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Il terrore nell’arte: la morte

Classicone irrinunciabile, fonte delle nostre paure più recondite. Un ennesimo piccolo viaggio alla scoperta della morte e deli vari metodi per approcciarsi ad essa. Un ennesima opportunità di riflessione
 
Trionfo della morte, salterio tedesco, 1500 - 1550. Londra, British Library

Le tre parche

Nell'Antica Grecia, le Moire (chiamate Parche nella Roma Antica) erano le anziane dee tessitrici che stabilivano il destino degli uomini. Le vediamo raffigurate nel dipinto Le tre Parche di Bernardo Strozzi: Cloto tesse il filo della vita umana, Lachesi assegna i fili agli esseri umani, decidendone la lunghezza (e quindi la durata della vita), mentre ad Atropo, la più anziana delle tre, spetta l'ingrato compito di recidere i fili con una cesoia.

Bernardo Strozzi, Le tre Parche, 1635 circa. Milano, Collezione Bonomi

Vanitas

Un monito che ruota intorno al concetto di Vanitas, la vacuità delle cose terrene, l'inutilità di ricchezze, potere, bellezza e l'insipienza dell'uomo che si danna per ottenerle. Un tema che nel XV secolo diviene molto popolare tra gli artisti della Controriforma, che producono opere impressionanti in cui pongono a confronto uomini e donne giovani e belli con cadaveri scheletrici e in decomposizione.

È il caso dei due pannelli realizzati intorno al 1470 da un artista anonimo, conosciuto con l'appellativo di Maestro dell'Alto Reno o Svevo.



Il pannello di sinistra presenta una giovane coppia di novelli sposi aristocratici che indossano anelli e diademi, rappresentativi dell'unione coniugale e circondati da una natura rigogliosa, simbolo di fertilità.

Nel pannello di destra, i due innamorati sono divenuti una coppia di cadaveri in putrefazione, divorati da vermi, insetti e bisce. Un rospo strazia i genitali della donna: è il simbolo della Lussuria, di cui ella si è macchiata in vita e che pagherà nell'oltretomba.
L'opera è una macabra trasfigurazione in immagini del memento mori

Analogamente, nell'opera del pittore fiammingo Hans Baldung Grien Le età e la morte, vediamo sulla sinistra una donna giovane e bella, con i capelli dorati finemente raccolti sul capo, occhi azzurri, labbra rosso rubino e la pelle di porcellana. 




Ma, ad un'attenta osservazione, cogliamo il suo sguardo preoccupato e una lacrima che le scende sul viso. Al centro è divenuta anziana: i seni cadenti, il corpo raggrinzito, gli occhi scavati, le rughe che riempiono il suo volto, i capelli bianchi confusamente pettinati, la sua mano sinistra che cerca di strappare il velo che copre le grazie di sé stessa giovane; forse un vano tentativo di riappropriarsi della giovinezza e della bellezza perdute. 

A destra, la Morte è un cadavere scheletrico che prende a braccetto la donna anziana e tiene in mano una clessidra: rappresenta la breve durata della vita terrena, che è bene non sprecare nella ossessiva ricerca di una bellezza effimera, destinata ad appassire. 

Il nefasto presagio è annunciato anche dalla presenza del gufo, simbolo di morte incombente. In primo piano un bambino senza vita giace su un terreno arido, pieno di crepe e in prossimità di un dirupo: la Morte può raggiungerci ben prima di quanto potremmo aspettarci. 

Dietro alla Morte, lo scenario apocalittico è il destino dei peccatori: si scorgono alcuni demoni che trascinano i dannati e li gettano nel fuoco, all'interno di una spaventosa torre-fornace.

Cimitero degli innocenti di Parigi

Le Danze Macabre erano sovente raffigurate presso i cimiteri; la più antica e famosa venne dipinta nel 1423 all'interno del Cimitero degli Innocenti di Parigi, che sorgeva proprio nel centro della città, nell'odierna Place Joachim du Bellay.


L'opera andò perduta quando il camposanto venne demolito per saturazione o, dovremmo dire, per implosione; parlare di sovraffollamento è infatti riduttivo, se consideriamo che arrivò a contenere oltre due milioni di salme stipate in appena 120 metri per 60, al punto tale che il lezzo della putrefazione raggiungeva le strade e i palazzi adiacenti e capitò persino che i cadaveri in decomposizione sfondassero i muri perimetrali del cimitero, riversandosi sulla strada e nelle cantine delle case e delle botteghe confinanti. 


Quando il cimitero venne smantellato, per portare via i resti cadaverici, eliminare il fetore e ripristinare l'area furono necessari dodicimila carriole, tremilacinquecento carrozze, duemila litri d'aceto e duemilacinquecento litri di acquavite.

Tafofobia

A partire dal Settecento una nuova angoscia, legata alla morte, iniziò ad attanagliare il Vecchio Continente, propagandosi poi per tutto l'Ottocento: la paura di essere sepolti vivi. Una paura sconvolgente, tanto grande da meritare persino un termine scientifico, coniato ad hoc: la tafofobia, dal greco taphos, sepolcro. 

Non era solamente la vita terrena ad essere piena di insidie, ora si rischiava di vivere un incubo anche da morti. L'acronimo R.I.P., "riposa in pace", inciso sul legno delle bare, racchiude un concetto rassicurante: qualunque sia la fine che il destino ha in serbo per ciascuno di noi, se avremo vissuto una vita moralmente ineccepibile seguirà un eterno riposo scevro da sofferenze e tormenti. L'unica certezza e consolazione, nel mare di dubbi e di timori in cui si affonda all'approssimarsi dell'ultima ora, veniva messo in discussione dall'agghiacciante eventualità di una sepoltura prematura. Che, poi, non era una leggenda metropolitana ma una tragica realtà.

La comunità scientifica ancora non conosceva l'esistenza della "morte apparente", una condizione di coma o catalessi, causata da svenimenti, aritmie, folgorazioni, punture di insetti o congelamenti che simula la morte reale, con cessazione di alcune funzioni vitali, tra cui l'attività cardiaca e respiratoria, l'assenza di riflessi e l'abbassamento della temperatura, in cui gli individui paiono deceduti ma sono in realtà in grado di risvegliarsi dal torpore fisico e mentale. Peraltro, in tempi in cui le condizioni igienico sanitarie erano piuttosto carenti, i decessi avvenivano nelle case e numerose malattie contagiose si diffondevano a macchia d'olio, si procedeva con grande celerità a certificare il decesso, avvolgere il defunto nel sudario e seppellirlo in una cassa da morto pochi metri sottoterra. 

Poi, però, capitava di aprire sepolcri nei quali venivano ritrovati corpi contorti, persino capovolti, i volti cristallizzati in una smorfia di terrore e le unghie conficcate nel legno delle bare: segno che il defunto, una volta risvegliatosi, aveva disperatamente cercato una via d'uscita, prima di rassegnarsi ad una lunga e dolorosa morte per soffocamento. 

Tra i casi più celebri, quello di una donna di Whiteheaven, in Pennsylvania, che nel 1893 fu sepolta viva e venne ritrovata capovolta, con il coperchio di vetro della bara in frantumi, il suo cadavere completamente insanguinato e privo delle dita, divorate probabilmente nel disperato tentativo di sopravvivere. 

Antoine Wiertz, La sepoltura affrettata, 1865-1868. 
Bruxelles, Musei Reali di Belle Arti del Belgio

Anche il grande scrittore Edgar Allan Poe soffriva di tafofobia e, quasi a voler esorcizzare le proprie paure, le raccontò in The Premature Burial, del 1844, in cui menziona cento casi di esequie premature ampiamente documentati e descrive il sepolcro nel quale avrebbe voluto essere seppellito, dotato di ogni comfort e strumento per la sopravvivenza in caso di reviviscenza: una bara apribile dall'interno, nella quale penetrasse aria e dotata di nicchie per cibo e acqua e munita di una fune, legata alle dita di una mano e collegata all'esterno della tomba, alla quale appendere una campana per richiamare l'attenzione.

Anche l'ex presidente degli Stati Uniti d'America George Washingon e il compositore Frédéric Chopin manifestarono in punto di morte la preoccupazione di una morte apparente e chiesero che venisse prestata una particolare attenzione al momento della sepoltura. I desideri di Poe, Washington, Chopin e molti altri vennero esauditi: le pompe funebri iniziarono a commercializzare casse da morto dotate di tutto quanto necessario per tranquillizzare i futuri occupanti, chiamate "bare di sicurezza". Quelle con un tubo collegato all'esterno mediante il quale respirare e urlare; quelle con un sistema di cavi collegati ad una campanella, ad una bandierina o persino a fuochi d'artificio, che il defunto avrebbe potuto azionare muovendo la mano; quelle con una copertura in vetro posizionata sulla testa della salma, da rompere con una testata in caso di reviviscenza; quelle dotate di un dispositivo per l'invio di messaggi in codice Morse; quelle dotate di oblò e leve che avrebbero consentito al defunto di aprire autonomamente la bara; quelle dotate di dispositivi per la somministrazione di cibo e bevande. 

Nel 1822, durante la presentazione della sua bara di sicurezza, il medico tedesco Adolf Gutsmuth si fece seppellire per diverse ore e dimostrò di riuscire a consumare un pasto a base di zuppa e salsicce, sorseggiando una birra.
Nel 1792 in Germania venne costruita la prima camera mortuaria, chiamata allora "casa d'attesa".

Che il fine fosse proprio quello di verificare che il defunto fosse, in effetti, defunto, era evidente fin dall'insegna che accoglieva i visitatori all'ingresso: Vitae Dubiae Asylum. Le case d'attesa ebbero un notevole successo e non solo per esigenze mediche; in pieno Romanticismo, l'era della morbosa ricerca del misterioso e del macabro, la morte era uno spettacolo a cui assistere.

A pagamento

Le case d'attesa, abbellite con statue ed arredi neoclassici, decorate con fiori profumati che dovevano coprire i nauseabondi odori della putrefazione e allietate dalle melodie funeree degli organisti, accoglievano curiosi che, dietro il pagamento di un biglietto d'ingresso, potevano osservare i cadaveri e il filo che legava il dito di tutte le salme ad un organo, che avrebbe "suonato" in caso di reviviscenza di uno dei defunti.

Depliant promozionale della bara di sicurezza brevettata da Christian Henry Eisenbrandt nel 1843

Gli scienziati intanto si dannavano per individuare sistemi che consentissero di verificare la presenza di segni vitali prima della sepoltura, in modo da scongiurare per sempre il rischio delle sepolture premature. Purtroppo, nessuno degli esperimenti condotti e delle bislacche teorie formulate - strappare i capelli, bruciare la pelle con ferri incandescenti, immergere gli arti in acqua bollente, strizzare i capezzoli con delle pinze, collocare sanguisughe sull'ano dei defunti - portò a risultati soddisfacenti. 

Mentre si moltiplicavano i casi di morte apparente segnalati in tutto il mondo, si mettevano in discussione perfino le Sacre Scritture: e se Lazzaro non fosse veramente morto? Se si fosse trattato di una morte apparente, e non di un miracolo di Gesù? C'era poi chi proponeva, nel dubbio, di "uccidere" il defunto, ponendolo cioè in una condizione tale che, se morto non era, morto sarebbe stato: seppellendolo nella terra senza bara, in modo che non avesse aria da respirare, trafiggendone il cuore, decapitandolo, cremandolo o iniettandogli stricnina nelle vene.

Henry R. Robinson, Un corpo galvanizzato, 1836. New York, Metropolitan Museum of Art

Un'angoscia che fortunatamente non ci riguarda più: in Italia, il Regolamento di Polizia Mortuaria', al Capo II "Periodo di Osservazione dei Cadaveri" sancisce che "nessun cadavere può essere chiuso in cassa... né essere inumato, tumulato, cremato, prima che siano trascorse 24 ore dal momento del decesso, salvo i casi di decapitazione o di maciullamento" e che "nei casi di morte improvvisa ed in quelli in cui si abbiano dei dubbi di morte apparente, l'osservazione deve essere protratta fino a 48 ore". 

Anche se poi basta la negligenza di una equipe medica per ripiombare negli incubi ottocenteschi: nel luglio del 2018, una donna vittima di un incidente stradale in Sudafrica è stata troppo frettolosamente dichiarata morta, salvo poi risvegliarsi all'interno della cella frigorifera in obitorio

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