Parlando con un collega ci chiedevamo se la soglia della sopportazione del dolora si fosse abbassata con l'andare dei secoli. Questo in particolar modo relazionato alle sempre più performanti tecniche e scoperte nell'ambito sanitario. In particolare mentre sorseggiavamo il caffé davanti alla macchinetta cercavamo di metterci nei panni di chi doveva subire un amputazione in un non meglio definito passato, in ogni caso prima della comparsa dell’anestesia.
“… gli orrori sofferti dal paziente, e le sue urla incontrollabili, la fretta di chi operava e degli assistenti, lo scintillare dei ferri roventi, lo sfrigolare del sangue contro questi ultimi, devono essere state scene terribili, e la chirurgia, in quei tempi oscuri, era certamente un affare terribile”John Bell 1801
Cinematograficamente parlando ci era andato vicino Balla coi lupi" nell'omonimo film, la sua, tutto sommato, scontata fuga dall’ospedale da campo davanti all'opzione di farsi amputare é comprensibile. Va anche detto che l'arto del protagonista si é ripreso completamente mentre nel mio immaginario si procedeva a questa pratica quando l'arto era irrimediabilmente perso, ad esempio in caso del sopraggiungere della cancrena
“Poichè Il Chirurgo si trova spesso obbligato a scegliere se amputare una gamba per salvare la vita di un paziente, è meglio vivere con tre arti che morire con quattro.”
Raffinata amputazione del 1559.
Si riconoscono vari strumenti (ago, filo, coltello, ago da sutura, ecc.) utilizzati dai chirurghi del tempo.
Battaglia di Chanchelorsville: I medici erano impegnati a cercare proiettili, a fasciare ferite e a tagliare braccia e gambe, che giacevano ammucchiate sotto il tavolo.
Pierre Dionis (XVII secolo)
Per diversi giorni consecutivi distribuisco, senza fare distinzione di nazionalità, tabacco, pipe, sigari, il cui odore attenua un poco le esalazioni mefitiche causate dalle tante persone che affollano chiese e ospedali. Inoltre, è una distrazione, un diversivo alle apprensioni dei feriti prima dell'amputazione di un arto
Ritrovo in queste sale d'ospedale molti dei nostri feriti di Castiglione. Ora ricevono cure migliori, ma le loro sofferenze non sono finite.
Ecco uno degli eroici volteggiatori della guardia imperiale, ferito nell'assalto a Solferino. Colpito da un colpo di arma da fuoco alla gamba, ha soggiornato a Castiglione dove lo ho medicato per la prima volta. È disteso su un giaciglio, l'espressione del suo viso dimostra una profonda sofferenza, ha gli occhi incavati e ardenti, il suo colorito livido annuncia che la febbre purulenta è venuta a complicare e ad aggravare il suo stato; ha le labbra secche, la voce tremolante; l'audacia del prode ha lasciato il posto all'apprensione, a una timorosa esitazione; persino le cure ricevute lo innervosiscono; ha paura che ci si accosti alla povera gamba già invasa dalla cancrena.
Un chirurgo francese che esegue le amputazioni passa davanti al suo letto; il malato gli prende la mano e la stringe, il contatto è come quello con un ferro rovente.
«Non fatemi del male! Soffro terribilmente!» grida.
Ma bisogna agire, e senza indugio. Altri venti feriti devono essere operati nella stessa mattina e centocinquanta attendono di essere medicati. Non c'è il tempo di impietosirsi su uno solo, né di soffermarsi sulle sue irresolutezze. Il chirurgo, freddo e risoluto, risponde: «Lasciatemi fare». Poi solleva rapidamente la coperta. La gamba fratturata è raddoppiata di volume, in tre punti esce del pus abbondante e fetido, macchie violacee evidenziano la rottura di un'arteria, il solo rimedio, se ce n'è uno, è l'amputazione.
Amputazione! Parola spaventosa per lo sfortunato giovane, che da questo momento non vede davanti a sé altra alternativa che una morte prossima o la misera esistenza di uno storpio.
Non ha più il tempo per prepararsi all'ultima decisione e, tutto tremante d'angoscia, grida con disperazione: «Oh! Cosa mi farete?». Il chirurgo non risponde: «Infermiere, trasportatelo, sbrigatevi», dice. Ma un grido lacerante si alza da quel petto ansimante; l'infermiere maldestro ha afferrato la gamba inerte, ed eppure ancora molto sensibile, troppo vicino alla ferita: le ossa fratturate, penetrando nelle carni, hanno causato un nuovo supplizio al soldato, la cui gamba si piega, sballottata dalle scosse del trasporto fino alla sala delle operazioni.
Orrendo corteo! Sembra che si conduca una vittima alla morte.
Egli giace infine sul tavolo operatorio. Al suo fianco, su un altro tavolo, un tovagliolo copre gli strumenti! Il chirurgo, tutto preso dal suo compito, non sente e non vede altro che la sua operazione. Un aiutante maggiore trattiene le braccia del paziente, mentre l'infermiere, afferrando la gamba sana, tira il malato verso il bordo della tavola. Lui spaventato grida: «Non lasciatemi cadere!» e si avvinghia convulsamente con le braccia al giovane dottore, pronto a sostenerlo, e che, pallido dall'emozione, è quasi altrettanto turbato.
Il chirurgo, un ginocchio sulle pietre della sala e la mano armata del terribile coltello, circonda con il suo braccio l'arto in cancrena del soldato e incide la pelle in tutta la sua circonferenza. Un grido acuto risuona nell'ospedale. Il giovane medico, faccia a faccia con il martire, può contemplare sui suoi lineamenti contratti i più piccoli dettagli di questa atroce agonia.
«Coraggio» dice sottovoce al soldato, di cui sente le mani contrarsi sulla sua schiena «due minuti ancora e sarete libero!».
Il chirurgo si rialza; separa la pelle dai muscoli sottostanti, che mette a nudo; taglia le carni rialzando la pelle; poi ritornando alla carica, con una rotazione vigorosa, taglia con il suo coltello tutti i muscoli fino all'osso. Un torrente di sangue sgorga dalle arterie appena aperte, inonda l'operatore e si riversa sul pavimento.
Calmo ed impassibile, il rude chirurgo non pronuncia una parola; ma d'un tratto, in mezzo al silenzio che regna nella sala, si rivolge con collera verso l'infermiere maldestro, lo rimprovera di non sapere comprimere le arterie. Quest'ultimo, poco esperto, non ha saputo prevenire l'emorragia premendo opportunamente il pollice sui vasi sanguigni.
Il ferito, al colmo del dolore, articola debolmente:
«Oh! Basta, basta, lasciatemi morire!»
Ma deve passare ancora un minuto, un minuto lungo un'eternità.
Parlando dell’amputazione, molti dimenticano che la preparazione del paziente ha un ruolo fondamentale nella buona riuscita dell’operazione.
Pierre Dionis ci lascia questo consiglio:
Il Chirurgo deve incoraggiare il Paziente, e dargli mezzo bicchiere di vino perché lo aiuti a sopportare il dolore.
Nulla di eccessivo, solo un po’ di vino per aumentare il coraggio, ed è difficile non concordare.
Un ricordo di Solferino
Riesco a trovare la descrizione di un amputazione nel famoso "un ricordo di Solferino", l'opera di Dunant che gettò le basi per la creazione della Croce Rossa. Dopo parecchio tempo, durante la visita del museo del CCR a Ginevra riesco finalmente a trovare il libro, esso é prodotto dall'editore più logico: la croce rossa stessa. Lo si trova qui
Racconta Dunant:
Parte di cassetta chirurgica del dottor Camille Patay 1860-1875
Cassetta chirurgica della Società francese di soccorso ai feriti militari a Londra, realizzata da Savigny e donata al dottor Camille Patay.
Mango, acciaio, ottone, velluto, ebano, 17x44x8 cm
Dono di Max Patay, Collezione del Museo Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa
COL-1988-201-9
Questa valigetta medica della Società francese di soccorso ai feriti militari apparteneva al dottor Camille Patay (1840-1893).
Testimone degli albori della chirurgia di guerra, il cofanetto contiene tutto il necessario per intervenire rapidamente sul campo di battaglia. All'epoca i chirurghi cercavano di intervenire il più vicino possibile ai combattimenti sotto la protezione dell'emblema neutrale e ancora molto recente della Croce Rossa.
Tom Potokar, chirurgo capo del Comitato internazionale della Croce Rossa, confronta i metodi di cura del XIX secolo con quelli odierni. Racconta la sua esperienza e le sfide che lui e i suoi colleghi devono affrontare quotidianamente, in particolare a causa dei nuovi tipi di ferite che si presentano sul campo.
Museo di storia di Basilea
Testimonianza tratta da “un ricordo di Solferino”
A fianco dei militari dall'aspetto rassegnato, ce ne sono altri che mormorano. L'idea di un'amputazione non spaventa troppo il soldato francese con il suo spirito spensierato, ma egli è comunque impaziente, irritabile; gli Austriaci, di umore meno spavaldo, sono più inclini a rattristarsi nel loro isolamento.Ritrovo in queste sale d'ospedale molti dei nostri feriti di Castiglione. Ora ricevono cure migliori, ma le loro sofferenze non sono finite.
Ecco uno degli eroici volteggiatori della guardia imperiale, ferito nell'assalto a Solferino. Colpito da un colpo di arma da fuoco alla gamba, ha soggiornato a Castiglione dove lo ho medicato per la prima volta. È disteso su un giaciglio, l'espressione del suo viso dimostra una profonda sofferenza, ha gli occhi incavati e ardenti, il suo colorito livido annuncia che la febbre purulenta è venuta a complicare e ad aggravare il suo stato; ha le labbra secche, la voce tremolante; l'audacia del prode ha lasciato il posto all'apprensione, a una timorosa esitazione; persino le cure ricevute lo innervosiscono; ha paura che ci si accosti alla povera gamba già invasa dalla cancrena.
Un chirurgo francese che esegue le amputazioni passa davanti al suo letto; il malato gli prende la mano e la stringe, il contatto è come quello con un ferro rovente.
«Non fatemi del male! Soffro terribilmente!» grida.
Ma bisogna agire, e senza indugio. Altri venti feriti devono essere operati nella stessa mattina e centocinquanta attendono di essere medicati. Non c'è il tempo di impietosirsi su uno solo, né di soffermarsi sulle sue irresolutezze. Il chirurgo, freddo e risoluto, risponde: «Lasciatemi fare». Poi solleva rapidamente la coperta. La gamba fratturata è raddoppiata di volume, in tre punti esce del pus abbondante e fetido, macchie violacee evidenziano la rottura di un'arteria, il solo rimedio, se ce n'è uno, è l'amputazione.
Amputazione! Parola spaventosa per lo sfortunato giovane, che da questo momento non vede davanti a sé altra alternativa che una morte prossima o la misera esistenza di uno storpio.
Non ha più il tempo per prepararsi all'ultima decisione e, tutto tremante d'angoscia, grida con disperazione: «Oh! Cosa mi farete?». Il chirurgo non risponde: «Infermiere, trasportatelo, sbrigatevi», dice. Ma un grido lacerante si alza da quel petto ansimante; l'infermiere maldestro ha afferrato la gamba inerte, ed eppure ancora molto sensibile, troppo vicino alla ferita: le ossa fratturate, penetrando nelle carni, hanno causato un nuovo supplizio al soldato, la cui gamba si piega, sballottata dalle scosse del trasporto fino alla sala delle operazioni.
Orrendo corteo! Sembra che si conduca una vittima alla morte.
Egli giace infine sul tavolo operatorio. Al suo fianco, su un altro tavolo, un tovagliolo copre gli strumenti! Il chirurgo, tutto preso dal suo compito, non sente e non vede altro che la sua operazione. Un aiutante maggiore trattiene le braccia del paziente, mentre l'infermiere, afferrando la gamba sana, tira il malato verso il bordo della tavola. Lui spaventato grida: «Non lasciatemi cadere!» e si avvinghia convulsamente con le braccia al giovane dottore, pronto a sostenerlo, e che, pallido dall'emozione, è quasi altrettanto turbato.
Il chirurgo, un ginocchio sulle pietre della sala e la mano armata del terribile coltello, circonda con il suo braccio l'arto in cancrena del soldato e incide la pelle in tutta la sua circonferenza. Un grido acuto risuona nell'ospedale. Il giovane medico, faccia a faccia con il martire, può contemplare sui suoi lineamenti contratti i più piccoli dettagli di questa atroce agonia.
«Coraggio» dice sottovoce al soldato, di cui sente le mani contrarsi sulla sua schiena «due minuti ancora e sarete libero!».
Il chirurgo si rialza; separa la pelle dai muscoli sottostanti, che mette a nudo; taglia le carni rialzando la pelle; poi ritornando alla carica, con una rotazione vigorosa, taglia con il suo coltello tutti i muscoli fino all'osso. Un torrente di sangue sgorga dalle arterie appena aperte, inonda l'operatore e si riversa sul pavimento.
Calmo ed impassibile, il rude chirurgo non pronuncia una parola; ma d'un tratto, in mezzo al silenzio che regna nella sala, si rivolge con collera verso l'infermiere maldestro, lo rimprovera di non sapere comprimere le arterie. Quest'ultimo, poco esperto, non ha saputo prevenire l'emorragia premendo opportunamente il pollice sui vasi sanguigni.
Il ferito, al colmo del dolore, articola debolmente:
«Oh! Basta, basta, lasciatemi morire!»
Ma deve passare ancora un minuto, un minuto lungo un'eternità.
L'aiutante maggiore, sempre pieno di attenzione, misura i secondi e guarda fisso, ora il chirurgo che opera, ora il paziente, cercando di sostenerlo, dicendogli: «Manca solo un minuto!».
In effetti, il momento della sega è arrivato, e già si sente l'acciaio che stride penetrando nell'osso vivo e che separa dal corpo l'arto mezzo putrefatto.
Ma il dolore è troppo forte per questo corpo debole, sfinito; i gemiti cessano perché il malato è svenuto.
Il chirurgo, che non è più guidato dalle sue grida e dai suoi lamenti, temendo che questo silenzio sia quello della morte, lo guarda con inquietudine per assicurarsi che non sia spirato.
I cordiali, tenuti di riserva, a malapena arrivano a rianimare i suoi occhi spenti, socchiusi, come vitrei.
Il morente sembra ritornare in vita; è distrutto e sfinito, ma almeno le sue grandi sofferenze sono terminate.
Ferguson si prendeva 12-20 secondi per fare il lavoro sporco di un’amputazione all’anca. Queste tecniche potevano portare a gravi complicazioni. Un collega di Liston a Londra fece un’amputazione transfemorale in pochi secondi, ma nella foga amputò anche due dita dell’assistente ed entrambi i testicoli del paziente. Larrey eseguì 200 amputazioni in 24 ore durante la Campagna di Russia, una ogni sette minuti, giorno e notte. La maggior parte furono portate a termine in modo crudo, “a ghigliottina”, con ossa e tessuti molli tagliati allo stesso livello. Questo tipo di amputazioni ebbero un decorso insoddisfacente a causa delle ossa sporgenti.
Ma il dolore è troppo forte per questo corpo debole, sfinito; i gemiti cessano perché il malato è svenuto.
Il chirurgo, che non è più guidato dalle sue grida e dai suoi lamenti, temendo che questo silenzio sia quello della morte, lo guarda con inquietudine per assicurarsi che non sia spirato.
I cordiali, tenuti di riserva, a malapena arrivano a rianimare i suoi occhi spenti, socchiusi, come vitrei.
Il morente sembra ritornare in vita; è distrutto e sfinito, ma almeno le sue grandi sofferenze sono terminate.
Velocità
Fino allo sviluppo dell’anestesia, in tutte queste procedure la velocità era l’elemento essenziale. Jacques Lisfranc di Parigi, all’inizio dell’Ottocento, usò oltre 1.000 cadaveri l’anno per insegnare le tecniche di amputazione e riusciva a eseguire una transfemorale su un cadavere in 10 secondi. Egli sosteneva che un elemento essenziale della sua tecnica fosse quello di evitare di inginocchiarsi sul pavimento, perché si perdeva troppo tempo a ritrovare le giuste misure una volta tornati in posizione eretta. Benjamin Bell riusciva a separare tutti i muscoli e i nervi della coscia (escluso il femore quindi) in 6 secondi; James Woods, a New York, riusciva ad amputare una coscia in 9 secondi. Dominique Larrey (capo chirurgo dell’Esercito Napoleonico), per eseguire un’amputazione del genere con tutte le legature, si prendeva 3 minuti, ma era capace di disarticolare una spalla in 17 secondi, escludendo, ovviamente, le legature.Ferguson si prendeva 12-20 secondi per fare il lavoro sporco di un’amputazione all’anca. Queste tecniche potevano portare a gravi complicazioni. Un collega di Liston a Londra fece un’amputazione transfemorale in pochi secondi, ma nella foga amputò anche due dita dell’assistente ed entrambi i testicoli del paziente. Larrey eseguì 200 amputazioni in 24 ore durante la Campagna di Russia, una ogni sette minuti, giorno e notte. La maggior parte furono portate a termine in modo crudo, “a ghigliottina”, con ossa e tessuti molli tagliati allo stesso livello. Questo tipo di amputazioni ebbero un decorso insoddisfacente a causa delle ossa sporgenti.
Mentre molti chirurghi erano più preoccupati della velocità, altri iniziarono a lavorare sul miglioramento delle tecniche volte a ottenere un moncherino sano.
Surrogati di anestesia
Pierre Dionis ci lascia questo consiglio:
Il Chirurgo deve incoraggiare il Paziente, e dargli mezzo bicchiere di vino perché lo aiuti a sopportare il dolore.
Nulla di eccessivo, solo un po’ di vino per aumentare il coraggio, ed è difficile non concordare.
Ambroise Parè parla sia del preamputazione:
La prima attenzione deve essere quella di preservare la forza vitale del paziente. Per questo, fatelo rifocillare con carne di facile digeribilità…
Sia del recupero post-amputazione:
(una dieta ricca di) rossi d’uovo, pane tostato e inzuppato nel vino rosso (“sacke”) o nel Muskedine.”
Carne, uova, pane tostato inzuppato nel vino… imbottire un paziente di cibo prima di staccargli un arto sembra davvero una pessima idea.
A parte il quantitativo di cibo presente nello stomaco del paziente, i medici dei secoli scorsi si chiedevano se fosse meglio amputare a “caldo” o dopo aver ponderato a lungo la decisione, magari di concerto con il futuro operato.
John Atkins, chirurgo navale che ci ha lasciato molti resoconti, fa una considerazione che rimane condivisibile in assenza di anestesia:
“La foga dell’azione e la sorpresa creano un momento adatto per l’amputazione. Gli uomini affrontano questa sfortunato evento con maggior forza e risoluzione rispetto a quando passano prima una notte di pensiero e riflessione.”
Egli nota che, nel caso di amputazione rimandata di due, tre o dieci ore, il paziente arriva all’operazione in uno stato di panico assoluto, mentre l’amputazione “a caldo” permette di sfruttare appieno il flusso di adrenalina che invade il corpo umano durante una battaglia.
In mancanza di anestesia, i medici antichi sperimentarono un buon numero di intrugli, ma alla fine l’unica soluzione per tenere fermo il paziente si rivelarono essere dei robusti assistenti. Parè ne utilizzava addirittura 6, ma il loro impiego non risolveva l’altro problema, ovvero il dolore.
La prima attenzione deve essere quella di preservare la forza vitale del paziente. Per questo, fatelo rifocillare con carne di facile digeribilità…
Sia del recupero post-amputazione:
(una dieta ricca di) rossi d’uovo, pane tostato e inzuppato nel vino rosso (“sacke”) o nel Muskedine.”
Carne, uova, pane tostato inzuppato nel vino… imbottire un paziente di cibo prima di staccargli un arto sembra davvero una pessima idea.
A parte il quantitativo di cibo presente nello stomaco del paziente, i medici dei secoli scorsi si chiedevano se fosse meglio amputare a “caldo” o dopo aver ponderato a lungo la decisione, magari di concerto con il futuro operato.
John Atkins, chirurgo navale che ci ha lasciato molti resoconti, fa una considerazione che rimane condivisibile in assenza di anestesia:
“La foga dell’azione e la sorpresa creano un momento adatto per l’amputazione. Gli uomini affrontano questa sfortunato evento con maggior forza e risoluzione rispetto a quando passano prima una notte di pensiero e riflessione.”
Egli nota che, nel caso di amputazione rimandata di due, tre o dieci ore, il paziente arriva all’operazione in uno stato di panico assoluto, mentre l’amputazione “a caldo” permette di sfruttare appieno il flusso di adrenalina che invade il corpo umano durante una battaglia.
In mancanza di anestesia, i medici antichi sperimentarono un buon numero di intrugli, ma alla fine l’unica soluzione per tenere fermo il paziente si rivelarono essere dei robusti assistenti. Parè ne utilizzava addirittura 6, ma il loro impiego non risolveva l’altro problema, ovvero il dolore.
Commenti
Posta un commento