Le fonti di ispirazione leggendo il vocabolario fraseologico del dialetto di Airolo di Fabio Beffa non mancano.
In particolare più volte avevo letto qui e la che il Ceneri fosse terra di imboscate e di briganti, ma non immaginavo di potermi avventurare alla conoscenza di uno di questi protagonisti del XIXesimo secolo:
Sgianott
Sgianott soprannome di Costantino Genotti patrizio di Quinto, nato ad Airolo nel 1831 e la cui famiglia risiedeva a Brugnasco; era ricordato nella tradizione orale quale bandito di strada e uomo pericoloso; - Achille Filippini - che era al servizio della famiglia Motta come postiglione ebbe la ventura di trovarselo davanti ma essendo stato riconosciuto dal bandito - a ti sé tí Ciòss, alóra va püra - non ebbe a subirne le violenze; Ciòss era il soprannome perché figlio di una Ciossi di Chiggiogna; il Genotti fu imprigionato in seguito all'assalto della diligenza federale sul Ceneri nel 1868, episodio che ebbe vasta risonanza e in cui ci scappò anche il morto.(Tratto dal vocabolario fraseologico del dialetto di Airolo)
Ma a questo punto conviene fare un passo indietro
Il sostegno della popolazione
Il brigantaggio fu un fenomeno strettamente legato a un mondo diviso in ceti sociali. Perciò talvolta i fuorilegge erano visti dalla popolazione contadina con benevolenza, a volte offrendo loro coperture o sostegno. Il brigante incarnava colui che rubava ai ricchi in quanto rappresentante di un mondo di emarginati che nella vita aveva spesso quali alternative la fame o la servitù.D’altronde solo chi possedeva una certa disponibilità economica poteva permettersi all’epoca di partire per un viaggio d’affari o di piacere. Chi invece lasciava il proprio villaggio, lo faceva solo con la speranza di trovare altrove un lavoro in grado di sfamare la propria famiglia.
Ciò non toglie che i briganti si macchiarono di crimini orrendi e che talvolta le rapine finivano con violenze od omicidi. Perciò la repressione delle autorità fu altrettanto cruenta. Quando i casi di brigantaggio aumentavano, venivano inviate guarnigioni al passo del Monte Ceneri per istituire dei posti di guardia. Ancora nel Settecento, i malfattori che venivano scoperti vedevano la loro testa decapitata esposta su delle picche poste in cima al valico.
Un raccapricciante messaggio per far comprendere alla popolazione cosa accadeva a chi violava le leggi.
Illustrazione tratta da "The Union Jack", una rivista britannica pubblicata da Griffith & Farran, Londra e datata 30 dicembre 1880, volume II, n. 53. Una banda di uomini in rivolta attacca una famiglia indifesa con le asce (Getty images)
Quando c'era Barbanera
La Via del Ceneri è stata per secoli una via in grado di collegare il Nord e il Sud delle Alpi. Nel bene, favorendo commerci, pellegrinaggi e spostamenti di persone da una città all’altra, ma anche nel male, con il transito di eserciti invasori. Tra i mali che comportava la presenza di una via di traffico senza apprezzabili alternative, qual era il passo del Monte Ceneri, vi erano anche gli assalti dei briganti. Queste selve dovettero essere uno dei punti dove era più facile incontrare un’imboscata messa in atto da banditi. A essere presi di mira erano soprattutto i mercanti di bestiame e di altri beni che si recavano verso i mercati lombardi e del Sottoceneri. Si hanno notizie del fenomeno del brigantaggio lungo la Via del Ceneri già in epoca medievale.Nel 1309 sono documentate diverse proteste di mercanti lucernesi e in una pergamena del 9 novembre 1367 si accenna a una rapina con omicidio. Nella seconda metà del Seicento vi sarebbe stato l’apice del fenomeno. All’epoca più banditi, tra storia e leggenda, paiono dividersi il territorio per taglieggiare i passanti. I briganti avevano nomi evocativi: Il Carbonaio, Tagliabrache, Cocagna, Il Rosso, Barbanera, Pelaboschi, Fra Volpone. C’era chi aveva sulla coscienza numerosi omicidi e chi pare avesse la mano meno pesante con le sue vittime. Raramente morivano nel proprio letto. Alcuni di loro furono uccisi negli scontri con le guardie, altri finirono i loro giorni sulla forca, qualcuno cercò invano di fuggire oltre il Gottardo.
Nel mese di marzo 1866 si svolse a Como il processo contro i componenti la banda che furono condannati ai lavori forzati a vita, rei di grassazione e di omicidio. Costantino Genotti fu consegnato all'autorità svizzera perché ne aveva richiesta l'estradizione. Il processo, celebrato davanti alla Corte criminale di Bellinzona, si tenne dal 19 al 22 novembre 1866. L'accusa fu sostenuta dal procuratore pubblico Francesco Petrocchi e la difesa dall'avvocato Antonio Zanini.
« L’assalto dei briganti »
(disegno realizzato da Corrado Mordasini per La Via del Ceneri)
L'ultimo assalto
Nella notte tra mercoledi 12 e giovedi 13 ottobre del 1864 la diligenza federale Fluelen-Camerlata (ora frazione di Como), venne assalita, a metà salita del Ceneri, da una banda di malviventi capitanata dal leventinese Giuseppe Costantino Genotti (conosciuto anche come Gianotti). Nato a Brugnasco - passava per mandriano ed era soprannominato "gross Gianòtt" per la sua corpulenza - ebbe già
a che fare con la giustizia quale ladro e attaccabrighe.
a che fare con la giustizia quale ladro e attaccabrighe.
La rapina fu organizzata con cura ed ebbe all'origine anche una soffiata: i malfattori sapevano che la diligenza notturna trasportava una cassa postale contenente una grossa somma di denaro. Di solito i viaggi notturni non trasportavano valori, anche perché vi era già stato un episodio precedente, un assalto nella notte del 22 novembre 1862 nei pressi del cimitero di Balerna. Il colpo fu preparato a Milano, città che il Genotti conosceva bene poiché vi andava spesso a trovare una sorella, proprietaria di una latteria.
I cinque banditi giunsero in Ticino la mattina del 12 e si nascosero in una fattoria sul Piano di Magadino, il cui proprietario fu costretto a consegnare alla banda le armi necessarie. Sul luogo della prevista rapina si aggiunsero altri due compari, tutti dotati di fucili, pistole e coltelli. La diligenza, partita alle 8.40 del 12 ottobre da Flüelen, giunse a Bellinzona alle 23.25; la guidava il postiglione Pietro Berta di Giubiasco, con al fianco il conduttore urano Michele Danioth, responsabile del viaggio.
Una delle due vie che portava al Ceneri da Nord, la via del Montecenerino oggi
Undici erano i passeggeri sulla vettura, di cui tre donne e due bambini, che lasciò Bellinzona in orario. All'inizio della salita il postiglione Berta e il passeggero Luigi Lattuada, un commerciante milanese, scesero per alleggerire la carrozza e camminavano ai lati, mentre a cassetta rimase il solo Danioth.
Giunti sotto il paese di Robasacco, poco dopo la mezzanotte, al chiaro di luna, i banditi cominciarono a sparare. Il Lattuada, che oppose resistenza, venne ferito da un colpo di pistola al petto sparato da un malvivente, mentre un altro proiettile colpi al mento il postiglione Berta che cercava di fuggire. Il Danioth sferzò i cinque cavalli per far avanzare la diligenza, ma fu scaraventato a terra, malmenato e derubato. Tutti i viaggiatori furono fatti scendere e distesi a terra, obbligati a consegnare denaro e oggetti di valore. Dopo aver minacciato di tagliare il dito all'avvocato Pietro Mola di Coldrerio (che poi spedi un telegramma annunciante l'aggressione) poiché stentava a togliersi un anello, i rapinatori si interessarono delle valigie e di una grossa cassa nella quale speravano di trovare il denaro: rinvennero solo una catena di ferro. Persero così del tempo lasciando intatta la cassa postale sul cui fondo vi era la rispettabile somma di 24.000 lire. Dopo il colpo i briganti sparirono con il bottino, pari a circa 2.300 franchi.
La diligenza riprese la corsa per sostare in seguito alla casermetta dei gendarmi sul Ceneri, dove vennero ricoverati il venticinquenne Lattuada, che morirà poche ore dopo, e il postiglione Berta, che colpito al mento, resterà sfigurato. I rapinatori si diressero verso Quartino e passarono il confine, ma sei di loro furono successivamente arrestati nel Luinese.
E il karma dov'é?
Infatti i viaggiatori non ebbero molta difficoltà a vedere i lineamenti del viso dei banditi, anche se costoro ne avevano coperto con fazzoletti la parte inferiore. Perciò le vittime, nei vari confronti operati dalla polizia, li identificarono quasi subito. Addirittura durante l'aggressione, un ragazzino riconobbe il Genotti che, tempo addietro, gli aveva regalato dei dolci ad Ambri. L'ultimo ad essere acciuffato, il 19 ottobre, fu proprio lui, catturato a Milano mentre stava per recarsi dalla sorella.
Il violento episodio turbò profondamente l'opinione pubblica. La stampa, che ne era interprete, scriveva che questo delitto aveva scosso la proverbiale tranquillità che il viaggiatore godeva sulle strade ticinesi e quella sicurezza pubblica che formava il privilegio del paese.Nel mese di marzo 1866 si svolse a Como il processo contro i componenti la banda che furono condannati ai lavori forzati a vita, rei di grassazione e di omicidio. Costantino Genotti fu consegnato all'autorità svizzera perché ne aveva richiesta l'estradizione. Il processo, celebrato davanti alla Corte criminale di Bellinzona, si tenne dal 19 al 22 novembre 1866. L'accusa fu sostenuta dal procuratore pubblico Francesco Petrocchi e la difesa dall'avvocato Antonio Zanini.
Morte o ferri a vita?
Durante i dibattimenti venne incatenato e sorvegliato da uno straordinario numero di poliziotti.
La "Gazzetta del Popolo" di Bellinzona scrisse che la requisitoria e la difesa furono bellissime e molto eloquenti.
Il Tribunale lo condannò a morte per furto violento commesso su pubblica via con aggressione a mano armata, accompagnato da assassinio e da gravi ferimenti. L'avvocato difensore ricorse inutilmente in Cassazione e il 3 gennaio 1867 inoltrò domanda di grazia al Gran Consiglio per mutare la pena capitale in carcere a vita.
La "Gazzetta del Popolo" di Bellinzona scrisse che la requisitoria e la difesa furono bellissime e molto eloquenti.
Il Tribunale lo condannò a morte per furto violento commesso su pubblica via con aggressione a mano armata, accompagnato da assassinio e da gravi ferimenti. L'avvocato difensore ricorse inutilmente in Cassazione e il 3 gennaio 1867 inoltrò domanda di grazia al Gran Consiglio per mutare la pena capitale in carcere a vita.
Nel messaggio del 25 febbraio, in merito alla domanda di grazia, il Consiglio di Stato, ponendo in evidenza il pensiero abolizionista, dichiarò che la pena di morte non si presenta più né logica, né necessaria, né utile. La pena fu perciò commutata dal Gran Consiglio, nella seduta del primo marzo 1867, con 89 voti contro 11, nella reclusione ai ferri a vita, nonostante il preavviso contrario della Camera criminale.
Genotti venne rinchiuso nella Casa cantonale di pena, il Castel Grande di Bellinzona. Tentò ripetutamente di evadere e così fu messo, per ragioni di sicurezza, in una cella apposita con un finestrino a fior di terra. Nel 1873 lo trasferirono, con altri detenuti, nel nuovo penitenziario di Lugano. Avendo l'abitudine di scrivere messaggi sui muri della cella e usando come penna un pezzetto di legno e il suo sangue come inchiostro, sarebbe stato vittima di una infezione al braccio destro, che gli dovette essere amputato, Il "bandito del Ceneri", mori per "enterite lenta" il primo gennaio 1878, alle 4 del mattino. Aveva 47 anni.
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