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L’arte di ottenere ragione

La natura umana comporta che quando nel pensare in comune, nel comunicare opinioni (eccettuati i discorsi di tipo storico), A si accorge che i pensieri di B sul medesimo oggetto divergono dai suoi, egli non va per prima cosa a riesaminare il proprio pensiero per trovare l'errore, ma presuppone che questo si trovi nel pensiero dell'altro: cioè l'uomo è per natura prepotente, vuole aver ragione

L'interesse per la verità, che nella maggioranza dei casi è stato l'unico motivo per sostenere la tesi ritenuta vera, cede completamente il passo all'interesse della vanità: il vero deve apparire falso e il falso vero. Di regola, chi disputa non lotta per la verità, ma per imporre la propria tesi, perché non può fare diversamente. Dunque, di regola ciascuno vorrà far prevalere la propria affermazione, anche quando per il momento gli appare falsa o dubbia; e i mezzi per riuscirvi sono, in certa misura, offerti a ciascuno dalla propria astuzia e cattiveria: a insegnarli è l'esperienza quotidiana nel disputare.

Alla faccia della verità

Chi esce vincitore da una disputa molto spesso lo deve non tanto all'esattezza del suo giudizio nell'esporre la propria tesi, quanto all'astuzia e alla destrezza con cui l'ha sostenuta.

Quando sorge la disputa ciascuno crede di avere la verità dalla propria parte; in seguito entrambi diventano dubbiosi: solo alla fine si vedrà e verrà sancita la verità. Dunque la dialettica non deve avventurarsi nella verità: alla stessa stregua del maestro di scherma, che non considera chi abbia effettivamente ragione nella contesa che ha dato origine al duello: colpire e parare, questo è quello che conta.

Gérard d'Estavayer uccide Othon III de Grandson a Bourg-en-Bresse il 7.8.1397. 
Raffigurazione del duello come prova giuridica realizzata intorno al 1483 dal disegnatore dell'Amtliche Berner Chronik di Diebold Schilling (Burgerbibliothek Bern, Mss.h.h.I.1, p. 278).

Il compito principale della dialettica scientifica, così come la intendiamo noi, è perciò quello di presentare e analizzare gli stratagemmi della slealtà nel disputare, affinché nelle dispute reali li si riconosca e li si annienti subito. Proprio per questo, nella sua esposizione, essa deve dichiaratamente assumere come proprio fine ultimo solo l'avere ragione, non la verità oggettiva.

Quando si vuole trarre una certa conclusione non la si lasci prevedere, ma si faccia in modo che l'avversario ammetta senza accorgersene le premesse una per volta e in ordine sparso, altrimenti tenterà ogni sorta di cavilli; oppure, quando non si è certi che l'avversario le ammetta, si presentino le premesse di queste premesse, si facciano pre-sillogismi, ci si faccia ammettere le premesse di molti di questi 
pre-sillogismi senza ordine e confusamente, si occulti dunque il proprio gioco finché non è stato ammesso tutto ciò di cui si ha bisogno. Si arrivi insomma al dunque partendo da lontano.

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Per dimostrare la propria tesi ci si può servire anche di premesse false, e ciò quando l'avversario non ammetterebbe quelle vere, o perché non ne riconosce la verità oppure perché vede che la nostra tesi ne conseguirebbe immediatamente.

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Quando la disputa è condotta in modo piuttosto rigoroso e formale e ci si vuole far intendere molto chiaramente, colui che ha presentato l'affermazione e deve dimostrarla procede contro l'avversario ponendo domande, per concludere la verità dell'affermazione dalle stesse ammissioni dell'avversario. Questo metodo erotematico era particolarmente in uso presso gli antichi (si chiama anche metodo socratico)

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Suscitare l'ira dell'avversario, perché nell'ira egli non è più in condizione di giudicare rettamente e di percepire il proprio vantaggio. Si provoca la sua ira facendogli apertamente torto, tormentandolo e, in generale, comportandosi in modo sfacciato.

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Porre le domande non nell'ordine richiesto dalla conclusione che si deve trarre, ma con spostamenti di ogni genere: l'avversario non capisce allora dove si voglia andare a parare e non è in grado di prevenire: ci si può anche servire delle sue risposte per trarne conclusioni diverse, perfino contrarie, a seconda delle risposte, bisogna mascherare il proprio modo di procedere.

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Ci si accorge che l'avversario risponde di proposito negativamente alle domande, perché la risposta affermativa potrebbe essere utilizzata per la nostra tesi. In tal caso bisogna chiedere il contrario della tesi di cui ci si vuole servire come se si volesse la sua approvazione, o almeno sottoporgli ambedue le tesi, in modo che egli non si accorga di quale si vuole che lui affermi.

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La contraddizione e la lite spingono a esagerare l'affermazione. Possiamo dunque stuzzicare l'avversario contraddicendolo, e indurlo così a esagerare oltre il vero un'affermazione che in sé, e in un certo ambito, potrebbe essere vera: e una volta confutata questa esagerazione, è come se avessimo confutato anche la sua tesi di partenza. Al contrario, quando veniamo contraddetti, dobbiamo fare attenzione a non esagerare o estendere la nostra tesi. Spesso inoltre sarà l'avversario a fare direttamente il tentativo di estendere la nostra affermazione oltre i termini nei quali noi l'abbiamo posta: dobbiamo allora fermarlo subito e ricondurlo ai limiti della nostra affermazione con un «tanto ho detto, e niente di più».

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Un tiro brillante è la retorsio argumenti: quando l'argomento che l'avversario vuole usare a proprio vantaggio può essere usato meglio contro di lui. Per esempio egli dice: « È un bambino, bisogna pur concedergli qualcosa»; retorsio: « Proprio perché è un bambino bisogna castigarlo, affinché non perseveri nelle sue cattive abitudini».

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Se, di fronte a un argomento, l'avversario inaspettatamente si adira, allora bisogna incalzare senza tregua con quell'argomento: non soltanto perché va bene per farlo montare in collera, ma perché si deve supporre di aver toccato il lato debole del suo ragionamento, e di potergli nuocere, a questo punto, ancor più di quanto si possa credere in un primo tempo.

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Uno stratagemma lo si può adoperare principalmente quando persone colte disputano davanti ad ascoltatori incolti. Quando non si dispone di alcun argumentum ad rem e nemmeno di uno ad hominem, allora se ne fa uno ad auditores, cioè si avanza una obiezione non valida, di cui però solo un esperto vede l'inconsistenza: ma, mentre l'avversario è un esperto, tali non sono gli ascoltatori. Ai loro occhi egli viene dunque battuto, tanto più se la nostra obiezione riesce a porre in una luce ridicola la sua affermazione.
A ridere la gente è subito pronta, e quelli che ridono li si ha dalla propria parte. Per mostrare che l'obiezione è nulla, l'avversario dovrebbe inoltrarsi in una lunga discussione e risalire ai principi della scienza, o cose del genere: ma se lo fa, non trova facilmente ascolto.

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Le autorità che l'avversario non capisce affatto per lo più producono l'effetto migliore. Gli incolti hanno un rispetto tutto particolare per le espressioni retoriche greche o latine. All'occorrenza, le autorità si possono non solo distorcere, ma addirittura falsificare o perfino inventare: per lo più l'avversario non ha il libro a portata di mano e non sa nemmeno come consultarlo. Il più bell'esempio a questo proposito è offerto da un curato francese, il quale, per non pavimentare la strada davanti alla sua casa, come erano obbligati a fare gli altri cittadini, citò un detto biblico: paveant illi, ego non pavebo [tremino pur quelli, io non tremerò]. Ciò convinse gli amministratori comunali.

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A esser capaci di pensare sono pochissimi, ma opinioni vogliono averne tutti: che cos'altro rimane se non accoglierle belle e fatte da altri, anziché formarsele per conto proprio? Poiché questo è ciò che accade, quanto può valere ancora la voce di cento milioni di persone? Tanto quanto un fatto storico che si trova in cento storiografi, ma poi si verifica che tutti si sono trascritti l'uno l'altro, per cui, alla fine, tutto si riconduce all'affermazione di uno solo

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Qualora non si sappia opporre nulla alle ragioni esposte dall'avversario ci si dichiari, con fine ironia, incompetenti: « Quello che lei dice supera la mia debole comprensione: sarà senz'altro giustissimo, ma io non riesco a capirlo e rinuncio a ogni giudizio ».
Con ciò, negli uditori presso i quali si è tenuti in considerazione, si insinua che si tratta di una cosa insensata.


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Se a una domanda o a un argomento l'avversario non dà una risposta diretta o non prende una posizione precisa, ma evade con una controdomanda, una risposta indiretta o addirittura con qualcosa che non è pertinente all'oggetto in discussione, e vuole andare a parare da tutt'altra parte; questo è un segno sicuro che abbiamo toccato (magari senza saperlo) un punto marcio: si tratta, da parte sua, di un ammutolimento relativo. È necessario dunque incalzare sul punto che abbiamo toccato e non mollare, anche quando non vediamo ancora in che cosa consista la debolezza che abbiamo colpito.

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Un possidente terriero afferma l'eccellenza della meccanica in Inghilterra, dove una macchina a vapore compie il lavoro di molti uomini: gli si lasci intendere che presto anche i veicoli saranno tirati da macchine a vapore, sicché i prezzi dei cavalli delle sue numerose scuderie dovranno subire un crollo
- e si vedrà. In questi casi il sentimento di ognuno è di regola: quam temere in nosmet legem sancimus iniquam [con quanta leggerezza enunciamo una legge iniqua contro noi stessi. Orazio, Satire, I, 3, 67].

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Quando ci si accorge che l'avversario è superiore e si finirà per avere torto, si diventi offensivi, oltraggiosi, grossolani, cioè si passi dall'oggetto della contesa (dato che lì si ha partita persa) al contendente e si attacchi in qualche modo la sua persona.

Avere un gran sangue freddo può tuttavia essere utile anche in questa occasione, se cioè, non appena l'avversario diventa offensivo, si risponde con calma che ciò non pertiene alla cosa in questione e si ritorna subito su questa, continuando a dimostrargli il suo torto senza badare alle offese - dunque più o meno come dice Temistocle ad Euribiade: nátasov êv, axovoov de [bastonami ma ascoltami]. [Plutarco, Temistocle, 11, 20]. 

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Ma questo non è da tutti.
L'unica controregola sicura è perciò quella che già Aristotele indica nell'ultimo capitolo dei Topici: non disputare con il primo arrivato, ma solo con coloro che si conosce e di cui si sa che hanno intelletto sufficiente da non proporre cose tanto assurde da esporli all'umiliazione; e che hanno abbastanza intelletto per disputare con ragioni, e non con decisioni perentorie, e per ascoltare ragioni e acconsentirvi; e, infine, che apprezzano la verità, ascoltano volentieri buone ragioni, anche quando provengono dalla bocca dell'avversario, e siano abbastanza equi da saper sopportare di ottenere torto quando la verità sta dall'altra parte. Da ciò segue che, fra cento persone, ce n'è forse una degna che si disputi con lei. Agli altri si lasci dire quello che vogliono, perché desipere est jurs gentum [l'essere irragionevoli è un diritto umano], e si rifletta su ciò che dice Voltaire: La paix vaut encore mieux que la vérité [La pace è preferibile alla verità]; e un detto arabo recita: "Il frutto della pace é appeso all’albero del silenzio"

In ogni caso, la disputa, come attrito di teste, è spesso di reciproca utilità per rettificare i propri pensieri e anche per produrre nuovi punti di vista. 

Ma i due contendenti devono essere pressoché pari fra loro per erudizione e intelligenza. Se uno è privo della prima, allora non capisce tutto, non è au niveau. Se gli manca la seconda, allora il rancore che ne sorge lo istigherà a cose sleali e ad astuzie, o alla villania.

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