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Marignano 1515: la battaglia dei giganti secondo il Traxino

Trovo miracolosamente un altro testo inerente la battaglia di Marignano. Vero crocevia della storia svizzera. Questa pubblicazione risulta particolarmente interessante perché arricchita (quasi la metà del testo) da numerosissime note 


L'Europa è in fermento, la prospettiva che un'area geografica di importanza fondamentale come il ducato di Milano sia caduta in mano agli svizzeri e al loro comandante, cardinal Schiner, è ritenuta inaccettabile, seppur con la poco credibile assunzione al trono di un figlio del Moro, Massimiliano Sforza, manovrato dallo Schiner e senza nessun margine d'azione autonoma.


Nonostante l'indubbio impegno e coraggio da essi profuso, unitamente alle elevate perdite, durante il secondo giorno è ormai evidente a tutti che il vincitore della battaglia è l'esercito francese. Gli svizzeri cominciano a ritirarsi dal Ducato, protetti da alcune robuste retroguardie, rientrando nei propri territori, ma a testa alta: hanno infatti ben combattuto ed il loro valore e tenacia sono ammessi senza riserve dallo stesso nemico. Non solo, ma Francesco rimase talmente impressionato dalle capacità di combattenti degli elvetici che negli anni successivi ne arruolò un gran numero nel suo esercito, tradizione continuata anche dai suoi successori e gli svizzeri, dal canto loro, serbarono sempre un sentimento di devozione e grande riconoscenza verso la Casa Reale di Francia, al punto che la guardia svizzera di Luigi XVI nel 1789 si fece di fatto massacrare per tentare di proteggere il sovrano e la sua famiglia dalla folla parigina inferocita.

Battaglia di Marignano, 13 e 14 settembre 1515 / Joh. Melchior Fuesslinus delineavit et sculpsit

La guerra per il Ducato di Milano (1512-1515), precedente alla calata dei francesi comandati dal re
Francesco I di Valois, vide con la vittoria dei francesi alla Battaglia di Ravenna cui però fece seguito lo stesso giorno la morte del loro condottiero Gaston de Foix, Duca di Nemours che rese inutile la vittoria, e segnò l'inizio del ritiro dei francesi dal Ducato di Milano.

Il 20 giugno 1512 i cantoni confederati con lé loro truppe entrarono trionfalmente a Milano. In seguito occuparono Domodossola, Locarno, Lugano, Mendrisio e i Grigioni, penetrarono nella Valle dell'Adda e occuparono Bormio e Chiavenna grazie agli accordi tra i cantoni svizzeri che formarono la Lega Grigia.

Tutti questi territori vennero ceduti ai confederati dal Duca Massimiliano Sforza, il quale il 29 dicembre 1512 rientrò trionfalmente a Milano ove ricevette dall' Ammann di Zugo Johann Schwarzmurer le chiavi della città.

Il nobile cavaliere potrebbe essere Ammann Schwarzmurer. Ricevette l'alabarda solo nel 1688 (Immagine: Stefan Kaiser / Neue ZZ)
 
Ridotto a una sorta di balivo svizzero, sotto protettorato il duca fantoccio si era messo sotto la protezione dei confederati, ringraziandoli per avergli restituito il suo Ducato; con le più grandi manifestazione di gratitudine egli donò al Cardinale Schiner, il marchesato di Vigevano quale feudo ereditario e lo designò vescovo di Novara.

I francesi, cacciati oltre le Alpi, ritornarono in Italia in grandi forze, ma il 6 giugno 1513 furono nuovamente battuti a Novara in località Ariotta in una grande e difficile battaglia, che sembrò a un certo punta perduta per i confederati e i loro leggendari quadrati di picchieri (la famosa sortita del capitano Mottino fu un capolavoro di tattica militare).

I confederati, sull'onda della vittoria, si spinsero fino a Digione e l'assediarono. Parve delinearsi per davvero una nuova realtà politica per l'Europa, in chiave di espansionismo svizzero: la Confederazione elvetica in quei giorni divenne senz'altro lo stato militarmente più potente d'Europa.


La sconfitta dei confederati svizzeri alla Battaglia di Marignano segnò la fine di Massimiliano Sforza, dopo l'assedio di un mese del Castello Sforzesco di Milano il duca accettò la resa e con un'onorevole pensione pagatagli dal tesoriere di re Francesco I° di Valois partì per l'esilio di Parigi dove morì nel 1530.

Marx Röist

È stato un ufficiale svizzera, comandante della Guardia Svizzera del Papa. Già membro delle guardie svizzere giunte a Roma nel 1506 con Kaspar von Silenen, Markus Röist si era distinto come soldato largamente rispettato dai suoi commilitoni nel 1515 quando aveva preso parte alla battaglia di Marignano dove era a fianco dei suoi concittadini del Cantone di Zurigo. 

Il Röist comandava il quadrato centrale dei picchieri svizzeri, quello che alla fine venne stritolato dall'esercito francese e dalla cavalleria veneziana e subì le maggiori perdite umane; ferito, riuscì comunque a portarsi in salvo unendosi ai suoi compagni in ritirata verso Milano. Al cavalierato fu accompagnata l'elezione a sindaco, e poi borgomastro, della città di Zurigo, carica che ricoprì fino alla morte nel 1524. 


A Zurigo c'è ancora la casa del borgomastro Röist e dei suoi successori con all'esterno la targa che ricorda questa che è la più importante famiglia zurighese.
Alle cariche che già ricopriva in patria si aggiunse nel 1517 la nomina a capitano della famosa Guardia Svizzera del Papa Leone X, raggiungendo così i massimi vertici nella carriera militare. La sua fama lo accompagnò anche quando dovette prendere le redini del comando della guardia svizzera pontificia dopo la morte del von Silenen a Rimini nel 1517. Egli venne prescelto da Leone X quale comandante nel 1518.

Antefatti

Stipulata nel marzo del 1513 un'alleanza coi veneziani, Luigi XII inviava un nuovo esercito in Italia alla riconquista di Milano.
Iniziate a maggio sotto i migliori auspici, le operazioni militari si concludevano in un disastro: il 6 giugno l'armata, attaccata di sorpresa dagli svizzeri all'Ariotta presso Novara, era sconfitta tanto duramente da dover ripassare in fretta i monti.

Macchiavelli si preoccupa

La folgorante vittoria ottenuta dagli elvetici in netta inferiorità numerica confermava la fama della loro invincibilità e poneva il problema della loro presenza in Lombardia al centro dell'attenzione degli ambienti politici europei, a cominciare da quelli italiani. "Signor ambasciatore, voi non volete - scriveva Machiavelli a Francesco Vettori due mesi dopo la battaglia - che il re di Francia torni ad essere duca di Milano e io invece lo vorrei. Voi pensate solo alla pace, ma io nella pace come l'intendete vedo un gravissimo pericolo per l'Italia. Mi scrivete che basterà dare agli svizzeri "una rastrellata" per mandarli via, ma io dico che non è così. Ora che sono entrati in Lombardia e che solo apparentemente servono Massimiliano Sforza, mentre i veri duchi sono loro, non basterà "una rastrellata" per allontanarli, anzi, quando si presenteranno altre occasioni, scorreranno per tutta Italia facendo il medesimo effetto"'

Poco più di due settimane dopo, sempre scrivendo a Vettori, Machiavelli aggiungeva di essere convinto che col tempo gli svizzeri sarebbero diventati arbitri dei destini della Penisola e concludeva: "Credetemi, signor ambasciatore, se a salvarci non interverrà la Francia, dovremo sin da ora cominciare a piangere la nostra rovina e la nostra servitù"

L'Homo Novus

Nella stessa Milano il duca sopportava con non poco fastidio lo strapotere degli elvetici e di Matthäus Schiner, cardinale di Sion, sostenitore e - si potrebbe dire - artefice della politica estera della Confederazione che aveva portato ad uno stretto controllo sulla Lombardia nell'ambito di una più vasta strategia "italiana" . Schiner aveva anzi tentato di sostituire Massimiliano col fratello minore Francesco, ma il duca ne era stato informato in tempo?

Era toccato poi ad Ottaviano Sforza cadere vittima del clima di sospenti connesso alle voci sui preparativi della spedizione del re di Francia".

Non che tra i confederati la situazione fosse meno intricata. La linea politica di Schiner non era universalmente condivisa. "Homo novus" e per ciò stesso oggetto dell'invidia e del disprezzo di coloro a cui aveva sottratto potere e spazio d'azione, egli doveva guardarsi dai fautori di una politica estera meno aggressiva e dalla fazione filofrancese - forte specialmente in alcuni cantoni - che sosteneva la necessità di un accordo con il nuovo sovrano.

L'armata di Francia passa le Alpi

Se un primo risultato importante era stato raggiunto, la marcia verso la Lombardia si presentava ancora irta di difficoltà, a cominciare dal fatto che non era stato ancora risolto il problema di dove l'armata di Francia avrebbe dovuto varcare le Alpi. Nonostante ciò, ricevuti dalla moglie i diritti già appartenuti a Luigi XII sul ducato di Milano, il re partiva da Amboise la notte fra il 29 e il 30 giugno e il 12 luglio entrava a Lione, dove passava in rassegna l'esercito.

Pochi giorni dopo avveniva il fatto che avrebbe deciso i destini della spedizione.
Informato infatti che vi era un passo alpino giudicato impraticabile per un esercito e perciò non sorvegliato, il maresciallo Trivulzio' decideva di mandare alcuni uomini esperti nelle cose di guerra - fra cui Pedro Navarro, passato al servizio della Francia - a ispezionarlo. Così Scipione Vegio:

"Nonostante fossero travestiti da mercanti, non fu difficile agli abitanti del luogo scoprire chi fossero in realtà e la loro missione sarebbe risultata vana se, alcuni giorni prima, i campi di quella gente non fossero stati devastati dagli svizzeri, che in tal modo se l'erano inimicata. 

Fu quindi loro possibile continuare l'ispezione al termine della quale essi riferirono d'aver trovato un passo mai percorso prima da un esercito, che chiamavano Argentera, e che la strada era abbastanza agevole, anche se in più punti ci sarebbe stato bisogno del lavoro dei pionieri".
La strategia d'invasione poteva dirsi ora definitivamente elaborata e così, mentre falsi movimenti di truppe sviavano l'attenzione degli svizzeri, l'armata di Francia"', grazie ai picconi dei suoi genieri, passava l'Argentera e giungeva in Valle Stura.

La sorpresa, enorme, portava alla cattura, a Villafranca, del più prestigioso fra i capitani della Lega, Prospero Colonna, che, giustificandosi con Trivulzio dicendo che a tutti sarebbe capitato lo stesso, si sentiva rispondere: "Non a me"'

Prospero Colonna

Gli svizzeri, attestati a Susa, Pinerolo e Saluzzo e che aspettavano altrove il tentativo di passaggio da parte del nemico, erano ora minacciati d’accerchiamento 

Gli svizzeri fra trattative e riorganizzazione

La ritirata degli elvetici attraverso il Piemonte, seppure condotta brillantemente, avveniva in un clima di sospetti che faceva emergere contrasti di recente e di vecchia data. Le tensioni sfociavano infine in violenza quando, a Novara, il pericolo di vedersi la strada tagliata dal nemico poteva dirsi ormai definitivamente passato. Schiner, minacciato di morte, vedeva compromesso il suo prestigio a vantaggio dei fautori di un accordo col re di Francia. Le trattative, iniziare a Vercelli, proseguivano a Gallarate senza peraltro giungere ad una rapida conclusione a causa - sembrerebbe - di sempre maggiori richieste di denaro da parte elvetica.

A Milano le notizie erano accolte con preoccupazione da Massimiliano Sforza, che si chiudeva prudentemente in Rocchetta, e con evidente soddisfazione dalla "parte guelfa", che invitava il suo capo riconosciuto - il maresciallo Trivulzio - a forzare i tempi e ad avvicinarsi alla città.

Per Schiner l'unico modo di ribaltare la situazione era quello di andare a convincere i capitani degli eserciti del Papa e di Spagna - che muovevano per strade diverse su Piacenza - a congiungersi al più presto con le forze elvetiche per affrontare in condizioni favorevoli il comune nemico.

Rassicurato dal fatto che i suoi principali oppositori si erano allontanati e che una nuova armata al comando del borgomastro di Zurigo Marx Röist stava scendendo in Lombardia, egli lasciava a Conrad Engelhart e a Rudolf Rahn il compito di evitare il totale sbandamento delle truppe e si avviava alla volta di Piacenza. La sua missione non era facile. Lorenzo de Medici, che guidava le truppe pontificie, sembrava poco propenso a marciare su Milano e il viceré di Napoli Raimundo de Cardona, che comandava quelle spagnole, non era tipo da rischiare più di tanto.

Trivulzio tenta il colpo di mano

Mentre l'esercito del re di Francia passava il Ticino e si accampava prima a Bernate e poi presso Turbigo, in attesa della conclusione delle trattative con gli svizzeri, Trivulzio si presentava alle porte di Milano per favorire un colpo di mano da parte della fazione "guelfa", ma otteneva l'effetto contrario.

Il 3 settembre, infatti, la fazione "ghibellina" , favorevole al duca Massimiliano, approfittava di un incidente - forse provocato ad arte - per chiamare in piazza la plebe e i "borghigiani" di Porta Ticinese e tentava di impadronirsi della persona di Trivulzio, che si era portato a Sant'Eustorgio per vendicare la morte di uno dei suoi.

Così Gianandrea Prato: "Alla notizia che i nemici si avvicinavano alla città, furono suonate le campane a martello e gruppi di plebei andarono a Porta Ticinese insieme ad alcuni soldati svizzeri del presidio del Castello. Questi, unitisi ai borghigiani e a molti altri del popolo, si scagliarono contro Trivulzio che, vedendo quella folla inferocita, si dice abbia esclamato: "Povera mia Milano, a che mal porto ti vedo"

Castello sforzesco nel XVI secolo

Il maresciallo era salvato da uno dei suoi partigiani - che, mescolatosi alla plebe, riusciva, con uno stratagemma ideato al momento e che avrebbe pagato con la vita, a farla indietreggiare - e, poche ore dopo, si ritirava a Binasco".

La situazione di provvisorio stallo favoriva l'azione di Schiner che, riuscito ad ottenere del governatore di Piacenza un certo numero di "lance" del Papa, incontrara a Codogno Raimundo de Cardona e, convinto questi a seguirlo e a congiungersi agli elvetici, otteneva la resa di Lodi, necessaria a favorire la manovra d'avvicinamento. 

Röist arriva a Varese

Pochi giorni prima, il 31 agosto, Röist era giunto con la sua armata a Varese, dove aveva trovato migliaia di confederati e di volontari incerti sul da farsi e, insieme a loro, l'ambasciatore della Santa Sede, Jacopo Gambaro, e quello spagnolo, Diego del Aguila, più prigionieri che ospiti a causa dei ritardi nella consegna del denaro promesso

è possibile sintetizzare gli avvenimenti con le parole di Papa Medici all'ambasciatore veneziano: "Domine orator,...havemo letere di sguizari sono gran numero, da 44 milia; sarano contra Franza, e non vi disemo busia. L'è vero che fu faro l'acordo di essi sguizari con Franza, e quelli (che) erano in Varese, volendo tornar a caxa loro, se incontrono li capitanei e nontii di soi cantoni, dicendo e comandandoli dovesseno star saldi e non si levar, perchè veniva gran numero di sguizari, et non voleano perder il suo nome, e voleano mantenir il titolo aquistato, ch'è liberatori di Italia, conservatori di la Chiesia e castigatori di principi"

La situazione era migliorata il 30 agosto. Ogni soldato che si trovava a Varese aveva ricevuto dall'ambasciatore spagnolo e da quello del Papa tre ducati. Ciò aveva peraltro provocato il risentimento degli elvetici di Berna, Soletta e Friburgo che si trovavano a Domodossola e non erano stati pagati

L'arrivo di Röist li aveva rassicurati. Egli era infatti - scriveva da Zurigo il nunzio pontificio Ennio Filonardi - il più rispettato fra i capitani e il più adarto a riportare l'ordine fra quei soldati scontenti e senza più motivazioni".

Riorganizzati opportunamente i reparti che si erano disgregati durante la ritirata dal Piemonte, gli elvetici, il 3 settembre, calavano su Appiano, il 4 giungevano a Cantù e il 6 a Monza". La marcia prevedeva originariamente il congiungimento a Marignano con le truppe ispano-pontificie che avrebbero dovuto giungere da Lodi.

Ma, a questo punto, qualcosa sconvolgeva i piani di Schiner. La notte fra il 6 e il 7 il cardinale riceveva infatti un messaggio di Cardona che lo pregava vivamente di lasciare subito Lodi e di tornare a Piacenza.

Secondo la versione dell'oratore di Ferdinando il Cattolico, Diego del Aguila, sarebbe stato il più stretto collaboratore del duca di Milano, Gerolamo Morone, a imporre prudenza al viceré perché l'avvicinarsi dell'armata nemica a Marignano aveva reso malsicuro il cammino. Secondo quella di Morone, invece, era stato l'oratore spagnolo a sconsigliare a Cardona la manovra di congiungimento per l'inaffidabilità dimostrata dagli svizzeri che, altre tutto, bramosi di denaro, avrebbero finito per sequestrarlo".

Comunque stiano le cose, Schiner rifiutava l'invito a tornare a Piacenza e continuava l'azione, al comando di trecento "lance" del Papa, di altrettanti cavalleggeri e di un reparto scelto di spagnoli, il cardinale muoveva da Lodi su Marignano, dove prendeva la strada di Melzo, e l'8 settembre, alle quattro del pomeriggio, raggiungeva l'armata elvetica a Monza annunciando, con una certa disinvoltura, la buona riuscita della sua missione. Circa un ora prima era arrivata la notizia che a Gallarate era stato trovato un accordo con gli inviati del re di Francia

A questo punto, si poneva il problema di decidere cosa fare.

L'assemblea, svoltasi il 9, si concludeva - com'era costume - con un'alzata di mano da cui emergeva la spaccatura tra i favorevoli all'accordo e i contrari, a loro volta divisi. Se infatti i fautori di Schiner rifiutavano del tutto i capitoli, altri - come i capi di Uri, Svitto e Glarona - premevano per proseguire la campagna non tanto per giungere allo scontro, quanto perché la somma di denaro ottenuta dai loro inviati veniva giudicata modesta"

Consiglio di guerra svizzero a Marignano - Urs Graf

Non essendosi evidenziata una chiara maggioranza, si decideva di rinviare la decisione finale e intanto di proseguire la marcia sino a Milano.

Schiner forza i tempi

Il 10, mentre i più accesi nemici del cardinale, avvertiti a Gallarate delle conseguenze del suo arrivo, tentavano inutilmente di farlo arrestare ad un posto di blocco presso Sesto San Giovanni, venticinquemila tra confederati e volontari giungevano alle porte della capitale del ducato e, poiché i borghi non riuscivano ad accoglierli tutti, erano fatti entrare in città.

"et gionti (gli svizzeri) ne' borghi de porta Comasina, fu levato il ponte di essa porta et de porta Beatrice, acciò alogiasseno ne borghi, et nella città non entrassino, sì come è costume de fantaria. Ma questi, ognora in più multiplicando, nè potendo senza grande incomodo di sé et de loro ospiti allogiare, volsero intrare in Milano; et, senza ordine de alcuno foriero, andavano egli stessi ad allogiarsi nelle case de citadini. Et a poco a poco - lasciando i poveri borghi - sì inanzi si introdusseno, che al fine turto Milano occuporno, con poco danno però delli allogiatori; perchè gran parte de loro, como rozzi montanari, si accontentavano di paglia in terra, in loco di piuma in lecto, et di pane et di vino, non più oltra richiedendo; salvo che da qualcuno gli era dato qualche capo d'aglio o cipolle o carne o casciola: il che se adveniva che data non li fusse, essi se la compravano de propri denari"

Lo stesso giorno l'armata di Francia entrava a Marignano e si accampava fra Mulazzano, Casalmaiocco e Sordio. Il re, che in un primo momento doveva fermarsi al "Cappello Rosso", alloggiava al "San Giovanni", poco oltre il ponte sul Lambro, dove riceveva la visita di Bartolomeo d'Alviano, giunto in quelle ore al comando dell'esercito della Serenissima a Lodivecchio.

Il congiungimento con gli alleati veneziani segnava un punto importante a favore di Francesco I e compensava il clima di tensione venutosi a creare da quando i lanzichenecchi - che formavano i due terzi della fanteria - avevano avuto il sospetto di essere stati traditi e si rifiutavano di obbedire agli ordini.

I primi sintomi di malcontento si erano manifestati a Chivasso. Più grave era stato l'incidente con morti e feriti - di cui non si conosce la causa - che aveva visto azzuffarsi lanzi e reparti della gendarmeria francese. Da quando erano iniziate le trattative con gli elvetici i tedeschi non facevano mistero della loro insoddisfazione e, alla notizia dell'accordo di Gallarate, il clima era diventato rovente"

Tutto questo passava comunque, per il momento, in secondo piano.

Il congiungimento coi veneziani e specialmente l'accordo di Gallarate sembravano infatti rappresentare gli ultimi atti della campagna iniziata due mesi prima a Lione.

Il 12 settembre l'armata di Francia ripassava il Lambro e si accampava fra San Giuliano e Marignano.

Francesco I festeggiava il suo ventunesimo compleanno convinto, come i più, di dover solo aspettare che gli svizzeri, riscossa la somma di denaro stabilita, lasciassero il ducato. 

Meno convinto appariva Carlo di Borbone, che, nel suo alloggiamento di Zivido, continuava a ricevere messaggi poco rassicuranti dai suoi informatori.
A Milano la situazione era infatti ancora confusa.

Da un lato, gli svizzeri si riunivano spesso, discutendo sul da farsi, senza giungere ancora a conclusioni condivise, dall'altro, Massimiliano Sforza aveva abbandonato i suoi timori e già il 9, uscito finalmente dalla Rocchetta, era passato per le strade in mezzo a due ali di folla festante riconoscendo pubblicamente il merito della vittoria che si stava profilando alla plebe, che, da quando era riuscita a cacciare Trivulzio, era ormai scatenata

Un certo Giovanni Spagnolo, a capo di squadre armate, saccheggiava impunemente le case dei "guelfi". Fuori città le guardie - racconta un testimone oculare - fermavano i viandanti e li rapinavano di tutto accusandoli di essere delle spie e "per ogni mosca che volava di traverso tutte le campane di Milano suonavano a martello giorno e notte"

Mentre dunque nella capitale del ducato si respirava un clima da guerra civile, la riunione in Rocchetta del 12 settembre fra Massimiliano Sforza, il cardinale Schiner, gli ambasciatori Gambaro e del Aguila e i comandanti svizzeri evidenziava contrasti anche tra i fautori della battaglia: chi la voleva subito, chi dopo che le forze elvetiche e quelle ispano-pontificie si fossero riunite e chi non prima di aver obbligato l'armata di Francia ad abbandonare la posizione presso Marignano, ritenuta molto forte. La proposta di una manovra su Sant'Angelo Lodigiano - che avrebbe probabilmente costretto i nemici a levare il campo per timore di rimanere isolati da Pavia, il principale caposaldo in caso di ritirata - appariva la soluzione migliore

I capitani contrari a Schiner si dichiaravano però poco convinti e ottenevano di rinviare ogni decisione.

Che Schiner si ritenesse uno stratega di una certa levatura è confermato dalla lite che aveva avuto con Prospero Colonna: "si alteroe, dicendo contra dito signor Prospero che etiam lui sapea il mestier di le arme forsi meglio de lui" (Sanuto, XX, 311).

Il messaggio, chiaro, era subito compreso dal cardinale, che decideva di forzare i tempi. In particolare, egli poteva contare sui comandanti del presidio della città (Heini Erb, Heinrich Rahn ed Erni Winkelried), sui "Freiknechte" molto più liberi nell'azione dei soldati regolari, e sul fatto che durante gli allarmi - ce n'erano stati tre la notte precedente - si mettevano da parte i contrasti per correre in aiuto dei commilitoni in pericolo. Ordinava quindi a Muzio Colonna di provocare i nemici, che da qualche giorno mandavano cavalleggeri sino alle porte di Milano", per creare le condizioni favorevoli ai suoi piani ed essi cadevano nella trappola.

Che Schiner non avesse più molto tempo a disposizione per giungere alla battaglia è confermato dal fatto che molti tra gli svizzeri - compresi gli zurigani - erano adirati col duca Massimiliano per non aver ricevuto la paga che si attendevano e volevano tornare a casa (Valerius Anshelm in Usteri, p. 464).

La notte fra il 12 e il 13 settembre, "al chiarore delle stelle" , un gruppo di cavalleggeri francesi che da Chiaravalle si era avvicinato a Porta Romana si faceva coinvolgere in una scaramuccia durante la quale alcuni fanti elvetici erano uccisi". Mentre a Milano le campane suonavano a martello, i confederati accorrevano a sostenere i commilitoni, poi - sul far del giorno - si recavano sulla piazza del Castello" e si riunivano in assemblea in un clima di fortissima tensione.

Schiner sprona le truppe

L'arrivo di Schiner in piazza rese vano il tentativo di un "capitano" elvetico che sosteneva la necessità di rispettare l'accordo di Gallarate
Il capitano in questione sarebbe stato "Albert de La Pierre", cioè Albrecht von Stein, il più feroce avversario di Schiner, la cui presenza a Milano non è però confermata da altre testimonianze.

Albrecht von Stein

Era il momento che Schiner aspettava. Con un discorso reso poi celebre da Guicciardini, egli riusciva a convincere la maggioranza degli ufficiali che gli si accalcavano intorno ad affrontare il nemico in una battaglia presentata come già vinta", maggioranza che era confermata dall'esito dell'alzata di mano che concludeva l'assemblea

I punti salienti del discorso di Schiner (che poi divenne opera di retorica anche eccellente, come quello costruito da Guicciardini) sono ben delineati pochi giorni dopo dalla relazione di Vergerio, che riporta la testimonianza di un capitano elvetico "huomo di conto" catturato dai veneziani: 
"(Schiner) diceva che (se) li francisi se sentissero potenti non prometteriano si larghe conditioni (si riferisce all'accordo di Gallarate) praterea aggiungeva li Francesi sempre havere naturale paura de le loro virtù, animandoli al combattere, nel quale poriano vincere un Re potentissimo, tanti Baroni, et tutta la Nobiltà di Franza, con tanta immensa richezza, che dietro si menavano, e poi tutta la Franza, et al fine loro si poriano in signoria de Italia, e non più darla ad altri, et in tal rischio loro erano per perdere poco, et vadagnar assai. 
In questa Oratione, che pareva imitar Leonida Spartano, fece levar una fama, che Spagnoli havevano assaltato il Campo de Venetiani, et che veniano poi alla volta de Francisi, per la qual cosa concluse esser necessario dover soccorrer alli Confederati. Denique, soluto concilio, con grande impeto il Giovedì (13 settembre) usciro di Milano"

"Incitati da questo parlare, prese subito furiosamente le loro armi, e come furono fuora della porta Romana messisi co loro squadroni in ordinanza, ancor che non restasse molto del giorno, si avviarono verso l'esercito franzese, con tanta allegrezza e con tanti gridi che chi non avesse saputo altro arebbe tenuto per certo che avessino conseguito qualche grandissima vittoria" (Francesco Guicciardini,"Storia d'Italia"  libro duodecimo, cap. XV).

Matthäus Schiner benedice i mercenari svizzeri riuniti alle porte di Milano
 a mezzogiorno del tredici settembre 1515.

In Rocchetta, nel frattempo, era ripresa la riunione che doveva portare ad una linea di condotta comune, ma la discussione veniva presto interrotta da qualcuno che, entrato improvvisamente, si metteva a gridare: "Perché state ancora lì a discutere? I nostri hanno già deciso cosa fare". Alla sdegnosa risposta di Röist ("Come ti sei permesso di entrare? Torna fuori con gli altri!") faceva seguito l'arrivo di Heini Erb e di Heinrich Rahn, che confermavano la notizia e ne portavano un'altra non meno grave: un gruppo di "Freiknechte" si stava dirigendo al Castello per uccidere chi si opponeva alla decisione presa al termine dell'assemblea
Ormai non c'era più il tempo di discutere. A Röist e agli altri non restava altro che raggiungere le truppe.
Schiner aveva vinto.

Mentre i contrari - la minoranza, cioè, favorevole all'accordo di Gallarate - prendevano la via di Como per ritornare in patria, i soldati che avevano deciso per la battaglia sfilavano dalla piazza del Castello a San Giovanni in Conca e poi per il corso di Porta Romana. Schiner, a cavallo, in mezzo a loro, ricordava agli ufficiali più valorosi che stavano combattendo al servizio della Chiesa e che dunque il loro eventuale estremo sacrificio sarebbe stato ricompensato

La vittoria sembrava ed era in effetti a portata di mano. Seppure in netta superiorità numerica per uomini e pezzi d'artiglieria, i nemici erano gendarmi a cavallo considerati effeminati' e tanto vili da essere chiamati "lepri armate", guasconi pronti a fuggire al primo scontro e lanzi sfiduciati e convinti di essere stati venduti. L'unico vero pericolo, rappresentato dalle batterie, sarebbe stato neutralizzato - com'era successo all'Ariotta - con un attacco che presumibilmente avrebbe causato perdite pesanti, ma necessarie.

Gli svizzeri escono da Milano

Uscite da Porta Romana, le truppe - cui si erano aggiunti cittadini milanesi della fazione "ghibellina" - formavano il "bosco di picche" di cui scrive Grumello e poi tre battaglioni che si avviavano verso Marignano seguendo uno la via romana, un altro il cammino dell'abazia di Chiaravalle e il terzo quella che i milanesi chiamavano "la strada delle farine" che portava ai mulini di Carpianello

Niklas Stör, soldatenzug (plotone di soldati), 1530 circa, xilografia, ubicazione ignota.

La loro sicurezza è testimoniata anche dalle fonti francesi: "Gli svizzeri si avvicinavano con forza e marciavano con grande orgoglio.
La maggior parte erano senza berretti, senza scarpe e senza armature... e marciavano fieramente come coloro che si aspettavano di vincere la battaglia." (Barrillon, pp. 116-117);
"
I quali (svizzeri) vennero in ottimo ordine e con migliore contegno, abbandonando cappelli e berretti e sfilandosi le scarpe per combattere meglio e più fermamente" (Marillac, p. 159).

L'avanguardia - bambini smarriti -, composta dai volontari di Berna - con le baliaggi del Paese di Vaud - Friburgo, Soletta, Vallese, Gruyères e Château-d'Oex, sotto l'ammann di Zugo, Werner Steiner e i capitani Jean de Diessbach, Louis d'Erlach, Hugues de Hallwyl, Arnold de Winkelried e Jean de Werra, (aveva) circa 5000 uomini, di cui 1000 balestrieri. 

Il corpo principale, formato dai cantoni forestali, sotto i Landamani Imhof e Puntiner di Braunberg di Uri, Fleckle e Kätzi di Svitto Wursch e Fruonz di Untervaldo, Schwarzmurer di Zugo e il barone di Tschudi di Glarona, (aveva) circa 10000 uomini. 

Il cardinale Schiner si trova vicino al corpo principale con alcuni cavalieri. 
Zwingli, il futuro riformatore, accompagna i Glaronesi come cappellano. 

Il braccio destro, formato dai contingenti della Svizzera orientale e dei Grigioni, sotto il cavaliere Max Röist di Zurigo, Ziegler, di Sciaffusa, Rodolphe de Marmels e Dietigen de Salis dei Grigioni, (aveva) circa 5000 uomini. 
Il fianco sinistro, Lucerna, Basilea e le città dell'Alsazia, sotto il cavaliere von Hertenstein, avogadro di Lucerna, e Pierre d'Offenburg, borgomastro di Basilea, (aveva) circa 5000 uomini (De Vallière, pp.40-42). 
Usteri (p. 477) afferma che questa suddivisione dei battaglioni per cantoni e provenienza dei volontari non si basa su alcun vero fondamento storico e la dice inventata di sana pianta. 

Giunti a tre miglia da Porta Romana, gli artiglieri elvetici facevano risuonare la voce dei cannoni per risvegliare lo spirito di corpo dei soldati che si erano allontanati poco prima per tornare in patria e venivano rimproverati da Muzio Colonna, che - ignorando quanto stava avvenendo nel campo francese - pensava di veder così sfumato l'effetto di un attacco a sorpresa su cui molto contava

Alcuni pezzi d'artiglieria sottratti alla dotazione del Castello di Porta Giovia erano affidati al capitano Pontely di Friburgo. Si trattava probabilmente di "porcospini" dei tempi di Luigi XII che, divenuto duca di Milano, aveva fatto munire il castello "da ogni bona monitione et di artilaria nova, perché avevano desfatto quelle bombarde grosse et refatte de più minute, che sono de più utilitate" (Da Paullo, p. 159).

L'unico - ma non trascurabile - vantaggio ottenuto con la rapida avanzata verso Marignano era il disordine con cui Carlo di Borbone, pressato dalla fretta, aveva schierato i gendarmi a cavallo dell'avanguardia su un terreno
ricco di fossi".

Gli svizzeri escono da Mialno verso Marignano - Dettaglio dell'incisione su legno realizzata a Venezia da Giovanni Andrea Vavassore, 1515 ca.

I francesi vengono a conoscenza dell'attacco

Era ormai ora di pranzo quando giungeva di corsa uno degli informatori al servizio di Carlo di Borbone, che si trovava nel suo alloggiamento di Zivido.
Così racconta Guillaume de Marillac: "Quel giovedì mattina una delle nostre spie, Michele della Strada, visti uscire gli svizzeri da Milano, attraversò i fossi e andò dal duca di Borbone, che si trovava a tavola pronto a pranzare, e gli disse all'orecchio che i nemici stavano venendo a dare battaglia. Gli fece vedere com'era bagnato per aver attraversato i fossi, visto che sulla gran via stavano marciando gli svizzeri, e concluse che avrebbe rinunciato alla sua stessa vita, se non avesse detto la verità". Il duca allora gettò all'aria la tavola e si precipitò dal re a portare la notizia che, accolta con un certo scetticismo, fu di lì a poco confermata da un primo avviso del capitano Combaud, che segnalava un polverone in direzione di Milano, e da un secondo, che lo diceva provocato da migliaia di svizzeri che stavano avanzando in buon ordine e di buon passo e che verosimilmente avevano deciso di dare battaglia

La gente sperduta 

Verso le quattro del pomeriggio del 13 settembre 1515 un gruppo di valorosi, soprannominati "la gente perduta" perché incaricati delle azioni più rischiose, si faceva avanti fra l'incitamento dei commilitoni e si dirigeva verso un fosso molto profondo oltre il quale era schierata l'avanguardia nemica con numerosi pezzi d'artiglieria

84: Prima di iniziare l'attacco gli elvetici dovettero "smascherare" l'artiglieria nemica che non vedevano a causa del fumo che si levava da alcune case in fiamme e della polvere provocata dai reparti dell'armata di Francia che andavano a prendere posizione.

Così Paolo Giovio: "Davanti all'artiglieria francese si stendeva un grande fosso - presso il quale erano schierate le fanterie dei guasconi comandate da Pedro Navarro e i lanzichenecchi - che non si poteva attraversare se non con sprezzo del pericolo ed eccezionale ardimento. Vi entrò uno squadrone di valorosi, più sicuri di morire che di uscirne vivi. Erano truppe scelte, giovani di grande forza i quali, secondo il costume del loro paese, per poter accedere ai gradi più elevati prima degli altri, affrontano le situazioni più difficili e spesso vanno a morte sicura, per cui hanno il nome di "perduti". Sono molto stimati ed è consentito solo a loro portare le insegne, essere comandanti di fanteria e avere doppia paga. Si riconoscono per i mazzi di penne bianche che hanno sul copricapo e che portano con orgoglio"

Respinti una prima volta, gli assaltatori si riordinavano e, tornati all'attacco seguiti da quella che Marillac chiama "la grosse flotte", attraversavano il fosso passando sopra i corpi dei commilitoni caduti e riuscivano a rigettare i gendarmi francesi a cavallo sui reparti di fanteria che li seguivano, cosa che faceva alzare un tale polverone da rendere quasi impossibile distinguere i contendenti



Ricordiamo che la strategia degli elvetici prevedeva un attacco iniziale sull'artiglieria per limitare le perdite, probabilmente molto gravi se i cannoni avessero sparato per tutto il corso del combattimento. Per mettere a tacere i pezzi era necessario "inchiodarli" ("les clouer"), cioè inserire un chiodo nel "focone" rendendo così impossibile lo sparo. Fu questo che fece l'eroico soldato svizzero ricordato da Barrillon.

Barrillon narra un episodio significativo del furore svizzero: un soldato di grande corporatura e vigore aveva giurato di inchiodare due o tre pezzi d'artiglieria. E in effetti, accompagnato da sette od otto uomini riuscì a inchiodare alcuni cannoni finché non fu abbattuto da un gruppo di lanzichenecchi che uccisero anche i suoi commilitoni.

Cannone da cerimonia norvegese del XIX secolo, inchiodato per motivi di sicurezza

I francesi sbandano

Respinti una prima volta, gli assaltatori si riordinavano e, tornati all'attacco seguiti da quella che Marillac chiama "la grosse flotte", attraversavano il fosso passando sopra i corpi dei commilitoni caduti e riuscivano a rigettare i gendarmi francesi a cavallo sui reparti di fanteria che li seguivano, cosa che faceva alzare un tale polverone da rendere quasi impossibile distinguere i contendenti

Mentre i guasconi, lanciate le loro frecce, arretravano, inutilmente incitati a combattere da Pedro Navarro, un reparto di lanzi, nel passare un fosso per portare soccorso ai gendarmi in difficoltà, era attaccato e massacrato senza che nessuno accorresse a difenderlo.


Sembrava la conferma di ciò che i tedeschi da giorni sospettavano: il re di Francia li aveva venduti agli svizzeri e quella che si stava combattendo era una "falsa battaglia" che doveva vederli soccombere"
Mentre gli elvetici conquistavano una prima batteria, i lanzi cominciavano a ritirarsi in disordine col rischio che il tumulto si propagasse ai commilitoni che si trovavano nel corpo di battaglia.

L'armata di Francia si trovava a un passo da una disfatta storica. Era il trionfo di Schiner, che affidava all'inviato di Basilea il compito di far giungere in Svizzera la notizia della vittoria

"Giovedì sera - scriverà Anselm Graf - i nostri hanno attaccato il nemico e, con l'aiuto di Dio, hanno ucciso quattordicimila lanzichenecchi, guasconi e francesi e conquistato l'artiglieria"

Francesco I al contrattacco

Francesco I compiva allora il capolavoro che avrebbe fatto di lui il vincitore della battaglia. Questo ragazzo di ventun anni - non sappiamo se consigliato o di sua iniziativa - lasciava il corpo centrale dello schieramento e accorreva in prima linea.

Racconta un testimone oculare, giunto a Venezia il 18 settembre, di aver visto il re brandire una picca per rianimare le truppe. I particolari della scena ce li descrive Pasquier le Moine: "Avvertito della grave ritirata dei nostri, il re si precipitò all'avanguardia e vi trovò una moltitudine di lanzi e di gente delle ordinanze in grandissimo disordine e, in mezzo a loro, il duca di Borbone con la spada sguainata che cercava inutilmente di trattenerli. Il re allora scese da cavallo e gridò dove stessero andando e qual era il motivo della loro ritirata, visto che la battaglia non era perduta, e che, quanto a lui, anche a costo di morire, sarebbe rimasto da quel momento in mezzo a loro. Riuscì a rianimarli con tanta efficacia che essi cominciarono a gridare: "Francia! Francia!". Allora il re cercò di prendere una picca ad un avventuriero che però faceva resistenza perché gli serviva. Gli fu detto che a volerla era il re e, poiché non ci voleva credere, lui stesso glielo confermò: "Sì, amico mio, io sono il re". Allora l'avventuriero gliela lasciò dicendo che non l'avrebbe fatto per nessun altro al mondo"

Riordinati i reparti, Francesco I guidava il contrattacco che fermava l'avanzata elvetica. La battaglia si riaccendeva cinque volte in mezzo a un polverone che rendeva difficile riconoscersi e proseguiva con immutato accanimento finché la luce della luna lo permise.

La notte  

Durante la notte i due eserciti restarono quasi a contatto. Facevano da riferimento per l'uno il suono delle trombe, che pareva festeggiare una vittoria, per l'altro la voce del cosiddetto "toro di Uri". Nonostante ciò, molti soldati erano così vicini agli avversari che, riconosciuti con le parole d'ordine, venivano con loro alle mani. Schiner stesso incappava in un gruppo di lanzichenecchi, ma riusciva a non farsi riconoscere"

L'armata regia, arretrata di circa mezzo miglio, si era riordinata dietro un gran fosso (una roggia, secondo Grumello). Francesco I si trovava presso l'artiglieria col suo trombettiere italiano Cristoforo e, come fosse un qualunque soldato, faceva da sentinella.

La battaglia dei giganti

Mentre a Lodivecchio Bartolomeo d'Alviano si preparava a intervenire la mattina seguente sul campo di battaglia, tra gli svizzeri iniziavano le defezioni. Sfumata la speranza di una rapida vittoria, alcuni reparti guidati da avversari di Schiner decidevano infatti di rientrare a Milano

Il combattimento riprendeva la mattina del 14 con importanti novità. Grazie alle informazioni raccolte da lanzichenecchi che, durante la notte, erano riusciti ad ascoltare i discorsi dei nemici accampati vicino a loro, i pezzi dell'artiglieria francese erano puntati molto meglio. Trivulzio - che conosceva la zona - aveva, dal canto suo, fatto riempire d'acqua il fosso che proteggeva l'armata di Francia, schierata in modo più prudente su consiglio dei capitani tedeschi 

Forse anche per questi motivi l'attacco elvetico, portato - come sempre - con grande impeto, non aveva gli effetti di quello del giorno precedente.
Il mancato sfondamento provocava nuove defezioni di soldati della fazione avversa a Schiner, tuttavia lo scontro, che Trivulzio avrebbe definito "di giganti" 

Triulzio, capitano che avea vedute tante cose, affermava questa essere stata battaglia non d'uomini ma di giganti; e che diciotto battaglie alle quali era intervenuto erano state, a comparazione di questa, battaglie fanciullesche" (Francesco Guicciardini, "Storia d'Italia", libro duodecimo, cap. XV).

La lotta proseguiva con immutata intensità e, alle dieci della mattina, l'arrivo di un gruppo di "lance" veneziane al comando di Bartolomeo d'Alviano rintuzzava un tentativo da parte di un battaglione elvetico di piombare alle spalle dell'armata di Francia.

Allagamento

Così il 19.9.1515 Prè Bernardino da Fano racconta la seconda giornata di combattimento: "
...li altri svizeri se riduseno tutti insieme in una palude che si dimanda el Pontil apresso San Juliano per sua forteza, dove steteno fin a la matina do hore avanti l'alba, et in quel puncto poi venero cum deliberato animo ad assaltar lo esercito francese, dubitandose che non fusseno assediati lì dentro; sichè alhora si cominciò un altro fatto d'arme, el qual durò fin a 17 ore (le nostre undici del mattino), et in esso furono morti la major parte de svizeri. Parte se redusse in la villa de Gibido (Zivido), i quali tutti furono etiam morti et brusati da circha 2000, et alcuni se riduseno in un bosco lì apresso et simelmente tutti sono stà morti. 
7000 se sono uniti et andati a la volta de Milan, dei quali ne erano 3000 feriti, i quali el Duca (Massimiliano) parte fece meter in l'ospedal et parte nei borgi, con comandamento che fusseno curati, perchè li pagaria le spese; de la qual cosa se ne ha hauto aviso da Milan. Un'altra parte ancora de loro svizari, forsi da 3 in 4 milia, tutti disordenati, se ne andò a traverso verso Locadi (Locate), i quali tutti sono stà morti per via da villani; le qual tutte cose sa et ha inteso essendo stà in esso campo francese continuamente con la compagnia de lo illustrissimo signor Zuan Jacomo (Trivulzio)" (Sanuto, XXI, 124-125). 

Gli svizzeri che si erano rifugiati Zivido erano uomini di Zurigo e Sciaffusa al comando del capitano Trillerey (De Vallière, p. 60). 
La zona era ricca di paludi. Si ricorda in particolare "el paludo a Pestagallo (Sestogallo) aprese San Juliano" in cui un gruppo di elvetici tentò di mettersi in salvo dopo la battaglia (Sanuro, XXI, 84). 

Il bottino per i soldati di Francesco I fu magrissimo (ibidem, 112), ma gli svizzeri dovettero lasciare sul campo il famoso "toro di Uri". trovato da un lanzichenecco, Bernard Schudi di Lindau (De Vallière, p. 60 e nota I), e la principale fra le loro bandiere, come scrive Alviano in una sua del 14 settembre: "Sa-pemo bene che hanno perse le artelarie er bandiere, et precipue quella che chiamano dalla balla, ch'è la principal loro e la generale de tutte le lege di sguizari" (Sanuto, XXI,101); "Il stendardo lhà il sig.r Bortolo (d'Alviano)" (Vergerio, foglio 13).

I testimoni oculari e, in generale, i contemporanei concordano sull'importanza del ruolo dell'artiglieria francese durante il combattimento e gli esperti di cose militari non hanno mai - a quanto ci risulta - messo in discussione questo giudizio. Da parte nostra, riteniamo che a favore di Galior de Genouillac abbiano giocato il poter colpire grandi masse in movimento, per cui la precisione del tiro non era fondamentale, il poter contare su di un numero considerevole di pezzi, il che gli permise di ottenere (per quei tempi) un volume di fuoco di una certa intensità, e l'aver ricevuto preziose informazioni provenienti dal campo avversario e raccolte da alcuni lanzichenecchi che, durante la notte fra il 13 e il 14 settembre, avevano ascoltato le conversazioni dei nemici accampati vicino a loro.

"Nel nascondersi della Luna Gianiacomo Trivultio andò in persona alla riva dell'Ambro (del Lambro) con molti guastatori, e rotto l'argine fece rimboccar gran quantità d'acqua nel fosso che era inanzi i suoi bastioni, in modo che quando gia cominciava à voler apparire il giorno, cornando (gli) Svizzeri per assaltarlo entraron nell'acqua fino alla cinrura, così haveva l'acqua riempito il fosso, e sparsala per campagna" (Mam-brino da Fabriano, foglio 9 recto); 

"venerno a Milano quelli pochi (Sviceri) ch'erano avanzati, 

er tutti avevano bagnate le gambe: et questo era perchè il Sig. Gio, Giacobo (Trivulzio), come astuto capitaneo, venendo li Sviceri in campo su un certo prato, er lui li dette l'acqua, per modo che la fu in gran ruina a quelli poveri Sviceri" 

(Burigozzo, pp. 427-428)

Secondo Grumello (p. 202), gli elvetici erano bagnati dalla cintola in giù non perché Trivulzio avesse fatto allagare i campi, ma perché in troppi si erano gettati nel fosso (a suo dire, una roggia) dietro il quale l'armata di Francia si era fatta trovare posizionata il secondo giorno di battaglia: "Gionto epso exercito ad essa rogia si gittaro in detta rogia plena di aqua como porci ad passare. lo credo che in epsa rogia fosseno lassate de le scarpe 10 millia de Elvecij". 
L'anonimo autore della "Conqueste" sembra mettere d'accordo le due versioni scrivendo di un allagamento di campi, ma a causa del fatto che gli svizzeri avevano dovuto attraversare "une petite riviere a coste du grant chemin de millan" dietro la quale si trovavano guasconi e avventurieri 

La ritirata

Verso mezzogiorno gli svizzeri iniziavano la ritirata su Milano. Così Galeazzo Visconti: "Di nostra iniziativa e senza che nessuno ci costringesse a farlo, ma solo perché quelli dei nostri che parteggiavano per i francesi si erano ormai tutti allontanati, 

"siamo tornati a passo lento verso Milano ognuno con le sue insegne, con le nostre bandiere intatte e con non poche strappate al nemico senza che nessuno osasse inseguirci"

Galeazzo Visconti ad Enrico VIII d'Inghilterra, 27.12.1515, in Bondioli, p. 184.

Ritirata di Marignano. Affresco sul lato ovest della Sala d'Armeria del Museo Nazionale di Zurigo, opera principale, 1900. Museo Nazionale Svizzero

La grande perizia dimostrata durante la manovra e la dignità del comportamento non possono far passare in secondo piano come avvenne il loro rientro a Milano: 
"(Di quelli poveri Sviceri) non se vedeva altro se non...homeni maltrattati. In modo che pareva che...fusseno stati in campo deci (dieci) anni, tutti polverenti dal mezzo in suxo, et dal mezzo in giuxo bagnati: tanto che li homeni de Milano vedendo tanta desgrazia, tutti se misero su le sue porte, over botteghe, chi con pane et chi con vino a letificar li cori de questi poveri homeni; et questo facevano a honor de Dio" (Burigozzo, p.428). 

Conferma Prato (p. 343) che "era (una) compassione a vedere li fugienti Sviceri, che a Milano per Porta Romana ritornavano, l'uno avendo tagliato un brazzo, l'altro una gamba; et chi guasto dall'artiglieria, et chi fatto bressagio de passatori, l'un l'altro amorevolmente portandosi".

Ritirata di Marignano. Affresco sul lato ovest della Sala d'Armeria del Museo Nazionale di Zurigo, lato destro, 1900. Museo Nazionale Svizzero

La manovra si svolgeva in ordine, ma coloro che non riuscivano ad accodarsi al grosso delle forze erano quasi tutti uccisi!

Mentre, per ciò che riguarda la giornata del 14 settembre, è opinione ormai consolidata sia stata l'artiglieria a decidere le sorti del combattimento'' è difficile stabilire se Trivulzio, col suo stratagemma, abbia effettivamente fermato lo slancio dell'attacco elvetico''' e quanto abbia pesato l'arrivo di Alviano"

Comunque stiano le cose, il nostro giudizio non cambia: con il suo intervento nel momento più critico della battaglia il re aveva evitato alla Francia una disfatta le cui conseguenze sarebbero state disastrose.

Quanto si scriveva nei giorni in cui si dava per certa la vittoria elvetica lascia ampiamente capire come la Spagna, l'Impero, l'Inghilterra e la stessa Santa Sede avrebbero trattato una monarchia umiliata e quale sarebbe stato da quel momento il ruolo degli svizzeri, dimostratisi, una volta di più, "castigatori di principi", e, in particolare, quello di Matthäus Schiner.

L'armata di Francia aveva pagato caro i due giorni di combattimento. Il re, nella sua lettera alla madre, scrive che quattromila uomini mancavano all'appello.
Fra i nomi dei caduti spiccavano quelli del fratello del duca di Borbone, del figlio di la Trémouille - la cui agonia durò trentasei ore - e di tanti altri gendarmi che, col loro sacrificio, avevano sfatato la leggenda delle "lepri armate". 

Anche i guasconi avevano pagato il loro tributo di sangue facendo in parte dimenticare la pessima fama che si erano acquistati a Ravenna.

Encomiabile il valore dei lanzi, che avevano confermato quanto già più volte dimostrato. Fra i veneziani era morto da valoroso Chiappino Orsini.

Si disse che gli svizzeri rimasti sul terreno erano stati circa cinquemila.
Un lanzichenecco, la cui testimonianza è confermata da alcune fonti, contò tuttavia 16.535 caduti elvetici'', il che potrebbe far pensare che i più fra di loro fossero "Freiknechte".

Gli svizzeri rientrano in patria

Il 15 settembre gli svizzeri, lasciati un presidio al Castello e i feriti negli ospedali, si ritiravano verso Como fra lo stupore di chi riteneva le sorti della guerra non ancora segnate!  Il giorno dopo l'armata di Francesco I si accampava fra San Donato e Chiaravalle e il 22 prendeva la strada di Pavia.

Da quel momento tutto giocava a favore del giovane sovrano. Schiner - il cui prestigio era ormai scosso - preferiva non tornare in Svizzera, dove avrebbe dovuto rendere conto del suo operato, e si recava presso l'imperatore Massimiliano a sollecitare soccorsi, Cardona ritirava le truppe verso il regno di Napoli, il Papa cercava subito un accordo con il re di Francia e il Castello di Milano si arrendeva dopo appena venti giorni d'assedio. Ottenute adeguate. garanzie, Massimiliano Sforza andava a rendere omaggio al vincitore ringraziandolo per averlo liberato dalla servitù degli svizzeri!''.

Francesco I partiva così il 10 ottobre da Pavia e, dopo una sosta a Cassino, ospite del maresciallo Trivulzio, faceva, I'11, il suo ingresso in Milano "non come duca, ma come conquistatore" . Era giunto in Italia dopo una traversata delle Alpi che i contemporanei paragonarono a quella di Annibale e aveva vinto una battaglia che lo aveva consacrato "nuovo Cesare" e rispetto alla quale quella, pur memorabile, di Ravenna appariva un terzuolo. Nei mesi successivi avrebbe appreso il modo "italiano" di intendere la vita da cui non si sarebbe più allontanato.

Nel giro di trent'anni il "ragazzo di Marignano", senza innalzare altari alla Ragione, avrebbe "illuminato le tenebre dell'ignoranza che sino ad allora avevano regnato" 

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