Minori, distinti pel cappuccio, ed i zoccoli presero parte alle fatiche ed al martirio; e come martiri gli ammirava l'intera città.

Il Viatico portavasi intorno per le strade coll'apparato e coi lumi che permettevano le circostanze: ove incontravasi qualche moribondo giacente per terra, sostavano, ed uditane la confessione, gli porgevano il pane degli Angeli, il che era d'eccitamento agli altri a ricevere il santo Viatico, che loro schiudesse le porte del cielo. Frati e sacerdoti battevano alle porte, salivano con scale per le finestre, recando seco vivande e distribuendole con pronta e fervorosa carità. Traevano seco loro dal palazzo del Cardinale cestelli con entro frutti e ghiottornie che stuzzicassero il palato anche de moribondi.

Le pastorali diramate dall'Arcivescovo ai parrochi ed ai vicari della milanese diocesi, esprimono ancora più al vivo i sentimenti di lui per le anime del suo gregge. Le parole di Federico sembrano quelle dell'apostolo Paolo.

«Vestite viscere di carità. Siate pronti come noi siamo pronti a perdere questa vita mortale anziché abbandonare la nostra famiglia, la casa, i figliuoli. Abbracciate la peste come vita e consolazione, purché possiate guadagnare un'anima a Cristo. La modestia, la sobrietà e la pudicizia vostra e tutte le virtù risplendano come fiaccole. Ciò placherà l'ira celeste

Le cause

Egli incomincia a paragonare la strage di Milano con quella di Gerusalemme al tempo de' Maccabei, quando il re Antioco, ministro dell'ira divina, la desolò; e le attribuisce entrambe ai giusti e clementi giudizj d'Iddio; affermando che quei castighi furono prove della benignità e misericordia di lui, perché il popolo Ebreo ed i Milanesi divenissero migliori.

Viene poscia a esporre la sua opinione circa l'origine della peste affermando che, sebbene scoppiata per divino volere, avevano contribuita a spargerla anche cause umane. Appoggiandosi all'autorità di Omero, citato da gravissimi filosofi e dai Santi Padri, dimostra che non senza ragione il poeta introduce Apollo che vibra i dardi avvelenati sul campo de Greci, per indicare che la Divinità si serve anche di questo mezzo per castigare i mortali. E da ciò conferma che la nostra pestilenza fu divino castigo, notando a maggior prova che l'esercito alemanno, il quale recò a noi il contagio, ne andò quasi immune; che le truppe spagnuole occupate all'assedio di Casale, ricevendo quasi giornalmente viveri dalla Lombardia, non contrassero il male per tale comunicazione, essendo manifestamente così piaciuto a Dio. Il quale volle certi luoghi ed uomini punire con tale morbo, ed altri risparmiare, serbandoli forse ad altre pene.

«La fame originò il contagio; e la fame venne dalla sterilità dei campi e più dai soprusi delle soldatesche e dalle violenze usate dagli stranieri a questo paese.»

Sugli untori

Circa le arti dell'ungere, raccontavansi le seguenti cose, se vere o false lo ignoro. 
Aggirarsi e vagarsi per Milano taluni con carte avvelenate che, sporte come suppliche agli incauti, contaminavano e davan morte a chi le pigliava. La terra, i grani e perfino le picciole monete distribuite in elemosina a poveri, essere asperse di quella materia venefica. Aggiungevano che si appiccicavano gli unti alle pareti col mezzo di pertiche e soffietti, e che la rabbia dẻ congiurati untori giunse a tale, che uno dei loro emissarj cercò d'introdursi in un monastero, dove ammesso, recò, sotto velo di santimonia, il contagio, ungendo dal primo all'ultimo gl'infelici monaci, i quali tutti perirono prima che venisse discoperta la frode.

Vengono prontamente bruciate e coperte le presunte tracce di unguento lasciati sui muri nella vicenda della "colonna infame"

Quanto poi al furore dell'ungere si esprime come segue.

«Nel Lazzaretto un untore confessò in pubblico d'aver fatto patto col demonio, e additò il luogo ove aveva nascosti i barattoli e i vasi dei veleni, ed appena ebbe finito di parlare, spirò. 
Momenti prima, stimolato da disperazione e rabbia, egli aveva cercato un pugnale per uccidersi; ma non riuscendogli ottenerlo, tentò segarsi la gola con una pietra tagliente. 

Una donna confessato il delitto, accusò la figlia sua partecipe e ministra: arrestata immediatamente, si rinvennero presso di lei i barattoli e gli altri stromenti delle unzioni. 

Un tale reo convinto dello stesso misfatto traducevasi al supplizio sopra un carro fra la moltitudine accorsa allo spettacolo, martoriato, a tenore della sentenza, per tutta la strada dal carnefice, il quale con tenaglie roventi gli stringeva le braccia e le nude membra. Il paziente, additando uno degli spettatori, disse ai satelliti d'arrestarlo, essendo reo d'aver sparsi in sua compagnia gli unti, facendo morire un gran numero di persone

«Uno tra essi, colto sul fatto mentre ungeva, e tradotto senz'indugio alla forca, veduto un carro sul quale stavano i Monatti sovra cadaveri d'appestati, prese la corsa, e si slanciò in mezzo a quella pestifera turba, quasi in sicurissimo asilo, fra i bubboni e la marcia grondante, dove nessuno avria osato porre le mani su lui. Côlto da un nembo di sassi e projettili, cadde ferito in più parti, e sul carro medesimo fu tradotto alla fossa.»


Questi ed altri casi furono raccolti e narrati dal Cardinale, ed io ne trascelsi alcuni pochi per offrire un saggio ed un esempio della stoltezza di quegli untori.

Capo degli untori o per noia?

Ma poiché, siccome accennai più sopra, gli animi ondeggiavano in molte dubbiezze circa la questione se vi furono realmente unti ed un'arte di spargerli, ovvero se fu uno di quei vani timori senza fondamento che spesso fan delirare gli uomini caduti nell'estremo de mali;

«Tutto ciò conferma la divulgata opinione degli unguenti e dei veleni, ma alla stessa opponesi che tali misfatti erano ineseguibili con soli mezzi privati, e d'altronde nessun re o principe ajutò gli untori coll'au-torità sua o con sussidi. Di più non si rinvenne mai alcun capo od autore di codeste scellerate unzioni, a provare l'insussistenza delle quali non è lieve congettura, l'essere svanite da sé, mentre sarebbero, fuori di dubbio, continuate fino all'ultimo, ove fossero state sparse con metodo sicuro.

La storia pende dubbiosa fra le due opposte sentenze. Soltanto sì Lombardi che stranieri, di carattere violenti, usi alle lascivie, annojati dello scarso stipendio de' faticosi lavori e di soffrire la fame, conseguenze tutte della condizione infelice dei tempi, incominciarono a far tra di sé combriccole per rinvenire un termine ai propri mali. Ajutati dal demonio, il quale vieppiù aizzava i loro animi accesi, immaginarono quest'arte di ungere, i cui elementi avevano per avventura imparati ne paesi, d'onde la peste fu recata in Lombardia.

La processione

Ma più temeva e prevedeva ciocché avvenne infatti, che se v'erano in Milano untori ed unguenti, la processione darebbe loro opportunità al delitto, e potrebbero, nella inevitabile affluenza di popolo, ungere comodamente e nascondere le empie e impure mani. 
Se poi untori non esistevano, sarebbe del pari inevitabile ciocché ogni giorno succedeva tra i singoli anche senza concorso di gente.
Il popolo affollato per le contrade, i cittadini stretti gli uni cogli altri, le vesti femminili, il contatto dei corpi e dell'alito sarebbero un male certo, prescindendo anche dagli unti.

Laonde il Cardinale negava l'assenso, e cercò dissuadere la traslazione del corpo di San Carlo, perché i cittadini non solo, ma tutti gli abitanti dei vicini villaggi, non si raccogliessero in una sola caterva. E quando annuì alle ripetute istanze, aggiungendo agli ordini del Consiglio Pubblico ed alla magnificenza della città la pompa e lo splendore ecclesiastico, ebbe ogni cura perché la processione riuscisse decorosa in modo, che se non pareggiava la santità del Borromeo, attestasse almeno la divozione del clero e dei Milanesi.

Egli prescrisse ed emanò ordini, che trovansi riuniti in un libriccino, circa le fermate, le preci e le flebili cantilene, onde impetrare il soccorso e la misericordia divina. E siccome il desiderio del popolo ed una certa esultanza pubblica fra le sciagure, esigevano che il corpo di San Carlo non venisse rinchiuso subito dopo la processione, ma si lasciasse esposto perché la folla dei divoti lo potesse contemplare e venerare, Federico accondiscese ai pii desiderj della città e di tutta la popolazione, siccome già dissi. Egli stabilì pure e pubblicò la norma disciplinare per la venerazione, affinché tutti stessero innanzi al santissimo corpo con quella disposizione di animo, che avrebbe in essi voluto eccitare il santo Pastore alloraquando la celeste anima sua era unita al corpo.

Dopo la peste

Dopo le stragi della pestilenza, apparvero in maggior numero che per l'innanzi delitti e libidini dei plebei e de nobili; della quale corruttela e perversità, molteplici furono per avventura le cause e principalissima la seguente. Gli uomini, cessata la peste, insuperbirono, abbandonandosi ad una gioia smodata e puerile come se avessero trionfato della morte, essendo favoriti dalla prospera loro sorte nell'universale calamità. Siccome quei che privi a lungo di cibo e di vino, non appena vien loro fatto d'averne se ne riempiono l'epa, così costoro, immergendosi in ogni genere di voluttà delle quali credevano essere rimasti defraudati, si gettarono più sfrenatamente ad ogni vizio, gozzovigliarono, lascivirono.

Qui la seconda parte

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Questo idilliaco quadro l’ho visto due volte in pochi mesi: alla galleria Züst di Rancate e al MASI di Lugano pochi mesi dopo. Ma poco importa. Idilliaco e utopico  Il canto dell'aurora, 1910 - 1912 Luigi Rossi (1853–1923) 1910–1912, olio su tela. MASI Lugano. Deposito Fondazione Antonio Caccia. Acquisto 1913 Sotto un ampio cielo, si apre il paesaggio della Capriasca, luogo di villeggiatura estiva del pittore, in cui sono collocate quattro contadine che intonano un canto, orientate verso i punti cardinali. Il tema dei contadini al lavoro, ampiamente trattato dall’artista, mostra un rapporto sereno fra la natura e l’uomo, mentre la resa pittorica, dalle pennellate parzialmente filamentose, rende il soggetto quotidiano atemporale e simbolico. Quello che importa sono le identiche sensazioni che mi ha trasmesso entrambi le volte. La prima cosa che ho notato sono le gerla: vuote! Finalmente e inesorabilmente vuote! Ci voleva un quadro per una visione simile, che io ricordi non esiste fo...

Una nuova partenza

Ho gestito un blog dal 2004 al 2016 Dal 2016 ho preso una pausa, nel frattempo il mio stile di vita e i miei interessi sono mutati, si potrebbe sostenre che sono passato dall'epoca "tardo bimbominkia" al "consapevole di un esistenza da sfruttare bene", o ancora, come amo dire, aver cambiato la mia stagione umana, che sia da "primavera a estate" o da "estate a autunno" non l'ho ancora capito. Nel frattempo i miei interessi si sono spostati fondamentalmente su due temi: montagna e storia. Perché Suvorov55? Suvorov55 é un nome che riesce a racchiudere entrambe le mie passioni, cosa abbastanza difficile in una parola; si tratta di un percorso proposto da una delle innumerevoli app di escursionismo che propone di ripercorrere il percorso fatto dal generalissimo Suvorov nelle alpi svizzere nel contesto delle guerre napoleoniche, il percorso si chiama appunto Suvorov55 ed é una dei miei innumerevoli obiettivi che mi sono proposto di raggiungere....

Ufenau

L’ho rasentata durante la passeggiata Einsiedeln - Rapperswil, e mi sono fatto ingolosire. La presenza del Huttenwyl li esiliato non ha fatto altro che aggiungerci fascino. Approfitto di una giornata tersa per andare in avanscoperta della piccola ma affascinante isola di Ufenach (o Ufnach). Giusto per approcciarmi in maniera soft prendo il primo battello da Zurigo Bürkiplatz e mi godo il docile ondeggiare verso la parte meridionale del lago Ripresa con un drone da un'altezza di 300 metri: Arnstein, il punto più alto dell'Ufenau con i suoi 17 metri, si trova a destra del molo. Foto: Emanuel Ammon/Aura Cartina del 1844 dell'isola di Ferdinand Keller Dal 1857 i battelli a vapore attorcano a Ufenau. Da quel momento si assiste a un incremento di visite sull'isola e con esso souvenirs come questa cartolina degli anni 1900 Preistoria Le tracce della presenza umana su Ufnau risalgono alla preistoria. I resti di un tempio gallo-romano del II/III secolo d.C. dimostrano che l...