Stop. Ma non basta. Così come non basta passare a velocità supersonica in piazza campo dei fiori a Roma per una rapida occhiata al monumento a lui dedicato.
Ci sarà pur un motivo se tra migliaia di messi al rogo a lui hanno fatto la statua. Che diamine.
Questi i pensieri mentre riguardo gli scatti strappati a Campo dei fiori in una soleggiata giornata primaverile.
Il monumento
Nel centro di piazza Campo de' Fiori, in mezzo alle bancarelle del mercato e al vagabondare di romani e turisti, si leva il monumento a Giordano Bruno. Il filosofo è tutto avvolto nel saio domenicano, un libro socchiuso fra le mani, il cappuccio abbassato sul volto, pensieroso e raccolto, in una severità accentuata dal bronzo della statua. L'iscrizione è breve e suggestiva: «A Bruno, il secolo da lui divinato qui dove il rogo arse.» Il monumento occupa il centro della piazza. Ma non era quello il luogo preciso dell'esecuzione, che si tenne invece all'angolo della Piazza con via dei Balestrari.
L'inaugurazione del monumento era avvenuta il 9 giugno 1889, la domenica della Pentecoste, in una cerimonia molto spettacolare, alla presenza di molte migliaia di persone. La piazza era tutta addobbata con palchi e stendardi. Su grandi tabelloni si potevano leggere le frasi famose attribuite a Bruno, tra le altre quella che avrebbe detto ai suoi giudici al momento della condanna:
«Tremate più voi nel pronunziare questa sentenza che io nell'ascoltarla»
Erigere a Bruno un monumento nella piazza che aveva visto tre secoli prima il suo rogo, a poche centinaia di metri dai palazzi del Vaticano, aveva un significato decisamente politicoMa gli anticlericali non erano gli unici a scegliere il monumento al filosofo nolano come terreno dello scontro tra il pensiero moderno e la religione. Altrettanto enfatica e drammatizzante era stata, fin dalle prime avvisaglie del progetto, la reazione della Chiesa. Il primo a scendere in campo fu, nel 1886, monsignor Pietro Balan, in uno scritto commissionato dall'Opera dei Congressi e dai Comitati cattolici, in cui si condannava senza appello la filosofia di Bruno e si denunciava la propaganda bruniana come opera di «stranieri, ebrei, ateisti, massoni».
L'organo dei gesuiti, «Civiltà cattolica», aveva poi preso in mano la campagna antibruniana con toni ancora più estremi, minacciando addirittura la punizione celeste per il gesto sacrilego: «dal giorno in cui s'è posto mano al suo monumento - scriveva nel momento dell'inaugurazione - i disastri di ogni maniera, come inondazioni, frane, uragani e simili hanno portato la desolazione nelle campagne di parecchie provincie».
Per il giornale gesuita, il monumento rappresentava «la presa di possesso a nome dell'ateismo di quella Roma che da quattordici secoli è stata ed è la capitale del mondo cristiano»
Il personaggio
Il filosofo, di cui nella realtà non possediamo altro che un ritratto molto dubbio ma che i verbali degli interrogatori ci descrivono come «piccolo, scarno, con un po' di barba nera», diventa nel martirio simile a un giovane e bellissimo Cristo.
Nel caso di Bruno, inoltre, le possibilità di cancellare totalmente il suo ricordo erano poche, data la sua fama europea e il gran numero di libri pubblicati - ventisette - che lasciava dietro di sé.
Nel Dizionario egli non appare più come un eretico, come nella tradizione precedente, bensì come un empio, un ateo, un pensatore che aveva messo in dubbio le più importanti verità di fede.
I cattolici, che hanno sempre studiato il Bruno dal punto di vista della religione, hanno giustamente veduto in lui un negatore della fede ed è innegabile che i giudici romani, da questo punto di vista, non potevano non condannare il Bruno al rogo. I cattolici però si sono curati molto poco di ricostruire la filosofia bruniana, inquadrandola nel momento storico in cui sorse, ed hanno visto in essa soltanto un mosaico senza senso di teorie diversissime.
Rogo si o rogo no?
Nel 1885, riprendendo tesi già sostenute nel Sei-Settecento, un professore francese di filosofia, Théophile Desdouits, pubblicava un libro in cui sosteneva che il rogo di Bruno era una leggenda basata soltanto sulla lettera di Schoppe, a suo avviso un falso seicentesco: Giordano Bruno sarebbe stato bruciato solo in effigie, e avrebbe finito i suoi giorni chiuso in un convento dell'Ordine domenicano.
A contrastare queste posizioni che potremmo definire «negazionistiche» era necessario trovare traccia nelle fonti del rogo di Bruno. La pista più probabile era quella degli archivi della Compagnia di S.Giovanni Decollato, cioè della confraternita che aveva il compito di accompagnare al supplizio i condannati a morte e di confortarli al pentimento. Ma gli archivi della confraternita restarono chiusi alle richieste ripetute, compiute in quegli anni da molti studiosi, di accedervi. Sotto il governo crispino, tuttavia, la Confraternita venne infine obbligata ad aprire il suo archivio. Vi si rinvenne una relazione che confermava la veridicità della lettera di Schoppe e descriveva il corteo dei confortatori e il rogo. Ulteriori testimonianze vennero inoltre scoperte negli Avvisi di Roma.
I documenti raccontavano che, in quell'anno santo 1600, all'alba di giovedì 17 febbraio, dopo essere stato invano esortato da sette predicatori appartenenti a diversi ordini, Giordano Bruno, «frate apostata da Nola di Regno, eretico inpenitente», «fu condotto in Campo di Fiori, e quivi spogliato nudo e legato a un palo fu brusciato vivo, aconpagniato sempre dalla nostra Compagnia, cantando le letanie, e li confortatori fino all'ultimo punto confortandolo a lasciar la sua ostinatione, con la quale finalmente finì la sua misera ed infelice vita».
La rivincita della cerimonia di inaugurazione del monumento
La cerimonia del 9 giugno veniva così a collocarsi idealmente come un rovesciamento simbolico del rogo del 17 febbraio 1600, una ricomposizione di una ferita rimasta aperta per tre secoli. Il corteo dell'inaugurazione del monumento voleva ripetere, rovesciandone il senso, quello del rogo, la processione che aveva accompagnato Bruno, imbavagliato, al supplizio. E i discorsi, gli «schiamazzi» anticlericali, volevano ridare voce, in maniera definitiva, a colui a cui era stata tappata la bocca fin sul rogo perché non potesse esprimere le sue idee nemmeno nella morte. Il circolo si chiudeva e il nuovo secolo si apriva sulla vittoria, vista quanto mai definitiva, della ragione e della libertà.
Il processo
L'immagine che il processo di Giordano Bruno ci ha rinviato non è univoca. Giordano Bruno vi appare sotto molti volti: il frate ribelle e libertino; il filosofo antiaristotelico; il mago ermetico; il teorico della pluralità dei mondi; il riformatore politico; l'accorto dissimulatore e il rigido difensore delle verità filosofiche; l'eretico e il martire. Volta a volta, gli interpreti sottolineano uno di questi aspetti, tolgono una delle maschere. Giordano Bruno, che guardava alla propria vita come a un dono degli dèi, in vista di un destino eccezionaleIl processo sancisce il mito di un Bruno pronto a immolarsi quale martire del libero pensiero, Ciliberto lo mostra impegnato a giocare tutte le proprie carte per salvarsi. Solo dopo ottanta mesi di prigionia e di travaglio interiore, Giordano Bruno sceglierà la morte – e riuscirà nello stesso tempo a capovolgere il rapporto con gli inquisitori, ergendosi a giudice e riducendo la Congregazione al ruolo di imputato davanti al tribunale della verità.
Gli accusatori
Mocenigo, un suo discepolo (processo di Venezia)
Le sue accuse risultano tuttavia confuse, prive di sfumature e di vera comprensione, quasi egli si aggirasse a fatica in un paesaggio intellettuale troppo complesso. Quanto delle sue denunce non sarà provato al processo, o anche certe sue esagerazioni, infatti, sembrano dovute non tanto a sue invenzioni quanto alla sua stessa rozzezza, alla sua incomprensione del pensiero e delle parole stesse del Bruno.
Celestino da Verona (processo di Roma)
Ma a Roma, al nutrito gruppo di accuse altre se ne aggiunsero, presentate all'Inquisizione da un suo compagno di cella nel carcere veneziano, il cappuccino Celestino da Verona, un personaggio oscuro e bizzarro che sarebbe a sua volta finito sul rogo per eresia nel 1599, che nel 1593, dopo essere stato scarcerato, denunciò Bruno all'Inquisizione.Che dire, ad esempio, di quello stesso Celestino da Verona che aveva denunciato Bruno all'Inquisizione nel 1593 dopo averne diviso la cella a Venezia? Arrestato ben tre volte dall'Inquisizione per eresia, fra Celestino fu bruciato sul rogo tre mesi prima di Bruno, nello stesso Campo de' Fiori, come Bruno ostinato nel suo rifiuto di abiurare.
Non sappiamo quali fossero esattamente le accuse che gli venivano rivolte, ma dovevano essere molto gravi dal momento che il papa Clemente VIII intervenne nel processo ordinando la sua condanna a morte e facendo coprire del più rigoroso sigillo del segreto le sue «eresie». La sua sentenza, a differenza di quella contro Bruno, fu pronunciata a porte chiuse e il rogo fu acceso durante la notte.
31 capi d’accusa
La prima accusa era di avere opinioni erronee sulla santa fede cattolica e di aver parlato contro di essa e i suoi ministri. Un'accusa generica di eresia, quindi, che concerneva sia opinioni che comportamenti. In concreto, a Bruno venivano contestate le sue opinioni sulla Chiesa e sui preti e sul clero («la Chiesa era governata da ignoranti ed asini»).In sostanza, l'accusa che gli veniva rivolta era di non credere né in Dio né nei Santi né in alcun'altra cosa, di essere insomma uomo senza religione: «E dicea ch'era tenuto in Inghilterra, in Germania, et in Francia dove era stato per nemico de la fede Catholica, e dell'altre sette, e veniva favorito come filosofo nuovo ch'insegnava la verità, e che se non fosse stato frate l'havriano adorato»
Confermate da tutti i testimoni erano invece le accuse di avere opinioni erronee su Cristo: in particolare, Bruno avrebbe affermato che Cristo era «un tristo», che «faceva miracoli apparenti e ch'era un Mago e così li Apostoli»; che Cristo «mostrò di morire mal volentiere», e che non fu posto in croce ma fu impiccato sulla forca, «come all'hora si solevano attaccare gl'huomini delinquenti» Decisamente eterodosse erano inoltre le sue opinioni sulla croce, là dove affermava che la croce era in realtà un simbolo della dea Iside, tenuto in venerazione dagli antichi, e «che i christiani l'haveano rubbato da l'antichi fingendo che in quella forma fosse il legno sopra il quale fu affisso Christo».
Ancora, egli era accusato di aver frequentemente bestemmiato Cristo: «diceva che Cristo è un cane becco fottuto, can.. et alzando la mano, faceva le fiche al cielo»', testimonia Celestino da Verona.
Ugualmente negativa era la sua posizione sull'Inferno: negava Inferno e Purgatorio, racconta un testimone, ma diceva che tra i due il Purgatorio era più ragionevole dell'Inferno, perché non era possibile che qualcuno, nemmeno i demoni, fosse condannati per l'eternità. A detta del Mocenigo, egli aveva inoltre negato la dottrina della verginità di Maria Vergine, dicendo «che era cosa impossibile, ch'una vergine partorisse ridendo, e burlando di questa credenza de gl'huomini»

Dal terreno dell'eresia passiamo a quello filosofico quando Bruno viene accusato di aver sostenuto l'esistenza di molteplici mondi e la loro eternità. L'accusa aveva naturalmente valenze ereticali fortissime: proclamare l'eternità del mondo voleva infatti dire negare la creazione di Dio e la provvidenza, mentre affermare che tutte le stelle erano mondi e che erano infiniti voleva dire negare la cosmologia accettata dalla Chiesa.
l'Inquisizione decise di passare ad un esame rigoroso delle sue scritture, e ordinò che una lista dei suoi scritti mancanti fosse consegnata al pontefice e che si cercasse con ogni sforzo di procurarli.
Conosciamo alcune delle sue risposte, che toccavano il tema dell'anima del mondo, dell'eternità del mondo, dell'anima individuale, del moto della terra, dell'infinità dei mondi. Tutti temi filosofici, quindi, ma che rivelano da parte dei suoi giudici la conoscenza e l'uso di tre delle sue opere:
De la causa e De l'infinito, già in mano ai suoi giudici a Venezia, e la Cena delle ceneri. Quest'ultima risulta quindi, alla fin fine, l'unica opera del Bruno su cui gli Inquisitori romani fossero riusciti a mettere le mani in tutto questo periodo. Sembra invece che essi non siano riusciti ad entrare in possesso né dei dialoghi Degli eroici furori, né di un'altra opera del Bruno che molto avrebbero voluto avere in mano, Lo spaccio della bestia trionfante, dal momento che la sospettavano di irriverenza nei confronti del papa.
La difesa
Che l'accusa fosse quella di aver scritto un'opera contro il papa, lo sappiamo dalla lettera di Schoppe: la «Bestia triumphante», scrive «come i protestanti sono soliti chiamare il papa per rendergli onore»Quanto al Bruno, nei suoi sette interrogatori (i cui verbali vengono detti nel linguaggio giuridico «costituti») egli riesce a dare di sé un'immagine convincente: quella di un frate che ha buttato alle ortiche la tonaca mosso dalla paura dell'Inquisizione, ma che ha sempre rispettato i termini della scomunica, senza prendere i sacramenti e senza esercitare le sue funzioni sacerdotali, e quindi senza incorrere nel reato gravissimo di sacrilegio.
Egli sottolinea nelle sue deposizioni di non essere stato a Parigi lettore ordinario, bensì straordinario, e di non aver quindi dovuto sottostare all'obbligo, che la carica di lettore ordinario avrebbe comportato, di recarsi a messa e agli uffici divini, cosa che egli, in quanto scomunicato per essere uscito dalla religione, non poteva fare senza incorrere nell'accusa di sacrilegio. Tocchiamo qui, in questa affermazione più volte ripetuta, anche in riferimento alla sua vita a Londra, di essersi sempre tenuto lontano dai sacramenti (e ancor più dall'esercizio del sacerdozio), uno dei punti chiave della sua strategia difensiva, la riaffermazione della sua obbedienza alla Chiesa sul terreno della pratica religiosa.
Le sue ammissioni più meditate e mirate, ma anche quelle in cui egli sembra sempre in equilibrio su un crinale sottile, erano evidentemente quelle su argomenti filosofici e teologici. Qui Bruno si accalora, si lascia trascinare dall'indignazione per veder ridotte le sue dottrine a semplici eresie o ancor peggio a bestemmie, nega, ammette dubbi, come quello sull'incarnazione, distingue, esprime con meditato candore le dottrine a cui più tiene, come quella della pluralità dei mondi.

In ginocchio
Bruno compie un gesto di grande efficacia e, prostrato in ginocchio, chiede perdono a Dio e al tribunale per tutti i suoi errori, dichiarandosi pronto a sottostare alle pene che il tribunale avesse voluto infliggergli e affermando solennemente il proposito di emendare la sua vita ove il tribunale avesse deciso di risparmiarlo. «Più e più volte lo si dovette invitare a risollevarsi prima ch'egli lasciasse la positura del penitente», scrive Firpo. Era un gesto che Firpo definisce «vistoso, un po' teatrale, probabilmente commovente», ma che lo rendeva, secondo il diritto, esente dalla pena di morte come eretico pentito.Nonostante le testimonianze, le accuse erano lungi dall'essere tutte provate. Alcune, quelle che riguardavano la sua apostasia, la vita in paesi eretici, l'attacco alla Chiesa, le bestemmie, l'attacco alle reliquie, alle immagini, il comportamento libertino, tutte accuse che formavano un quadro abbastanza omogeneo, erano state ammesse da Bruno per quanto riguardava il piano del comportamento, ma respinte per quanto riguardava l'intenzione ereticale. Questo diniego, unito alle sue espressioni di pentimento e le sue ritrattazioni, avrebbe potuto rendere la condanna lieve.
Il gruppo di accuse che riguardavano le affermazioni eterodosse di Bruno in materia teologica, invece, erano assai più convincenti
«la dissoluzione del dogma trinitario s'era in lui operata da un lato con l'identificazione dello Spirito Santo con l'anima del mondo, dall'altro con l'umanizzazione del Cristo, semplice mago esperto di artifici naturali e peccatore in punto di morte».
Ma anche queste accuse non erano sufficientemente provate, e urtavano contro i decisi dinieghi di Bruno, che continuava a proclamare la sua ortodossia. Sostanzialmente provate apparivano invece le accuse su materia strettamente filosofica: erano tesi che Bruno aveva difeso negli interrogatori, stampate nei libri, e le cui conseguenze sul piano religioso erano pesanti.
Sulle asserzioni bruniane sull'anima del mondo, sulla sua implicita negazione, filosoficamente parlando, della creazione, sulla sua difesa della pluralità dei mondi si appunta l'attenzione di un tribunale inquisitoriale, quello centrale romano, molto più attento di quello veneziano, che si era invece interessato soprattutto all'adesione alle dottrine protestanti o ai comportamenti ereticali o libertini tradizionali, ai viaggi di Bruno, alla sua critica della Trinità, alla sua familiarità con sovrani eretici come Elisabetta d'Inghilterra.
Le ritrattazioni filosofiche
Il 18 gennaio 1599 il tribunale sottopose a Bruno, perché le abiurasse formalmente, un elenco di otto proposizioni ereticali, estratte tanto dagli interrogatori processuali quanto dalla censura dei libri…. si trattasse di formulazioni filosofiche e non teologiche in senso stretto. Dopo aver tentato di tergiversare, Bruno accettò infine, il 15 febbraio, «di riconoscere dette proposizioni per eretiche et essere pronto per detestarle et abiurarle in loco et tempo che piacerà al Santo Offitio»L'abiura di Bruno non soddisfaceva tuttavia che assai parzialmente le domande del S. Uffizio: da una parte, il memoriale scritto in proposito da Bruno conteneva, a detta di Bellarmino, alcune incertezze e reticenze. Dall'altra, le otto proposizioni non esprimevano che una piccola parte delle proposizioni ereticali sostenute da Bruno e non erano, per il S. Uffizio, che un ballon d'essai per saggiare la disponibilità di Bruno alla ritrattazione. Dal punto di vista giuridico, la ritrattazione avrebbe escluso automaticamente la pena di morte, dal momento che Bruno veniva condannato per la prima volta e non era quindi un eretico relapso. Ma la persistenza nell'errore, trasformando Bruno in un eretico impenitente, conduceva sicuramente al rogo. Sulla ritrattazione si giocava ormai la sentenza.
Tortura?
Una parte dei giudici, infatti, considerava che il tribunale non avesse provato sufficientemente la colpevolezza dell'imputato e raccomandava di procedere all'interrogatorio sotto tortura. Un'altra parte del tribunale, invece, riteneva sufficientemente provate un certo numero di accuse e non riteneva quindi necessario ai fini processuali l'uso della tortura. Fu quest'ultimo il parere vincente, appoggiato anche dal papa. L'uso della tortura era infatti, nel diritto del tempo, strettamente finalizzato al raggiungimento della piena evidenza della colpevolezza e autorizzato da un'apposita sentenza.Lungo tutto il processo bruniano, la tortura fu, forse, usata in una sola circostanza, nel 1597, durante l'interrogatorio sulle censure dei libri, quando il tribunale ordinò di procedere ad un interrogatorio rigoroso. Il termine con cui vengono indicate le modalità dell'interrogatorio, stricte, era infatti un termine tecnico per indicare un interrogatorio sotto tortura, usualmente mezz'ora di supplizio della corda.
Relapso
L'abiura era un elemento fondamentale del processo di eresia. Un eretico che abiurava le sue eresie otteneva un trattamento mite da parte del tribunale. Dall'altra parte; un eretico che fosse ricaduto nei suoi errori dopo aver abiurato diventava un eretico relapso ed era soggetto al trattamento più rigoroso da parte del tribunale, normalmente la condanna a morte.Essa rappresentava per i giudici la vittoria della verità e della fede, la rinuncia all'errore da parte dell'imputato. Anche nel caso di eretici relapsi, e quindi sovente condannati a morte, strappar loro l'abiura rappresentava per i giudici la possibilità di farli morire pentiti, e quindi non dannati. Fino al patibolo, i frati e i membri delle compagnie dei confortatori insistevano perché i condannati rinunciassero in punto di morte ai loro errori.
Portare un eretico al patibolo senza riconciliarlo con la Chiesa era per la Chiesa il massimo dei fallimenti.
Nel caso di Bruno, l'abiura assume inoltre il carattere di uno scontro di principio. Per Bruno, rinunciare alle sue verità vuol dire sottomettersi a una verità che non condivide, accettare un'autorità, quella dei suoi giudici e dei teologi del S. Uffizio, che non riconosce.La stessa riluttanza a piegarsi che aveva dimostrato a Ginevra, nello scontro con l'ortodossia ginevrina, in forma certo meno decisiva e drammatica. A Ginevra, Bruno aveva infine abiurato. A Venezia, gettandosi ai piedi dei giudici, si era dichiarato pienamente disposto all'abiura. Ora inizia invece un gioco di scherma, in cui egli dichiara di voler abiurare e subito distingue, sottilizza, nega. Un gioco a cui porrà fine non tanto la sentenza finale quanto la sua stessa ultima decisione di non piegarsi all'abiura.
Non possediamo il testo dell'abiura che gli veniva proposta, e non sappiamo quindi quali fossero i capi di imputazione che gli si richiedeva di abiurare. Ma è probabile che esso contenesse tutte le accuse di carattere disciplinare e teologico vero e proprio - cioè quelle di apostasia, soggiorno in terra di eretici, vita libertina, bestemmie, i dubbi sull'incarnazione e la Trinità - oltre alle accuse filosofiche: la critica all'idea di creazione, la dottrina dell'anima universale, la teoria copernicana del moto terrestre, la teoria dell'esistenza dei preadamiti.
Sentenza
Il 16 settembre 1599, Bruno dichiara di essere disposto all'abiura.Contemporaneamente però egli presentava a Clemente VIII un memoriale in cui rimetteva in discussione tutte le sue ritrattazioni, negava il carattere ereticale delle proposizioni contestategli, riapriva in sostanza tutta la discussione. A partire da quel momento, all'imputato fu concesso un termine perentorio di quaranta giorni per pentirsi e ritrattare. Il 17 novembre, fu emanata la sentenza, che condannava Bruno come eretico impenitente.
In una successiva visita in carcere, il 21 dicembre, Bruno fu nuovamente invitato a ritrattare, e questa volta rispose con grande fermezza di non avere nulla da ritrattare.
L'8 febbraio, la sentenza fu letta al condannatoI suoi scritti dovevano essere bruciati in Piazza S. Pietro e inseriti nell'Indice dei libri proibiti.
Bruno ascoltò in ginocchio la sentenza e che poi si alzò ed esclamò rivolto ai suoi giudici la frase rimasta leggendaria: «Tremate più voi nel pronunziare questa sentenza che io nell'ascoltarla»›. 
Questa Chiesa ha condannato Bruno al rogo, e ce lo ha mandato imbavagliato perché non «bestemmiasse» durante il supplizio o perché non proclamasse le sue verità al mondo. Secondo il diritto del tempo, da lei stessa costruito e codificato, la Chiesa considerava suo diritto e dovere condannarlo.
Il pensiero di Bruno
Bruno sarebbe stato determinato al rientro in Italia da un preciso programma politico religioso, da lui elaborato soprattutto negli ultimi anni, durante il suo soggiorno in Germania. Al centro del suo progetto era l'instaurazione della pace religiosa in Europa, attraverso la riduzione del mondo ad una sola religione. Questa religione non era il calvinismo, a Bruno radicalmente estraneo e da lui visto con grande ostilità, bensì una religione etica e filosofica, priva di dogmi e di eresie, ma fondamentalmente cattolica. Era quella cattolica, infatti, la religione che Bruno considerava, nonostante tutto, la migliore delle religioni, quella che «gli piaceva più dell'altre»,Che Bruno si ponesse come il fondatore di una nuova setta era un fatto emerso al processo, nell'accusa rivoltagli da molti dei testimoni di aver creato una setta nuova, quella dei giordanisti. Per la verità, non sembra dai verbali che i giudici dedicassero a quest'accusa particolare attenzione. Essi erano molto più interessati a definire i rapporti di Bruno con le sette esistenti, cioè con i protestanti, che ad inseguire utopie religiose non realizzate.
La pacificazione religiosa, in un'Europa dilaniata dalle guerre di religione, era in realtà in quegli ultimi decenni del Cinquecento un problema urgente e assai sentito. Sulla necessità di pacificare i conflitti religiosi, di trovare una strada per la fine delle guerre, erano d'accordo tutti coloro che non si schieravano, nel conflitto, da una parte o dall'altra, tutti coloro che non lottavano per la vittoria finale dell'uno o dell'altro dei due partiti.
L'avversione di Bruno verso il protestantesimo aveva radici più profonde dell'infelice esperienza ginevrina o dei conflitti con Chiese e pastori intolleranti in Germania. Erano le basi teoriche della Riforma ad essere profondamente distanti dal pensiero di Bruno. In particolare, l'idea della giustificazione per fede, a cui Bruno è decisamente ostile.
La forza dell’amore
Per Bruno, la filantropia, l'amore tra gli uomini, è il fondamento del viver sociale, secondo quella formula, a lui cara, che vieta di fare agli altri il male che non si vuole sia fatto a noi stessi.
Una religione intellettuale, sostanzialmente deistica, fondata sull'idea filantropica dell'amore reciproco fra tutti gli uomini, quale egli descriveva nel 1588 nella dedica del suo libello contro i matematici all'imperatore Rodolfo II. Un tema, questo dell'amore, decisamente magico ed ermetico. L'amore è infatti il vincolo universale che tiene insieme le forze della natura, «che concilia i contrari e unifica il molteplice nell'uno»
Di qui, la necessità di porre fine alle guerre tra gli uomini, di ricostituire la legge dell'amore, di esaltare la libertà interiore dell'uomo contro le costrizioni e la forza.
Commenti
Posta un commento