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Aforismi per una vita saggia - contenuto

Se partiamo dai nostri contemporanei potrei citare il celebre Vasco che in Stupido Hotel si chiede più volte con stizza sul ritornello dove sia la felicità. 
Apriti cielo, apriti teorie infinite, un ventaglio quasi infinito di interpretazioni ne potrebbero nascere. In questo ginepraio decido di affidarmi ad un personaggio che sarebbe stato sicuramente un buon nonno per tutti noi: si, ancora quel vecchio burbero di Schopenhauer. Snocciola frasi pesanti come macigni, é pessimista, sostiene che la vita rimbalzi tra sofferenza e noia, ma malgrado questa premessa regala moltissime perle di saggezza da mettere in un cassetto vicino, pronte da tirar fuori alla prima occasione, al primo segnale di scricchiolamento. 

Così dopo la già ricchissima introduzione e uno speciale dedicato alla solitudine ecco il corpo principale della filosofia di Schopenhauer

La felicità 

La felicità non è una cosa facile; è assai difficile trovarla in noi stessi, 
impossibile trovarla altrove.
Chamfort

Statua della “Saggezza” presso la Corte d'Appello, Madison Square, New York City.

È, dunque, chiaro che la nostra felicità è in stretto rapporto con ciò che noi siamo, con la nostra individualità, mentre, per lo più, prendiamo in considerazione soltanto il nostro destino: ciò che abbiamo o ciò che rappresentiamo. Ma il destino può migliorare e, inoltre, se uno possiede una ricchezza interiore, non gli chiederà molto; ma un babbeo rimane un babbeo, una testa di legno rimane una testa di legno fino alla morte, anche se fosse in Paradiso, circondato dalle uri.

La salute, in particolare, prevale tanto su tutti i beni esteriori, che, probabilmente, un mendicante sano è più felice di un re malato.

Un temperamento calmo e sereno, proveniente da una perfetta salute e da una felice complessione fisica; una mente lucida, vivace, penetrante e perspicace; una volontà equilibrata e mite e, di conseguenza, una coscienza tranquilla, sono pregi che né rango né ricchezza possono sostituire.

Ciò che uno è per se stesso, ciò che lo accompagna nella solitudine e che nessuno gli può dare e nessuno gli può togliere è per lui, manifestamente, più importante di tutto quello che egli possa possedere, e di tutto ciò che egli può essere agli occhi altrui. Nella più completa solitudine, l'uomo d'ingegno trova un eccellente motivo di svago nei propri pensieri e nelle proprie fantasie, mentre non c'è continuo avvicendarsi di trattenimenti, di spettacoli, di gite, di divertimenti, che valga a tenere lontano da una persona ottusa il tormento della noia. Un'indole buona, equilibrata, tranquilla può sentirsi contenta anche in circostanze disagevoli; non lo è, invece, per ricco che sia, un uomo avido, invidioso e malvagio.

Socrate, alla vista di oggetti di lusso esposti in vendita, disse: «Ma quante cose ci sono, di cui non ho bisogno!».

La decisa prevalenza della nostra prima categoria sulle altre due fa anche sì che sia più saggio mirare alla conservazione della propria salute e allo sviluppo delle proprie capacità che all'acquisto di ricchezze.

Ma la ricchezza vera e propria, la sovrabbondanza, cioè, del superfluo, poco può per la nostra felicità; molti ricchi, perciò, si sentono infelici, in quanto, privi di una vera educazione dello spirito, mancano di conoscenze culturali e, quindi, non hanno alcun interesse oggettivo che possa renderli capaci di un'attività intellettuale. Ciò che, infatti, la ricchezza può offrire, oltre a quanto serve a soddisfare i bisogni reali e naturali, ha scarsa influenza sul nostro vero e proprio benessere; questo, anzi, è turbato dalle molte e inevitabili preoccupazioni che porta con sé la gestione di un grosso patrimonio.

Eppure, per procurarsi ricchezze, gli uomini si danno da fare mille volte di più che per coltivare lo spirito; mentre è certo che ciò che si è contribuisce alla nostra felicità assai più di ciò che si ha. Così ne vediamo non pochi, che, indefessamente indaffarati, operosi come formiche, si affannano dalla mattina alla sera per accrescere le sostanze che già possiedono. Di ciò che può trovarsi oltre l'angusto orizzonte, o fuori del campo, dei mezzi per farlo, non conoscono nulla: il loro spirito è vuoto, e, quindi, insensibile a tutto il resto; i piaceri più elevati, quelli spirituali, sono loro inaccessibili: e invano essi tentano di sostituirli con i fugaci piaceri dei sensi, che si concedono di tanto in tanto, e che costano poco tempo e molto denaro. Se avranno avuto fortuna, al termine della vita e come suo risultato si troveranno davanti un bel mucchio di denaro, e lasceranno agli eredi il compito di ingrossarlo ancora o di dilapidarlo.

Nel bene come nel male, a parte gravi sventure, ciò che capita nella vita è meno importante del modo in cui uno lo subisce;

La salute

Nove decimi della nostra felicità dipendono, in genere, unicamente dalla salute: con la salute, tutto diventa fonte di piacere, senza di essa non si può godere di alcun bene esterno, di qualunque specie esso sia, e gli stessi beni soggettivi, le qualità dello spirito, dell'intelletto, del carattere, se non si è in buona salute, sono mortificati e molto debilitati. Non senza ragione, quindi, si usa, prima di ogni altra cosa, interrogarsi reciprocamente sullo stato di salute e augurarsi scambievolmente di star bene: quella è, veramente, la cosa più importante per l'umana felicità; non vi è, quindi, stoltezza più grande di quella di chi sacrifica la propria salute, non importa a che cosa: al guadagno, alla carriera, al sapere, alla fama, per tacere della dissolutezza e dei piaceri fugaci, quando, al contrario, si dovrebbe posporle ogni altra cosa.

Le persone di carattere cupo e apprensivo, dovranno affrontare, in complesso, più sventure e sofferenze immaginarie che non le persone di carattere gaio e spensierato; in compenso, però, affronteranno meno sventure e sofferenze reali; perché chi vede tutto nero teme sempre il peggio, e, quindi, prende le sue precauzioni, e non avrà fatto male i conti altrettanto spesso quanto colui che conferisce a ogni cosa un colore e un aspetto piacevoli.

Basta un esame superficiale a indicarci nel dolore e nella noia i due nemici della felicità umana. Si può, inoltre, osservare che, a misura che riusciamo ad allontanarci dall'uno, ci avviciniamo all'altra, e viceversa, così che la nostra vita è, veramente, un'oscillazione, più o meno ampia e rapida, fra quei due poli.

Esternamente, la miseria e le privazioni sono causa di dolore, mentre la sicurezza e l'abbondanza generano noia. Così vediamo le classi inferiori dibattersi in una continua lotta contro il bisogno - cioè contro il dolore; e il mondo dei ricchi e dei signori costantemente impegnato in una lotta, spesso veramente disperata, contro la noia.

Solitudine

L'uomo d'ingegno aspirerà prima di tutto a una vita libera da ogni dolore e molestia, comoda e tranquilla, e vorrà quindi condurre un'esistenza pacifica, modesta, e quanto più possibile indisturbata; e perciò, dopo che abbia avuto qualche dimestichezza con quelli che si fanno chiamare uomini, sceglierà di vivere appartato, o addirittura, se è uno spirito grande, in solitudine; e infatti, quanto più uno ha in se medesimo, tanto meno ha bisogno di qualcosa che venga dal di fuori, e tanto meno possono contare, per lui, gli altri; perciò la superiorità spirituale porta all'insocievolezza.


Il tempo libero

Conformemente al fatto che il cervello è un parassita o un pensionante dell'intero organismo, il tempo libero che ciascuno riesce a conquistarsi, e che gli consente di godere liberamente della sua cosciente, personale individualità, è il frutto, la rendita che egli ricava da tutta la sua esistenza, che per il resto non è che pena e fatica. Ma che cosa frutta il tempo libero ai più? Noia e torpore, quando mancano, a riempirlo, piaceri sensuali od occupazioni insulse. Che sia affatto privo di valore lo dimostra il modo in cui lo trascorrono: è, come dice l'Ariosto, «ozio lungo d'uomini ignoranti». 

Esce spesso dal suo grande palazzo colui a cui è venuto a noia lo stare in casa, e subito poi vi ritorna / perché si accorge che, fuori, non sta affatto meglio. / Corre, frustando i cavalli, precipitoso alla villa, / come se si affrettasse a venire in soccorso alla casa in fiamme: / ma non appena ha toccato la soglia della villa sbadiglia, / o si abbandona pesantemente al sonno e vi cerca l'oblio, / o, anche, si affretta a ritornare in città.

Lucrezio 

Le persone comuni mirano solamente a passare il tempo; chi ha una qualche capacità, a utilizzarlo. Se le persone intellettualmente limitate sono tanto esposte alla noia è perché il loro intelletto non è assolutamente nient'altro che l'intermediario fra i loro moventi e la loro volontà.

otium sine litteris mors est et hominis vivi sepultura
L'ozio senza un'occupazione intellettuale è la morte, la sepoltura di un vivo.
(Seneca)

Contare su se stessi

Inoltre, come il paese più fortunato è quello che non ha bisogno, o quasi, di importazioni, così l'uomo più fortunato è quello a cui basta la propria ricchezza interiore, e a cui poco, o nulla, occorre prendere dal di fuori per il proprio mantenimento; perché apporti del genere costano cari, rendono dipendenti, comportano pericoli, sono causa di fastidi; e, finalmente, non sono che un cattivo surrogato dei prodotti del nostro terreno. Da altri, e dall'esterno in genere, non ci si può, sotto nessun riguardo, aspettare gran che. Ciò che uno può essere per un altro ha i suoi limiti, e sono assai stretti: alla fine, ognuno si ritrova solo, e a quel punto ciò che conta è questo: chi sia, allora, a essere solo. Vale anche qui l'osservazione generale di Goethe (Poesia e verità, vol. 3°): in ogni caso ciascuno, alla fine, non ha altra risorsa che se stesso. 

La cosa migliore, per ciascuno, dev'essere lui stesso, e dev'essere lui stesso quello che, per lui, fa di più; e sarà tanto più felice quanto più potrà fare per sé, e quanto più, quindi, troverà in se stesso le fonti dei suoi piaceri.

Aristotele dice: 

la felicità appartiene a coloro che bastano a se stessi

Quei signori debbono sfruttare, in gioventù, le forze muscolari e quelle della procreazione. In seguito, però, restano soltanto le forze dello spirito; se mancano, o non sono state educate, né si è accumulata materia su cui esercitarle, la situazione è disperante.

Arthur Schopenhauer

Una siffatta vita intellettuale non mette soltanto al riparo dalla noia, ma protegge anche dalle sue disastrose conseguenze: diviene, infatti, un baluardo contro le cattive compagnie e contro i molti pericoli - infortuni, perdite, sperperi - in cui ci si imbatte se si cerca la felicità soltanto nel mondo reale. A me, per esempio, la mia filosofia non ha mai reso nulla, ma ha risparmiato moltissime cose.

L'uomo normale, per ciò che concerne i piaceri della sua vita, deve fare assegnamento su oggetti esterni a lui: possessi, posizione sociale, moglie e figli, amici, compagnie; la sua felicità poggia su di essi, e quindi crolla quando li perde o quando ha constatato di essersi sbagliato sul loro conto. 
Per definire una tale situazione potremmo dire che il suo baricentro è situato fuori di lui. Perciò egli ha sempre nuovi desideri e capricci; se i suoi mezzi glielo consentono, comprerà ora case di campagna, ora cavalli; ora darà feste, ora farà viaggi, e insomma condurrà una vita in ogni senso lussuosa, appunto perché cerca, in cose d'ogni genere, soddisfazioni dall'esterno; così come uno che è debilitato cerca di acquistarsi a forza di brodi ristretti e di medicine quella salute e quel vigore la cui vera fonte è l'energia vitale della persona. 
Ora, per non passare subito all'altro estremo, mettiamogli accanto un uomo fornito di energie intellettuali non proprio eccezionali, superiori però a quelle, scarse, della gente comune; lo vedremo coltivare, da dilettante, una qualunque delle arti belle, ovvero una scienza pratica, come la botanica, la mineralogia, la fisica, l'astronomia, la storia, e simili, e trovare, in gran parte, in quell'occupazione, il piacere della vita, ricreandosi con essa quando le sue fonti esterne si inaridiscono o non lo soddisfano più. Possiamo dire che il suo baricentro è situato, in parte, in lui stesso.

Solo, perciò, una persona di quella specie sente, impellente, il bisogno di occuparsi, indisturbata, di se stessa; a lei soltanto la solitudine è gradita; il tempo libero è il suo bene più grande, e tutto il resto, per essa, è superfluo, e spesso, anzi, se c'è, le è soltanto di peso. Solo di un uomo così possiamo dire, quindi, che il suo baricentro è situato completamente in lui stesso.



Il motto "Conosci te stesso", dal greco "Gnothi seautòn" era un'esortazione a conoscere sé stessi, la precarietà e la caducità della vita umana. Un invito a prendere coscienza di quanto sia breve la propria vita e quindi a curarla e conservarla il meglio possibile... o a godersela finché c'è tempo? Piccoli modelli, come quello in figura, raffiguranti uno scheletro disteso erano spesso presenti anche sulle tavole dei banchetti. 
(In figura, un mosaico con scheletro su letto da banchetto o di morte, indicante il motto greco, dal Museo Nazionale Romano Terme di Diocleziano, Roma)



Ciò può valere anche a spiegare come mai le persone di quella specie, che sono rarissime, anche se sono di ottimo carattere, non mostrino, per gli amici, la famiglia e la collettività quell'interesse fervido e incondizionato di cui sono capaci tanti altri. Il fatto è che loro, alla fin fine, possono fare a meno di tutto, purché abbiano se stessi. Così c'è, in loro, un elemento isolante, che è tanto più efficace in quanto negli altri, che non li soddisfano mai del tutto, essi non possono vedere dei loro pari; anzi, siccome avvertono sempre quanto vi sia, in tutti, dal primo all'ultimo, di diverso da loro, si abituano, col tempo, a stare fra la gente come esseri di una specie diversa, e, quando pensano agli altri, non si servono della prima persona plurale, ma della terza.

Il tempo libero di un uomo vale quanto vale lui stesso
Atistotele 

Quanto più uno è ricco intrinsecamente, tanto meno può trovare negli altri qualcosa che lo attragga.

Il filisteo

I veri piaceri, per lui, sono quelli dei sensi; con essi si ritiene soddisfatto. Perciò il culmine della sua esistenza sono le ostriche e lo champagne; e scopo della sua vita è procurarsi tutto ciò che contribuisce al suo benessere fisico. E può dirsi abbastanza fortunato se ciò gli dà molto da fare; perché, se quei beni gli sono stati dati in dono fin dall'inizio, egli cade, inevitabilmente, in preda alla noia, contro la quale si difende in tutti i modi immaginabili: balli, teatro, trattenimenti, il gioco di carte, il gioco d'azzardo, le donne, i cavalli, il bere, i viaggi, e così via. E tuttavia tutto questo non basta a vincere la noia, dal momento che la mancanza di bisogni intellettuali rende impossibili i piaceri intellettuali.

Non avendo egli esigenze intellettuali, ma soltanto bisogni fisici, cercherà chi sia in grado di soddisfare questi ultimi, ignorando chi potrebbe giovargli intellettualmente. Perciò, fra quello che pretenderà dagli altri, non avrà il minimo posto una qualche superiorità intellettuale; anzi, se gli capita di imbattervisi, quella superiorità susciterà la sua antipatia, e perfino il suo odio.

L’opinione degli altri

Moderare il più possibile la sua grande sensibilità all'opinione altrui, e ciò sia quando essa ne sia lusingata sia quando ne sia offesa; perché l'una e l'altra cosa pendono dal medesimo filo; altrimenti, si rimane schiavi delle altrui idee e dell'altrui opinione:
Contribuirà, quindi, grandemente alla nostra felicità una giusta valutazione dell'importanza che ha ciò che si è in se stessi e per se stessi in confronto con ciò che si è soltanto agli occhi di altri. Ciò che si è in noi stessi è rappresentato dall'impiego del tempo della nostra esistenza, e dai contenuti di quell'esistenza; quindi, da tutti i beni di cui si è detto trattando di «ciò che uno è» e di «ciò che uno ha»; e infatti la sfera d'azione di tutto ciò coincide con la nostra coscienza. All'opposto, sede di ciò che siamo per gli altri è la coscienza altrui; e ciò che siamo per gli altri è la nostra rappresentazione all'interno di essa, insieme con i criteri di giudizio a essa applicati.

Cosa é veramente importante?

Comunque, è ridotto a una ben povera risorsa colui che non trova la propria felicità all'interno delle due categorie di beni di cui si è detto, ma la deve cercare qui, nella terza: non in ciò che egli è veramente, ma in ciò che è nell'altrui rappresentazione. Infatti, alla base del nostro essere, e quindi della nostra felicità, c'è la nostra natura animale; e perciò, per il nostro benessere, la cosa più essenziale è la buona salute; subito dopo vengono i mezzi necessari al nostro sostentamento, quanto basti, cioè, per vivere senza preoccupazioni. L'onore, il fasto, il rango, la fama, per grande che sia il valore che tanti attribuiscono a beni come quelli, non possono competere con quei beni essenziali, né sostituirli: anzi, all'occorrenza, vi si rinuncerebbe, per avere in cambio questi ultimi, senza alcuna esitazione.

Quando si esclama, enfaticamente: «L'onore conta più della vita» si intende dire, in realtà, «l'esistenza e il benessere non sono nulla: ciò che conta è quello che gli altri pensano di noi».

La vanità dei condannati a morte

Ma, a illustrare ancor meglio l'assurdità di quell'esasperata preoccupazione dell'opinione altrui di cui stiamo parlando, non sarà fuori luogo un esempio veramente superlativo di tale stoltezza radicata nella natura umana; è un episodio singolarmente illuminante per il felice incontro delle circostanze e del personaggio, e consente di apprezzare pienamente la potenza di quello stranissimo impulso.

Il passo che segue è tratto dal circostanziato resoconto, uscito sul Times del 31 marzo 1846, dell'esecuzione capitale di Thomas Wix, un garzone artigiano che aveva ucciso, per vendetta, il suo padrone: 

«La mattina fissata per l'esecuzione il reverendo cappellano del carcere si recò da lui di buon'ora; ma Wix, pur mantenendo un contegno tranquillo, non mostrò alcun interesse per le sue esortazioni: tutto ciò che gli stava a cuore era riuscire a comportarsi col più grande coraggio davanti agli spettatori della sua ignominiosa fine. (...) E gli riuscì. Nel cortile, che doveva attraversare per giungere al patibolo eretto nei pressi della prigione, disse: "Ebbene, presto conoscerò, come ha detto il dottor Dodd, il grande mistero!". Benché avesse le braccia legate, salì senza il minimo aiuto la scala del patibolo, e, giunto sul palco, fece, rivolto agli spettatori, inchini a destra e a sinistra, ai quali la folla radunata rispose con urla di acclamazione e fragorosi applausi (...)»

Ecco un magnifico esempio di vanità: uno che ha davanti agli occhi la morte nel suo aspetto più orrendo, e si trova di fronte all'eternità, e non ha altro pensiero che quello dell'impressione che susciterà nella folla dei curiosi e dell'opinione che lascerà di sé nelle loro teste!



Esecuzione di un pirata in Inghilterra, XVIII secolo


Così Lecomte, che fu giustiziato lo stesso anno, in Francia, per tentato regicidio, durante il processo si crucciava soprattutto di non poter comparire davanti alla Camera dei pari in abito decente, e anche al momento dell'esecuzione il suo più grande rammarico era quello di non avere ottenuto il permesso di radersi.

Poi dovremmo considerare quanto sia scarsa, nella maggior parte dei casi e degli argomenti, l'influenza che può esercitare su di noi l'opinione degli altri, e, inoltre, quanto quell'opinione sia, per lo più, sfavorevole, tanto che non c'è, quasi, chi non morirebbe di rabbia se sapesse tutto quello che si dice di lui e in che tono se ne parla.

Se il condurre un'esistenza appartata esercita un'influenza oltremodo benefica sulla nostra serenità di spirito, ciò dipende, in gran parte, dal fatto che essa ci sottrae a una vita vissuta continuamente sotto gli occhi degli altri, e, conseguentemente, al dover tener continuamente conto della loro eventuale opinione; e, quindi, ci restituisce a noi stessi. 

Ma il vanitoso dovrebbe sapere che quell'alta opinione degli altri, alla quale aspira, è assai più facile a ottenersi con un assiduo silenzio che col parlare, quand'anche uno avesse da dire le cose più belle.

L'orgoglio nazionale

Fra tutte le forme di superbia quella più a buon mercato è l'orgoglio nazionale. Esso, infatti, rivela in chi ne è affetto la mancanza di qualità personali di cui andare superbo; se, infatti, le possedesse, non si attaccherebbe a ciò che divide con tanti milioni di persone. Chi possiede notevoli doti personali si renderà conto, piuttosto, meglio di ogni altro, dei difetti della propria nazione, che ha costantemente sotto gli occhi. Ma ogni povero diavolo, che non ha niente al mondo di cui andare superbo, si afferra all'unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere.

Ma le onorificenze perdono il loro valore quando vengono distribuite ingiustamente o senza discernimento o in quantità eccessiva; e perciò un principe, nell'assegnarle, dovrebbe essere altrettanto

Onore sessuale

L'onore femminile è, dunque, l'opinione generale, quando si tratti di una ragazza, che non si sia data a nessun uomo, e quando si tratti di una donna, che si sia data soltanto al marito. Tale opinione trae importanza da quanto segue. Il sesso femminile pretende e si aspetta tutto da quello maschile: tutto quello, cioè, che desidera e di cui ha bisogno; il sesso maschile, a quello femminile, chiede, prima di tutto e direttamente, una cosa sola. Fu quindi necessario organizzare le cose in modo che il sesso maschile potesse ottenere da quello femminile quell'unica cosa soltanto a patto che si assumesse l'impegno di provvedere a tutto, e, in più, ai figli che sarebbero nati da quell'unione. Su tale accomodamento è basato il benessere di tutto il sesso femminile.

Gli antichi non avevano alcuna idea, in faccende del genere, di un punto d'onore cavalleresco. Socrate, a causa delle sue frequenti dispute, venne più volte malmenato, cosa che sopportava serenamente; una volta che gli diedero un calcio se lo prese tranquillamente, e a chi se ne mostrava stupito disse:
«Se me l'avesse dato un asino, lo citerei forse in giudizio?» (Diog. Laert. 11, 21).

Che gli antichi, per uno schiaffo ricevuto, non conoscessero altra soddisfazione che quella giudiziaria appare chiaramente dal Gorgia di Platone, dove viene anche riferita l'opinione di Socrate su tale argomento, e da una pagina di Gellio (XX,1), che racconta di un certo Lucius Veratius, che, per spavalderia, usava allungare uno schiaffo, senza alcun motivo, ai cittadini romani che incontrava per strada, e a tale scopo, per prevenire lungaggini, si faceva accompagnare da uno schiavo che portava una borsa piena di monete di rame; ai passanti colti così di sorpresa lo schiavo pagava i 25 assi del risarcimento legale.

Vediamo dunque che agli antichi tutto quanto il principio d'onore era totalmente sconosciuto, perché essi si mantenevano fedeli in ogni particolare alla loro visione delle cose, spregiudicata e naturale, né si lasciavano mettere in testa sinistre e perverse buffonate di quel genere.

Chi è consapevole di non meritarsi un'accusa la può tranquillamente ignorare, e così farà. Invece, il principio d'onore esige, da lui, che egli faccia mostra di una suscettibilità che non ha, e di vendicare col sangue delle offese che non lo feriscono affatto.

La fama

Del resto, sotto l'aspetto eudemonologico, va benissimo così: sarebbe troppo, per un mortale, godere, tutt'in una volta, della giovinezza e della fama; e la nostra vita è così povera che i suoi beni vanno distribuiti con qualche parsimonia. 

La giovinezza ha, già in sé, una tale ricchezza che non ha bisogno d'altro; ma la vecchiaia, una stagione in cui tutti i piaceri, tutte le gioie sono rinsecchiti come gli alberi spogli dell'inverno, è il momento giusto perché germogli l'albero della fama, come una vera e propria pianta sempre verde; e la si può paragonare, anche, con le pere d'inverno, che crescono d'estate, ma si mangiano in inverno. Non c'è, nella vecchiaia, conforto più bello di quello che nasce dall'avere incarnato tutte le forze della giovinezza in opere che non invecchiano con noi.

Consigli e massime

«L'uomo ragionevole cerca non il piacere, ma l'assenza del dolore».

Chi voglia trarre le somme della propria esistenza con riguardo all'eudemonologia non dovrebbe fare il conto delle gioie di cui ha goduto, ma quello dei mali ai quali è sfuggito; e anzi, l'eudemonologia dovrebbe insegnare, per prima cosa, che il suo stesso nome è un eufemismo, e che l'espressione «vivere felici» non vuol dire altro che «vivere meno infelici», vivere, cioè, in modo sopportabile.

Quindi, la sorte più fortunata è quella di chi trascorre la vita senza eccessivi dolori sia spirituali che fisici, e non di colui a cui sono toccate le gioie più intense o i più grandi piaceri: chi volesse misurare da questi ultimi la felicità di una vita si varrebbe di un criterio sbagliato. 

I piaceri sono e restano fattori negativi; che siano motivo di felicità è un'illusione alimentata dall'invidia a proprio castigo. I dolori, invece, vengono sentiti positivamente; il criterio di misura della felicità della vita è, quindi, la loro assenza. Se, poi, all'assenza del dolore si aggiunge l'assenza della noia, si può dire che, in sostanza, è stata raggiunta la felicità; tutto il resto è una chimera...

Quando, infatti, siamo liberi da dolori, siamo agitati da desideri che ci prospettano le illusioni di una inesistente felicità, e ci inducono a perseguirle; in tal modo attiriamo su di noi il dolore, che è, invece una innegabile realtà. Allora rimpiangiamo la nostra condizione di prima, quell'assenza di dolore, che ci siamo lasciata alle spalle come un paradiso perduto, e vorremmo che fosse possibile tornare indietro. È come se, attraverso le immagini illusorie dei nostri desideri, un demone malvagio e astuto cercasse continuamente di attirarci fuori da quello stato, che è la realtà più felice.

«Chi vuole liberarsi da un male sa sempre quello che vuole; chi vuole qualcosa di meglio di ciò che ha ha le cateratte negli occhi».

Ma poco dopo ecco che arriva il destino, ci agguanta brutalmente, e ci insegna che nulla ci appartiene, perché tutto è suo; e che ha diritti incontestabili non soltanto su tutto ciò che possediamo e guadagniamo, sulle nostre mogli e sui nostri figli, ma persino sulle nostre braccia e sulle nostre gambe, su occhi e orecchi; e che è suo anche il naso che portiamo in mezzo alla faccia. Poi viene l'esperienza, e, con essa, la capacità di comprendere che felicità e piacere sono miraggi che è dato scorgere soltanto di lontano, e scompaiono quando uno sta per raggiungerli, mentre la pena e il dolore sono realtà;

il mezzo più sicuro per non essere molto infelici è la rinuncia a pretendere di essere molto felici

Progetti a lungo termine

Una delle stoltezze più grandi e più diffuse consiste nel fare, per la propria vita, progetti a lungo termine, in qualunque forma. Prima di tutto, infatti, si conta, così facendo, di vivere per un tempo corrispondente alla durata massima della vita umana; e ciò succede a ben pochi. 
In secondo luogo, anche per quei pochi, la vita è troppo breve in relazione ai loro progetti, la cui realizzazione richiede sempre assai più tempo del previsto; inoltre, quei progetti, soggetti come sono, al pari di tutte le cose umane, a fallire, e intralciati da ostacoli d'ogni genere, non vengono portati a compimento che molto di rado. 
Infine, anche se si riesce ad attuare ciò che si desiderava, non si era però tenuto conto dei mutamenti che il tempo produce in noi stessi; e, quindi, non si era pensato che né la nostra efficienza produttiva né la nostra capacità di godere si conservano intatte per tutta la vita. Accade perciò che, spesso, miriamo a cose che, una volta raggiunte, non sono più adatte per noi.

Nella vita ci succede come a un viandante: a mano a mano che procede nel suo cammino gli oggetti assumono, davanti a lui, aspetti diversi da quelli che gli mostravano di lontano, e si trasformano, per cosi dire, via via che si avvicina. Così è soprattutto per i nostri desideri; spesso troviamo qualcosa di completamente diverso, o anche di migliore, di ciò che stavamo cercando; spesso ciò che cerchiamo lo troviamo per tutt'altra via da quella che avevamo inutilmente imboccata in principio. Soprattutto, là dove cercavamo piacere, felicità, gioia, troviamo invece, molte volte, ammaestramenti, saggezza, cognizioni, e dunque beni veri e durevoli in luogo di beni apparenti e caduchi.

Gli uomini di indole elevata

Capiscono che nel mondo si può trovare insegnamento, ma non felicità, e vi si abituano, soddisfatti di barattare speranze con idee.
Siamo, si può anche dire, come gli alchimisti, che, mentre cercavano solamente l'oro, scoprirono la polvere da sparo, la porcellana, e certi farmaci, e perfino alcune leggi della natura.

Passato presente e futuro

Quindi, invece di dedicarci esclusivamente a progetti per il futuro e di preoccuparci continuamente del nostro avvenire, o, al contrario, di abbandonarci alla nostalgia del passato, non dovremmo mai scordare che soltanto il presente è reale e sicuro, mentre il futuro è sempre diverso da come lo immaginiamo, così come era diverso lo stesso passato; al punto che l'uno e l'altro, in complesso, sono meno importanti di quanto ci appaiono: la lontananza, che rimpicciolisce le cose per la vista, le ingrandisce per il pensiero. Solo il presente è vero e reale: esso è il tempo realmente inverato, e in esso soltanto è contenuta la nostra esistenza. Perciò dovremmo sempre fargli una lieta accoglienza, e quindi godere, consapevolmente, di ogni ora sopportabile e libera da immediate contrarietà o sofferenze così com'è, senza, cioè, turbarla crucciandoci per le delusioni del passato o per le preoccupazioni sul futuro; perché è del tutto insensato voltare le spalle a una bella ora del presente, o rovinarla di proposito col rammarico per ciò che è stato o l'apprensione per ciò che deve venire. Dedichiamo pure alle preoccupazioni e, perché no? anche ai rimorsi, il tempo dovuto; ma poi, ripensando a ciò che è avvenuto, diciamo con Seneca, 

singulas dies singulas vitas puta
(Guarda a ogni giorno come a una vita a sé.) 

e renderci il più possibile piacevole quel tempo, che è l'unico reale.

Hanno diritto di preoccuparci soltanto i mali futuri di cui sappiamo per certo che verranno e quando verranno.
Saranno però ben pochi; perché i mali sono o soltanto possibili (o, tutt'al più, probabili), o sono sicuri, ma è del tutto incerto il momento in cui ci colpiranno. Se ci si lascia prendere la mano dagli uni o dagli altri non si avrà più un momento di pace. Così, per non privarci di ogni tranquillità a causa di mali incerti o indefiniti, dobbiamo abituarci a pensare agli uni come se non dovessero venire mai, e agli altri come se non dovessero, comunque, venire tanto presto. Ma quanto più uno è lasciato in pace dal timore, tanto più lo rendono inquieto i desideri, le passioni, le ambizioni.

Inoltre, apprezzeremmo e gusteremmo meglio il presente se, nei giorni in cui siamo sani e soddisfatti, ci tornasse in mente come, quando siamo ammalati o afflitti, ogni ora libera da dolori e da privazioni ci si presenti alla memoria come sconfinatamente invidiabile, come un paradiso perduto, come un amico che avevamo misconosciuto. Noi, invece, viviamo i nostri giorni belli senza accorgerci di loro; poi, quando vengono quelli neri, vorremmo che ci fossero restituiti.
Ci lasciamo scorrere davanti, con aria infastidita e senza goderne, mille ore serene e piacevoli; e poi, nei momenti bui, sospiriamo per esse in un vano rimpianto.

Dovremmo, invece, apprezzare ogni momento sopportabile del presente, anche i più banali, quelli che ora lasciamo trascorrere con tanta indifferenza, e anzi con insofferente frettolosità; e non scordare mai che adesso, in questo istante, quel presente si sta trasferendo in quell'apoteosi del passato in cui d'ora innanzi, irradiato dalla luce dell'eternità, verrà conservato dalla memoria; e quando, soprattutto nelle ore buie, la memoria ne solleverà il velo, ci apparirà, quel presente, come qualcosa di profondamente, nostalgicamente rimpianto.

Ci renderà, quindi, felici una vita di relazione quanto più possibile semplice, e persino un modo di vita monotono: finché non generi noia. Un'esistenza del genere, infatti, è quella che fa sentire meno di ogni altra la vita stessa, e quindi il peso che ne è l'essenza; e così scorre, la vita, come un ruscello, senza onde né vortici.

Raccomandazione era contenuta nella regola di Pitagora, che prescriveva di passare in rassegna ogni sera, prima di addormentarsi, ciò che si era fatto durante la giornata.

Giorno, notte, mattino e sera

Perciò la sera, quando si è rilassati, e sulla mente e sulle facoltà critiche si è disteso il velo di un'oscurità soggettiva, l'intelletto, stanco non è in grado di penetrare le cose fino in fondo, ed è facile che gli oggetti delle nostre meditazioni, quando quelle riguardano nostre situazioni personali, assumano un aspetto minaccioso e si trasformino in immagini terrificanti. 
Ciò accade specialmente di notte, a letto; l'animo è completamente allentato, e quindi viene meno la capacità di giudizio, mentre la fantasia è ancora ben desta, e la notte tinge tutto del suo colore nero. Perciò, prima che ci addormentiamo, o, anche, quando ci svegliamo di notte, nei nostri pensieri tutto ci appare crudelmente deformato o stravolto, come accade nei sogni; e quando quei pensieri riguardano circostanze personali, le vediamo, di solito, nere come la pece, terrificanti. 
Al mattino quelle immagini scompaiono, così come svaniscono i sogni: come dice un proverbio spagnolo, 

noche tinta, blanco el día
[notte nera, giorno bianco]

Ma già di sera, alla luce della lampada, l'intelletto, così come l'occhio, non ci vede così bene come di giorno; e perciò quelle ore non sono adatte a una meditazione su problemi seri, e tanto meno su circostanze sgradevoli. 
Le ore giuste per farlo sono quelle del mattino; e del resto ciò vale per tutte le attività, nessuna eccettuata, sia intellettuali che fisiche. La mattina è la giovinezza del giorno; tutto è sereno, fresco, leggero; ci sentiamo forti, e possiamo disporre pienamente di tutte le nostre facoltà. Non dobbiamo accorciarla alzandoci tardi, né sprecarla in occupazioni o conversazioni futili, ma dobbiamo vedere, in essa, la quintessenza della vita, e, in certo qual modo, una cosa sacra. La sera è, invece, la vecchiaia del giorno: alla sera siamo fiacchi, ciarlieri, frivoli. 

Ogni giornata è una piccola vita, ogni risveglio una piccola nascita; ogni nuova mattina è una piccola giovinezza, ogni coricarsi, ogni addormentarsi è una piccola morte.

La fantasia

Abbiamo raccomandato di tenere a freno la fantasia.
Ciò vuol dire, anche, non permetterle di indulgere alla rievocazione di ingiustizie subite a suo tempo, di danni, di perdite, di affronti, di umiliazioni, di offese e così via; così facendo risuscitiamo risentimenti da lungo tempo sopiti e tutti gli impulsi dell'astio e dell'ira, e il nostro animo ne resta inquinato.

Si aggiunga che la più piccola contrarietà, ci venga essa dagli uomini o dalle cose, a forza di rimuginarla continuamente e di rappresentarcela ingrandita e a colori strillanti, può prendere un aspetto mostruoso e farci, quasi, uscire di senno. Tutto ciò che è sgradevole dobbiamo, invece, rappresentarcelo nel modo più prosaico e più obiettivo, per potergli poi dare il minor peso possibile.

Ciò che si ha e ciò che non si ha

Alla vista di qualcosa che non ci appartiene è facile che ci colga un pensiero: «E se questo fosse mio?». Quel pensiero ci fa sentire tale mancanza. Dovremmo, invece, domandarci più spesso: «E se questo non fosse mio?». Voglio dire che dovremmo, di tanto in tanto, sforzarci di vedere ciò che possediamo così come ci apparirebbe dopo che lo avessimo perduto; qualunque cosa: il patrimonio, la salute, gli amici, l'amante, la moglie, i figli, i cavalli, i cani: perché, per lo più, soltanto la perdita di una cosa ce ne fa capire il valore. 
Basterà guardare a ciò che possediamo al modo che abbiamo qui suggerito, e quel possesso ci darà subito più piacere che per l'innanzi; inoltre, saremo indotti a fare di tutto per prevenire ogni perdita: eviteremo, cioè, di esporre a rischi i nostri averi e a tentazioni la fedeltà della moglie, cercheremo di non irritare gli amici, staremo attenti alla salute dei figli, e così via.

È addirittura bene immaginarci, ogni tanto, grosse disgrazie che potrebbero colpirci; ciò per sopportare, in seguito, più facilmente le sventure più lievi che ci coglieranno davvero, consolandocene col ripensare a quelle gravi che non si saranno verificate. Non dobbiamo però, per seguire questa norma, trascurare quella precedente.

Un cassetto alla volta

Quando intraprendiamo una cosa, dobbiamo anzitutto fare astrazione da tutte le altre, e sbrigarci di quella, sì da attendere a ogni cosa,. da goderne o da sopportarla a suo tempo, senza curarci di tutto il resto; dobbiamo, cioè, avere, per i nostri pensieri, come dei cassetti: quando ne apriamo uno, gli altri rimangono chiusi. Con ciò otterremo che una grossa preoccupazione non faccia intristire, col suo peso, ogni piccolo piacere del presente privandoci di ogni tranquillità; che un pensiero non cacci l'altro; che la preoccupazione per una questione importante non ci faccia trascurare molte altre questioni minori; e così via.

Pochi desideri

Dobbiamo porre un limite ai nostri desideri, tenere a freno le nostre brame, dominare l'ira, ricordandoci sempre che a ciascuno non è dato raggiungere che una parte infinitesimale di ciò che è desiderabile, mentre è inevitabile che ci colpiscano molti mali.

Coltivare passioni

La vita fisica non è altro che un incessante movimento, così quella interiore, spirituale, richiede continuamente occupazione; un'occupazione qualsiasi, materiale o mentale; e lo dimostra già il fatto che, quando uno non ha niente da fare e non sta pensando a nulla, si mette subito a tamburellare con le mani o con un oggetto qualsiasi. La nostra esistenza è, per sua natura, irrequieta; perciò una totale inattività ci diviene ben presto insopportabile, in quanto le si accompagna una terribile noia. C'è in noi, dunque, un istinto che ci spinge all'azione; bisogna dargli una disciplina, per poterlo soddisfare metodicamente, e, quindi, in modo migliore. Alla felicità dell'uomo è perciò indispensabile l'attività: occuparsi di qualcosa, fare, possibilmente, qualcosa, o, almeno, imparare qualcosa. Le sue energie richiedono di essere impiegate, e l'uomo vorrebbe, in qualche modo, vedere i risultati del loro impiego. Sotto questo aspetto, la soddisfazione più grande viene dal fare, dal costruire qualcosa: una cesta, un libro; vedersi crescere fra le mani, ogni giorno, un prodotto del proprio lavoro, e poi vederlo, finalmente, completato, è, in sé, motivo di felicità.

L'importante è che ciascuno si occupi di qualcosa, a seconda di ciò che gli consentono le sue capacità. Quanto siano dannosi gli effetti della mancanza di una regolare attività, di un qualsiasi lavoro, si vede nei lunghi viaggi di piacere, quando, a volte, ci si sente veramente infelici, perché, stando così, senza una vera e propria occupazione, si è come sradicati dal proprio elemento naturale. L'uomo ha bisogno di faticare, di lottare contro gli ostacoli, come la talpa di scavare; l'immobilità a cui lo costringerebbe il raggiungimento di un piacere perenne gli sarebbe intollerabile. La sua esistenza trova il suo pieno appagamento nel superare gli ostacoli, siano essi materiali, come quelli che incontra chi esercita un'attività pratica, o di natura spirituale, come quelli relativi allo studio e all'indagine scientifica; la sua felicità sta nella lotta contro di essi e nella sua vittoria. Se, a ciò, gli manca l'occasione, ne inventa una, come può; a seconda della sua indole va a caccia, o, spinto dagli impulsi inconsapevoli del suo carattere, attacca brighe, ordisce intrighi, o si lascia andare a imbrogli e cattive azioni di ogni genere, pur di mettere fine a un'inerzia che gli è insopportabile.

Gli altri

Per poter vivere tra gli uomini, dobbiamo accettare ciascuno così com'è, con la personalità che gli è toccata, qualunque essa sia, preoccupandoci soltanto di servircene al modo consentito dal suo carattere e dalle sue qualità, senza però sperare in un suo cambiamento né condannarla, tout court, in quanto è quella che è. È, questo, il vero significato del detto: «vivere e lasciar vivere». Se è giusto fare così, è però vero che non è altrettanto facile; e si deve considerare fortunato colui a cui è concesso di non aver mai niente a che fare con certe personalità.

Intanto, per addestrarsi a sopportare la gente, si potrà esercitare la propria pazienza su oggetti inanimati che, per circostanze meccaniche o comunque fisiche, ostacolano ostinatamente le nostre attività; se ne presentano occasioni tutti i giorni. 
In seguito si imparerà a trasferire quella pazienza sulle persone, in quanto ci si abituerà a pensare che anche loro, quando ci sono di ostacolo, debbono esserlo per forza, a causa di una necessità derivante dalla loro natura e altrettanto ineluttabile quanto quella per cui operano le cose inanimate; e che, quindi, irritarsi per ciò che fanno è altrettanto sciocco quanto prendersela con un sasso che ci rotoli fra i piedi. Con qualcuno, la cosa più saggia è pensare: "Cambiare non lo cambierò; perciò me ne voglio servire".

Nei rapporti con gli altri, la superiorità viene unicamente dal non aver bisogno, in alcun senso, di loro, e dal farlo capire.

Ad ogni modo bisogna star bene attenti a non farsi un'opinione particolarmente favorevole di una persona appena conosciuta; altrimenti, nella maggior parte dei casi, si resterà delusi, a propria vergogna o, anche, danno.

Ci dovremmo vietare anche di parlare a voce alta con noi stessi, uno sfogo che talvolta si concedono le persone di grande vitalità e che potrebbe diventare un'abitudine; perché, se si fa ciò, il pensiero e la parola finiscono per fondersi in uno e confondersi, di modo che, a poco a poco, anche il discorrere con altri diventa un pensare ad alta voce, mentre la saggezza ci impone di lasciare uno spazio incolmabile fra ciò che pensiamo e ciò che diciamo.

Non ci si dovrebbe mai lasciare andare a manifestazioni di grande esultanza o di grande dolore di fronte a nessun accadimento, sia per la mutevolezza delle cose, che potrebbe, a ogni istante, fargli assumere un aspetto diverso, sia per la fallacia del nostro giudizio su quanto può esserci di vantaggio o di danno:

Chi, di fronte a ogni disgrazia, si mantiene tranquillo, dimostra di sapere quanto siano enormi e molteplici i mali che possono affliggere l'esistenza; guarda perciò a quello che sta subendo come a un'infima parte di tutto ciò che potrebbe ancora venire. È l'atteggiamento degli stoici, in conformità al quale non si deve mai essere conditionis humanae oblitus, ma bisogna tener sempre presente quanto sia squallida e miserevole l'esistenza assegnata all'uomo dal destino, e quanto frequenti gli innumerevoli mali a cui è esposta. 
Per riconfermarsi in quella convinzione basta guardarsi attorno: dovunque ci si trovi, lo si avrà subito davanti agli occhi, tutto quel lottare, agitarsi, tormentarsi per un'esistenza miserabile, spoglia, senza frutto. Si limiteranno così le proprie pretese, si imparerà ad adattarsi all'imperfezione di tutte le cose e di tutte le condizioni, e si guarderà in faccia, sempre, a tutte le avversità, per evitarle o per sopportarle. Perché le sventure, grandi o piccole, costituiscono l'elemento essenziale della nostra vita; questo si dovrebbe aver sempre presente.

Prepararsi al peggio

Se ci è meno difficile sopportare una sventura quando l'abbiamo considerata possibile in precedenza, e, come suol dirsi, ce l'aspettavamo, ciò dipenderà, soprattutto, dal fatto che, se, prima che quell'evento si verifichi, vi riflettiamo sopra con calma, come su di una semplice possibilità, noi abbracciamo col pensiero, chiaramente e in ogni suo lato, l'estensione della sventura, così che, per lo meno, vi riconosciamo qualcosa di limitato e di circoscritto. Di conseguenza, quando poi ci colpisce veramente, non potrà farlo se non con la forza che realmente possiede.

Se, invece, non avremo fatto così, e quella sventura ci coglie impreparati, l'animo, spaventato, non potrà valutare con esattezza, li per li, la sua gravità; non ne potrà misurare le dimensioni, ed è perciò facile che gli appaia immensa, o, almeno, assai più grande di quanto non sia. Allo stesso modo l'oscurità e l'incertezza fanno apparire più grande ogni pericolo. Si deve anche dire che, quando abbiamo pensato alla possibilità di una sventura, abbiamo, allo stesso tempo, riflettuto anche sugli argomenti con cui consolarci, o, almeno, ci siamo abituati all'idea.

Della differenza della età della vita

Il carattere della prima metà della vita è il desiderio insoddisfatto della felicità, quello della seconda metà è la preoccupazione che nasce dal timore dell'infelicità. Infatti, in quella fase dell'esistenza, si è raggiunta, più o meno chiaramente, la consapevolezza che ogni felicità è illusoria, mentre il dolore è reale. 

Perciò, in quella fase, le aspirazioni sono rivolte — almeno da parte delle persone più ragionevoli — più che al piacere, a un'esistenza indisturbata e priva di dolore. Quando, negli anni della giovinezza, sentivo suonare alla mia porta, mi rallegravo: ecco, pensavo, ora viene. Ma anni dopo, nella stessa circostanza, ciò che provavo aveva, piuttosto, qualcosa di simile alla paura: «ecco» pensavo «ci siamo». 

Similmente, provano due sensazioni opposte nei confronti del mondo degli uomini gli individui eminenti e dotati, che veramente, appunto perché tali, non ne fanno parte del tutto, e perciò, a seconda del livello delle loro doti, se ne stanno, più o meno, soli: nella giovinezza è frequente, per loro, la sensazione di essere abbandonati dall'umanità, nell'età più avanzata quella di essere scampati ad essa. La prima, che è sgradevole, è originata dal fatto che non la conoscono; la seconda, e quella è gradevole, dal fatto che la conoscono. 

Di conseguenza, la seconda metà della vita, come la seconda metà di un periodo musicale, ha meno slanci ma più serenità; il che dipende dal fatto che in gioventù si pensa che nel mondo ci aspettino chissà quale felicità e chissà quali piaceri, e che la difficoltà stia soltanto nel riuscire ad appropriarsene, mentre nella vecchiaia si sa che dal mondo non si può avere nulla di buono, e quindi ci si mette l'animo in pace; si gode di un presente sopportabile, e si trova gioia anche in piccole cose.

La serenità della nostra giovinezza e il suo coraggio nell'affrontare la vita dipendono in parte dal fatto che, finché siamo giovani, camminiamo in salita, e non vediamo la morte, che si trova ai piedi dell'altro versante. Ma quando abbiamo oltrepassato la vetta la scorgiamo veramente, quella morte che fino ad allora conoscevamo soltanto per sentito dire; e così, siccome, nel medesimo tempo, ha inizio il declino della forza vitale, viene meno anche il coraggio di fronte alla vita; così che, ora, una tetra serietà prende il posto della baldanza giovanile, e si imprime, anche, sul nostro volto. Finché siamo giovani ci possono dire quello che vogliono: la vita, secondo noi, non avrà mai fine; e nell'amministrare il nostro tempo ci comportiamo come se fosse così, mentre, a mano a mano che invecchiamo, ne siamo sempre più avari. Nell'età più avanzata ogni giorno trascorso ci dà una sensazione simile a quella che prova, a ogni passo, il delinquente condotto al patibolo.

Vista dai giovani, la vita è un futuro infinitamente lungo; vista dai vecchi, è un brevissimo passato.

Il più delle volte, nella giovinezza, quando, cioè, il nostro tempo è più prezioso, usiamo sprecarlo; e cominciamo a esserne avari soltanto nella vecchiaia.

Quando la vita è sul finire succede come alla fine di un ballo mascherato, quanto tutti si tolgono la maschera. Ora si vede chi fossero realmente quelli con cui si era venuti a contatto nel corso dell'esistenza. I caratteri si sono manifestati, le azioni hanno dato i loro frutti, le opere prodotte hanno ottenuto il giusto riconoscimento, si sono dissolte tutte le apparenze fallaci. Per tutto ciò ci è voluto del tempo. Ma la cosa più singolare è che soltanto verso il termine della vita uno conosce e comprende veramente se stesso, i propri fini, le mete a cui tendeva, soprattutto per quanto concerne i suoi rapporti col mondo e con gli altri.

Molto più giustamente Platone (all'inizio della Repubblica) giudica felice la vecchiezza in quanto ci libera finalmente dall'istinto sessuale, che fino ad allora ci tiene incessantemente in agitazione. Si potrebbe persino affermare che, finché uno si trova sotto l'influenza dell'istinto sessuale, di quel demonio da cui è costantemente posseduto, gli svariati, innumerevoli capricci nati da quell'istinto e le eccitazioni da essi provocate lo tengono in uno stato di perenne, blanda follia; sicché egli non diviene del tutto ragionevole se non quando quell'istinto si è spento.

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