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Giordano Bruno

Giordano Bruno. Scagli la prima pietra che non ha mai udito tale nome. Probabilmente se si conosce il nome si saprà anche come ha finito i suoi giorni; bruciato vivo.

Stop. Ma non basta. Così come non basta passare a velocità supersonica in piazza campo dei fiori a Roma per una rapida occhiata al monumento a lui dedicato.
Ci sarà pur un motivo se tra migliaia di messi al rogo a lui hanno fatto la statua. Che diamine.

Questi i pensieri mentre riguardo gli scatti strappati a Campo dei fiori in una soleggiata giornata primaverile.

A distanza di due anni approfondisco il personaggio e il percorso che lo ha portato ad essere ridotto in cenere a Roma, a poche centinaia di metri della capitale di Gesù Cristo Nostro Signore

P.S. É un puro caso che il post esca esattamente lo stesso giorno della sua esecuzione.

Il monumento 

Nel centro di piazza Campo de' Fiori, in mezzo alle bancarelle del mercato e al vagabondare di romani e turisti, si leva il monumento a Giordano Bruno. Il filosofo è tutto avvolto nel saio domenicano, un libro socchiuso fra le mani, il cappuccio abbassato sul volto, pensieroso e raccolto, in una severità accentuata dal bronzo della statua. L'iscrizione è breve e suggestiva: «A Bruno, il secolo da lui divinato qui dove il rogo arse.» Il monumento occupa il centro della piazza. Ma non era quello il luogo preciso dell'esecuzione, che si tenne invece all'angolo della Piazza con via dei Balestrari.


L'inaugurazione del monumento era avvenuta il 9 giugno 1889, la domenica della Pentecoste, in una cerimonia molto spettacolare, alla presenza di molte migliaia di persone. La piazza era tutta addobbata con palchi e stendardi. Su grandi tabelloni si potevano leggere le frasi famose attribuite a Bruno, tra le altre quella che avrebbe detto ai suoi giudici al momento della condanna: 

«Tremate più voi nel pronunziare questa sentenza che io nell'ascoltarla»

Erigere a Bruno un monumento nella piazza che aveva visto tre secoli prima il suo rogo, a poche centinaia di metri dai palazzi del Vaticano, aveva un significato decisamente politico


Ma gli anticlericali non erano gli unici a scegliere il monumento al filosofo nolano come terreno dello scontro tra il pensiero moderno e la religione. Altrettanto enfatica e drammatizzante era stata, fin dalle prime avvisaglie del progetto, la reazione della Chiesa. Il primo a scendere in campo fu, nel 1886, monsignor Pietro Balan, in uno scritto commissionato dall'Opera dei Congressi e dai Comitati cattolici, in cui si condannava senza appello la filosofia di Bruno e si denunciava la propaganda bruniana come opera di «stranieri, ebrei, ateisti, massoni».

L'organo dei gesuiti, «Civiltà cattolica», aveva poi preso in mano la campagna antibruniana con toni ancora più estremi, minacciando addirittura la punizione celeste per il gesto sacrilego: «dal giorno in cui s'è posto mano al suo monumento - scriveva nel momento dell'inaugurazione - i disastri di ogni maniera, come inondazioni, frane, uragani e simili hanno portato la desolazione nelle campagne di parecchie provincie».

Per il giornale gesuita, il monumento rappresentava «la presa di possesso a nome dell'ateismo di quella Roma che da quattordici secoli è stata ed è la capitale del mondo cristiano»

Il personaggio


Il filosofo, di cui nella realtà non possediamo altro che un ritratto molto dubbio ma che i verbali degli interrogatori ci descrivono come «piccolo, scarno, con un po' di barba nera», diventa nel martirio simile a un giovane e bellissimo Cristo.

Nel caso di Bruno, inoltre, le possibilità di cancellare totalmente il suo ricordo erano poche, data la sua fama europea e il gran numero di libri pubblicati - ventisette - che lasciava dietro di sé.

Nel Dizionario egli non appare più come un eretico, come nella tradizione precedente, bensì come un empio, un ateo, un pensatore che aveva messo in dubbio le più importanti verità di fede. 

I cattolici, che hanno sempre studiato il Bruno dal punto di vista della religione, hanno giustamente veduto in lui un negatore della fede ed è innegabile che i giudici romani, da questo punto di vista, non potevano non condannare il Bruno al rogo. I cattolici però si sono curati molto poco di ricostruire la filosofia bruniana, inquadrandola nel momento storico in cui sorse, ed hanno visto in essa soltanto un mosaico senza senso di teorie diversissime.

Rogo si o rogo no?

Nel 1885, riprendendo tesi già sostenute nel Sei-Settecento, un professore francese di filosofia, Théophile Desdouits, pubblicava un libro in cui sosteneva che il rogo di Bruno era una leggenda basata soltanto sulla lettera di Schoppe, a suo avviso un falso seicentesco: Giordano Bruno sarebbe stato bruciato solo in effigie, e avrebbe finito i suoi giorni chiuso in un convento dell'Ordine domenicano

A contrastare queste posizioni che potremmo definire «negazionistiche» era necessario trovare traccia nelle fonti del rogo di Bruno. La pista più probabile era quella degli archivi della Compagnia di S.Giovanni Decollato, cioè della confraternita che aveva il compito di accompagnare al supplizio i condannati a morte e di confortarli al pentimento. Ma gli archivi della confraternita restarono chiusi alle richieste ripetute, compiute in quegli anni da molti studiosi, di accedervi. Sotto il governo crispino, tuttavia, la Confraternita venne infine obbligata ad aprire il suo archivio. Vi si rinvenne una relazione che confermava la veridicità della lettera di Schoppe e descriveva il corteo dei confortatori e il rogo. Ulteriori testimonianze vennero inoltre scoperte negli Avvisi di Roma.

Giordano Bruno sul rogo

I documenti raccontavano che, in quell'anno santo 1600, all'alba di giovedì 17 febbraio, dopo essere stato invano esortato da sette predicatori appartenenti a diversi ordini, Giordano Bruno, «frate apostata da Nola di Regno, eretico inpenitente», «fu condotto in Campo di Fiori, e quivi spogliato nudo e legato a un palo fu brusciato vivo, aconpagniato sempre dalla nostra Compagnia, cantando le letanie, e li confortatori fino all'ultimo punto confortandolo a lasciar la sua ostinatione, con la quale finalmente finì la sua misera ed infelice vita». 
Era morto senza pentirsi, ostinato, aggiunge un Avviso di Roma, «con la lingua in giova per le bruttissime parole che diceva». La realtà del rogo non poteva più essere negata.

La rivincita della cerimonia di inaugurazione del monumento

La cerimonia del 9 giugno veniva così a collocarsi idealmente come un rovesciamento simbolico del rogo del 17 febbraio 1600, una ricomposizione di una ferita rimasta aperta per tre secoli. Il corteo dell'inaugurazione del monumento voleva ripetere, rovesciandone il senso, quello del rogo, la processione che aveva accompagnato Bruno, imbavagliato, al supplizio. E i discorsi, gli «schiamazzi» anticlericali, volevano ridare voce, in maniera definitiva, a colui a cui era stata tappata la bocca fin sul rogo perché non potesse esprimere le sue idee nemmeno nella morte. Il circolo si chiudeva e il nuovo secolo si apriva sulla vittoria, vista quanto mai definitiva, della ragione e della libertà.


Il rogo rappresentato in uno dei tre bassorilievi presenti sulla statua dedicata a Giordano Bruno a Campo dei Fiori 

Il processo

L'immagine che il processo di Giordano Bruno ci ha rinviato non è univoca. Giordano Bruno vi appare sotto molti volti: il frate ribelle e libertino; il filosofo antiaristotelico; il mago ermetico; il teorico della pluralità dei mondi; il riformatore politico; l'accorto dissimulatore e il rigido difensore delle verità filosofiche; l'eretico e il martire. Volta a volta, gli interpreti sottolineano uno di questi aspetti, tolgono una delle maschere. Giordano Bruno, che guardava alla propria vita come a un dono degli dèi, in vista di un destino eccezionale

Il processo sancisce il mito di un Bruno pronto a immolarsi quale martire del libero pensiero, Ciliberto lo mostra impegnato a giocare tutte le proprie carte per salvarsi. Solo dopo ottanta mesi di prigionia e di travaglio interiore, Giordano Bruno sceglierà la morte – e riuscirà nello stesso tempo a capovolgere il rapporto con gli inquisitori, ergendosi a giudice e riducendo la Congregazione al ruolo di imputato davanti al tribunale della verità.

Gli accusatori

Mocenigo, un suo discepolo  (processo di Venezia)

Quel che traspare con vivezza dalle accuse del Mocenigo è anche il disprezzo, la condiscendenza nel migliore dei casi, con cui il discepolo veniva trattato dal maestro: un disprezzo giustificato certo dalla limitata statura intellettuale del Mocenigo, dal suo visibile conformismo, dal suo ridicolo desiderio di impossessarsi di conoscenze occulte, dalla sua ansia meschina di ottenere il corrispettivo in sapienza del denaro speso.

Le sue accuse risultano tuttavia confuse, prive di sfumature e di vera comprensione, quasi egli si aggirasse a fatica in un paesaggio intellettuale troppo complesso. Quanto delle sue denunce non sarà provato al processo, o anche certe sue esagerazioni, infatti, sembrano dovute non tanto a sue invenzioni quanto alla sua stessa rozzezza, alla sua incomprensione del pensiero e delle parole stesse del Bruno.

Celestino da Verona (processo di Roma)

Ma a Roma, al nutrito gruppo di accuse altre se ne aggiunsero, presentate all'Inquisizione da un suo compagno di cella nel carcere veneziano, il cappuccino Celestino da Verona, un personaggio oscuro e bizzarro che sarebbe a sua volta finito sul rogo per eresia nel 1599, che nel 1593, dopo essere stato scarcerato, denunciò Bruno all'Inquisizione. 
Nella denuncia egli afferma di voler deporre contro Bruno perché convinto che questi avesse a sua volta deposto calumniose contro di lui. Le accuse riprendevano quelle del Mocenigo, aggiungendovi dieci nuovi capi di imputazione, e si appoggiavano sulla testimonianza di altri quattro compagni di cella di Bruno, un frate carmelitano, Giulio da Salò, un falegname napoletano, Francesco Vaia, un Matteo De Silvestris e un udinese che conosceva il latino e viveva dando lezioni e traducendo, Francesco Graziano, già condannato come eretico dall'Inquisizione nel 1595, e quindi relapso (ma sfuggirà alla condanna a morte e sarà liberato nel 1598).
Ne viene fuori l'immagine di un imputato che, mentre si proclama pentito e desideroso di abiurare ad ogni errore, nel chiuso della cella, in mezzo a frati e falegnami, filosofi e analfabeti, si burla dei giudici e della religione, bestemmia, discute, fa progetti per il futuro.

Che dire, ad esempio, di quello stesso Celestino da Verona che aveva denunciato Bruno all'Inquisizione nel 1593 dopo averne diviso la cella a Venezia? Arrestato ben tre volte dall'Inquisizione per eresia, fra Celestino fu bruciato sul rogo tre mesi prima di Bruno, nello stesso Campo de' Fiori, come Bruno ostinato nel suo rifiuto di abiurare.

Non sappiamo quali fossero esattamente le accuse che gli venivano rivolte, ma dovevano essere molto gravi dal momento che il papa Clemente VIII intervenne nel processo ordinando la sua condanna a morte e facendo coprire del più rigoroso sigillo del segreto le sue «eresie». La sua sentenza, a differenza di quella contro Bruno, fu pronunciata a porte chiuse e il rogo fu acceso durante la notte.

31 capi d’accusa

La prima accusa era di avere opinioni erronee sulla santa fede cattolica e di aver parlato contro di essa e i suoi ministri. Un'accusa generica di eresia, quindi, che concerneva sia opinioni che comportamenti. In concreto, a Bruno venivano contestate le sue opinioni sulla Chiesa e sui preti e sul clero («la Chiesa era governata da ignoranti ed asini»). 

I testimoni riferivano, in maniera in realtà vaga, di averlo sentito progettare di mettersi a capo di una nuova setta («e che avea cominciata una nuova setta in Germania, e che se fosse liberato di prigione voleva tornare a formarla et istituirla meglio, e che volea si chiamassero Giordanisti»).

In sostanza, l'accusa che gli veniva rivolta era di non credere né in Dio né nei Santi né in alcun'altra cosa, di essere insomma uomo senza religione: «E dicea ch'era tenuto in Inghilterra, in Germania, et in Francia dove era stato per nemico de la fede Catholica, e dell'altre sette, e veniva favorito come filosofo nuovo ch'insegnava la verità, e che se non fosse stato frate l'havriano adorato»

Confermate da tutti i testimoni erano invece le accuse di avere opinioni erronee su Cristo: in particolare, Bruno avrebbe affermato che Cristo era «un tristo», che «faceva miracoli apparenti e ch'era un Mago e così li Apostoli»; che Cristo «mostrò di morire mal volentiere», e che non fu posto in croce ma fu impiccato sulla forca, «come all'hora si solevano attaccare gl'huomini delinquenti» Decisamente eterodosse erano inoltre le sue opinioni sulla croce, là dove affermava che la croce era in realtà un simbolo della dea Iside, tenuto in venerazione dagli antichi, e «che i christiani l'haveano rubbato da l'antichi fingendo che in quella forma fosse il legno sopra il quale fu affisso Christo».

Ancora, egli era accusato di aver frequentemente bestemmiato Cristo: «diceva che Cristo è un cane becco fottuto, can.. et alzando la mano, faceva le fiche al cielo»', testimonia Celestino da Verona.

Ugualmente negativa era la sua posizione sull'Inferno: negava Inferno e Purgatorio, racconta un testimone, ma diceva che tra i due il Purgatorio era più ragionevole dell'Inferno, perché non era possibile che qualcuno, nemmeno i demoni, fosse condannati per l'eternità. A detta del Mocenigo, egli aveva inoltre negato la dottrina della verginità di Maria Vergine, dicendo «che era cosa impossibile, ch'una vergine partorisse ridendo, e burlando di questa credenza de gl'huomini»


Dal terreno dell'eresia passiamo a quello filosofico quando Bruno viene accusato di aver sostenuto l'esistenza di molteplici mondi e la loro eternità. L'accusa aveva naturalmente valenze ereticali fortissime: proclamare l'eternità del mondo voleva infatti dire negare la creazione di Dio e la provvidenza, mentre affermare che tutte le stelle erano mondi e che erano infiniti voleva dire negare la cosmologia accettata dalla Chiesa. 
Della stessa natura erano le accuse che gli venivano rivolte di sostenere la trasmigrazione delle anime: «Diceva che l'anime, partendo da un mondo, andavano nell'altro, e ch'esso era stato un'altra volta nel mondo in un cigno, e noi altri prigioni ne ridevamo»

l'Inquisizione decise di passare ad un esame rigoroso delle sue scritture, e ordinò che una lista dei suoi scritti mancanti fosse consegnata al pontefice e che si cercasse con ogni sforzo di procurarli.

Conosciamo alcune delle sue risposte, che toccavano il tema dell'anima del mondo, dell'eternità del mondo, dell'anima individuale, del moto della terra, dell'infinità dei mondi. Tutti temi filosofici, quindi, ma che rivelano da parte dei suoi giudici la conoscenza e l'uso di tre delle sue opere:

De la causa e De l'infinito, già in mano ai suoi giudici a Venezia, e la Cena delle ceneri. Quest'ultima risulta quindi, alla fin fine, l'unica opera del Bruno su cui gli Inquisitori romani fossero riusciti a mettere le mani in tutto questo periodo. Sembra invece che essi non siano riusciti ad entrare in possesso né dei dialoghi Degli eroici furori, né di un'altra opera del Bruno che molto avrebbero voluto avere in mano, Lo spaccio della bestia trionfante, dal momento che la sospettavano di irriverenza nei confronti del papa.

La difesa

Che l'accusa fosse quella di aver scritto un'opera contro il papa, lo sappiamo dalla lettera di Schoppe: la «Bestia triumphante», scrive «come i protestanti sono soliti chiamare il papa per rendergli onore»

Quanto al Bruno, nei suoi sette interrogatori (i cui verbali vengono detti nel linguaggio giuridico «costituti») egli riesce a dare di sé un'immagine convincente: quella di un frate che ha buttato alle ortiche la tonaca mosso dalla paura dell'Inquisizione, ma che ha sempre rispettato i termini della scomunica, senza prendere i sacramenti e senza esercitare le sue funzioni sacerdotali, e quindi senza incorrere nel reato gravissimo di sacrilegio. 
Quella di un pensatore mosso da dubbi sinceri, assillato dalle contraddizioni tra verità di fede e verità razionali, ma alla fine disposto a riconoscere la priorità della religione; quella di un filosofo di prestigio, amico di sovrani e di principi, ovunque ammirato e riconosciuto, ma ansioso di tornare a riconciliarsi con la Chiesa; infine quella di chi è vissuto tra gli eretici senza mai accettarne le ragioni e le dottrine, senza abbandonare il cattolicesimo, anzi continuando a ritenerlo la migliore delle religioni, pur se bisognosa di riforme.


Egli sottolinea nelle sue deposizioni di non essere stato a Parigi lettore ordinario, bensì straordinario, e di non aver quindi dovuto sottostare all'obbligo, che la carica di lettore ordinario avrebbe comportato, di recarsi a messa e agli uffici divini, cosa che egli, in quanto scomunicato per essere uscito dalla religione, non poteva fare senza incorrere nell'accusa di sacrilegio. Tocchiamo qui, in questa affermazione più volte ripetuta, anche in riferimento alla sua vita a Londra, di essersi sempre tenuto lontano dai sacramenti (e ancor più dall'esercizio del sacerdozio), uno dei punti chiave della sua strategia difensiva, la riaffermazione della sua obbedienza alla Chiesa sul terreno della pratica religiosa.

Le sue ammissioni più meditate e mirate, ma anche quelle in cui egli sembra sempre in equilibrio su un crinale sottile, erano evidentemente quelle su argomenti filosofici e teologici. Qui Bruno si accalora, si lascia trascinare dall'indignazione per veder ridotte le sue dottrine a semplici eresie o ancor peggio a bestemmie, nega, ammette dubbi, come quello sull'incarnazione, distingue, esprime con meditato candore le dottrine a cui più tiene, come quella della pluralità dei mondi.

Con fermezza, invece, egli nega di aver bestemmiato, di aver parlato male di Cristo e della fede cattolica, di aver praticato la magia o altre forme di superstizione.


In ginocchio

Bruno compie un gesto di grande efficacia e, prostrato in ginocchio, chiede perdono a Dio e al tribunale per tutti i suoi errori, dichiarandosi pronto a sottostare alle pene che il tribunale avesse voluto infliggergli e affermando solennemente il proposito di emendare la sua vita ove il tribunale avesse deciso di risparmiarlo. «Più e più volte lo si dovette invitare a risollevarsi prima ch'egli lasciasse la positura del penitente», scrive Firpo. Era un gesto che Firpo definisce «vistoso, un po' teatrale, probabilmente commovente», ma che lo rendeva, secondo il diritto, esente dalla pena di morte come eretico pentito. 

Era il 30 luglio 1592, e Giordano Bruno sarebbe stato probabilmente condannato a pene lievi e avrebbe potuto riprendere la sua vita, i suoi studi e i suoi progetti, ove non fosse intervenuta l'estradizione chiesta da Roma e la nuova denuncia di Celestino da Verona, corroborata dagli altri compagni di cella nel carcere venezianoVerso la conclusione

Nonostante le testimonianze, le accuse erano lungi dall'essere tutte provate. Alcune, quelle che riguardavano la sua apostasia, la vita in paesi eretici, l'attacco alla Chiesa, le bestemmie, l'attacco alle reliquie, alle immagini, il comportamento libertino, tutte accuse che formavano un quadro abbastanza omogeneo, erano state ammesse da Bruno per quanto riguardava il piano del comportamento, ma respinte per quanto riguardava l'intenzione ereticale. Questo diniego, unito alle sue espressioni di pentimento e le sue ritrattazioni, avrebbe potuto rendere la condanna lieve.

Il gruppo di accuse che riguardavano le affermazioni eterodosse di Bruno in materia teologica, invece, erano assai più convincenti
«la dissoluzione del dogma trinitario s'era in lui operata da un lato con l'identificazione dello Spirito Santo con l'anima del mondo, dall'altro con l'umanizzazione del Cristo, semplice mago esperto di artifici naturali e peccatore in punto di morte».

Ma anche queste accuse non erano sufficientemente provate, e urtavano contro i decisi dinieghi di Bruno, che continuava a proclamare la sua ortodossia. Sostanzialmente provate apparivano invece le accuse su materia strettamente filosofica: erano tesi che Bruno aveva difeso negli interrogatori, stampate nei libri, e le cui conseguenze sul piano religioso erano pesanti.

Sulle asserzioni bruniane sull'anima del mondo, sulla sua implicita negazione, filosoficamente parlando, della creazione, sulla sua difesa della pluralità dei mondi si appunta l'attenzione di un tribunale inquisitoriale, quello centrale romano, molto più attento di quello veneziano, che si era invece interessato soprattutto all'adesione alle dottrine protestanti o ai comportamenti ereticali o libertini tradizionali, ai viaggi di Bruno, alla sua critica della Trinità, alla sua familiarità con sovrani eretici come Elisabetta d'Inghilterra.

Le ritrattazioni filosofiche

Il 18 gennaio 1599 il tribunale sottopose a Bruno, perché le abiurasse formalmente, un elenco di otto proposizioni ereticali, estratte tanto dagli interrogatori processuali quanto dalla censura dei libri…. si trattasse di formulazioni filosofiche e non teologiche in senso stretto. Dopo aver tentato di tergiversare, Bruno accettò infine, il 15 febbraio, «di riconoscere dette proposizioni per eretiche et essere pronto per detestarle et abiurarle in loco et tempo che piacerà al Santo Offitio»

L'abiura di Bruno non soddisfaceva tuttavia che assai parzialmente le domande del S. Uffizio: da una parte, il memoriale scritto in proposito da Bruno conteneva, a detta di Bellarmino, alcune incertezze e reticenze. Dall'altra, le otto proposizioni non esprimevano che una piccola parte delle proposizioni ereticali sostenute da Bruno e non erano, per il S. Uffizio, che un ballon d'essai per saggiare la disponibilità di Bruno alla ritrattazione. Dal punto di vista giuridico, la ritrattazione avrebbe escluso automaticamente la pena di morte, dal momento che Bruno veniva condannato per la prima volta e non era quindi un eretico relapso. Ma la persistenza nell'errore, trasformando Bruno in un eretico impenitente, conduceva sicuramente al rogo. Sulla ritrattazione si giocava ormai la sentenza.

Tortura?

Una parte dei giudici, infatti, considerava che il tribunale non avesse provato sufficientemente la colpevolezza dell'imputato e raccomandava di procedere all'interrogatorio sotto tortura. Un'altra parte del tribunale, invece, riteneva sufficientemente provate un certo numero di accuse e non riteneva quindi necessario ai fini processuali l'uso della tortura. Fu quest'ultimo il parere vincente, appoggiato anche dal papa. L'uso della tortura era infatti, nel diritto del tempo, strettamente finalizzato al raggiungimento della piena evidenza della colpevolezza e autorizzato da un'apposita sentenza.

Lungo tutto il processo bruniano, la tortura fu, forse, usata in una sola circostanza, nel 1597, durante l'interrogatorio sulle censure dei libri, quando il tribunale ordinò di procedere ad un interrogatorio rigoroso. Il termine con cui vengono indicate le modalità dell'interrogatorio, stricte, era infatti un termine tecnico per indicare un interrogatorio sotto tortura, usualmente mezz'ora di supplizio della corda.

Il supplizio della corda

Relapso

L'abiura era un elemento fondamentale del processo di eresia. Un eretico che abiurava le sue eresie otteneva un trattamento mite da parte del tribunale. Dall'altra parte; un eretico che fosse ricaduto nei suoi errori dopo aver abiurato diventava un eretico relapso ed era soggetto al trattamento più rigoroso da parte del tribunale, normalmente la condanna a morte. 

Nonostante i suoi precedenti giovanili con l'Inquisizione, Bruno non aveva mai subito condanne. L'abiura lo avrebbe quindi salvato dalla condanna a morte e gli avrebbe probabilmente consentito di evitare la reclusione o di limitarla a un periodo non troppo lungo. L'abiura era inoltre un elemento centrale della strategia di lotta contro l'eresia da parte dei tribunali inquisitoriali.

Essa rappresentava per i giudici la vittoria della verità e della fede, la rinuncia all'errore da parte dell'imputato. Anche nel caso di eretici relapsi, e quindi sovente condannati a morte, strappar loro l'abiura rappresentava per i giudici la possibilità di farli morire pentiti, e quindi non dannati. Fino al patibolo, i frati e i membri delle compagnie dei confortatori insistevano perché i condannati rinunciassero in punto di morte ai loro errori. 

Portare un eretico al patibolo senza riconciliarlo con la Chiesa era per la Chiesa il massimo dei fallimenti.

Nel caso di Bruno, l'abiura assume inoltre il carattere di uno scontro di principio. Per Bruno, rinunciare alle sue verità vuol dire sottomettersi a una verità che non condivide, accettare un'autorità, quella dei suoi giudici e dei teologi del S. Uffizio, che non riconosce.

La stessa riluttanza a piegarsi che aveva dimostrato a Ginevra, nello scontro con l'ortodossia ginevrina, in forma certo meno decisiva e drammatica. A Ginevra, Bruno aveva infine abiurato. A Venezia, gettandosi ai piedi dei giudici, si era dichiarato pienamente disposto all'abiura. Ora inizia invece un gioco di scherma, in cui egli dichiara di voler abiurare e subito distingue, sottilizza, nega. Un gioco a cui porrà fine non tanto la sentenza finale quanto la sua stessa ultima decisione di non piegarsi all'abiura.

Non possediamo il testo dell'abiura che gli veniva proposta, e non sappiamo quindi quali fossero i capi di imputazione che gli si richiedeva di abiurare. Ma è probabile che esso contenesse tutte le accuse di carattere disciplinare e teologico vero e proprio - cioè quelle di apostasia, soggiorno in terra di eretici, vita libertina, bestemmie, i dubbi sull'incarnazione e la Trinità - oltre alle accuse filosofiche: la critica all'idea di creazione, la dottrina dell'anima universale, la teoria copernicana del moto terrestre, la teoria dell'esistenza dei preadamiti.

Niccolò Copernico elabora la teoria eliocentrica in una litografia di Jean-Leon Huens

Sentenza

Il 16 settembre 1599, Bruno dichiara di essere disposto all'abiura.
Contemporaneamente però egli presentava a Clemente VIII un memoriale in cui rimetteva in discussione tutte le sue ritrattazioni, negava il carattere ereticale delle proposizioni contestategli, riapriva in sostanza tutta la discussione. A partire da quel momento, all'imputato fu concesso un termine perentorio di quaranta giorni per pentirsi e ritrattare. Il 17 novembre, fu emanata la sentenza, che condannava Bruno come eretico impenitente.

In una successiva visita in carcere, il 21 dicembre, Bruno fu nuovamente invitato a ritrattare, e questa volta rispose con grande fermezza di non avere nulla da ritrattare
Ci furono altri interventi del S. Uffizio, per opera di due confratelli domenicani del Bruno, il generale Beccaria e il procuratore Isaresi; che incontrarono da parte del condannato un atteggiamento di contrapposizione molto netto. Bruno affermava di non aver mai sostenuto proposizioni ereticali, e che erano i suoi giudici ad avere interpretato in questo senso le sue dottrine. Egli si dichiarava disposto a difendere e discutere contro tutti i teologi le sue dottrine. Queste affermazioni posero fine al processo.

L'8 febbraio, la sentenza fu letta al condannato
I suoi scritti dovevano essere bruciati in Piazza S. Pietro e inseriti nell'Indice dei libri proibiti.

Bruno ascoltò in ginocchio la sentenza e che poi si alzò ed esclamò rivolto ai suoi giudici la frase rimasta leggendaria: «Tremate più voi nel pronunziare questa sentenza che io nell'ascoltarla»›
La lettera prosegue nel raccontare l'esecuzione: «Oggi - scrive - è stato portato al rogo, e quando gli veniva mostrata, ormai sul punto di morte, l'immagine del Salvatore, la rifiutava con volto torvo e sprezzante. E così è morto miseramente bruciato per andare, credo, a raccontare agli altri mondi immaginati dalla sua fantasia come di solito sono trattati a Roma gli empi e i bestemmiatori»
Per dirla con Luigi Firpo, «non piegò all'orrore del rogo e rese, intera, la sua testimonianza»



Questa Chiesa ha condannato Bruno al rogo, e ce lo ha mandato imbavagliato perché non «bestemmiasse» durante il supplizio o perché non proclamasse le sue verità al mondo. Secondo il diritto del tempo, da lei stessa costruito e codificato, la Chiesa considerava suo diritto e dovere condannarlo.

Il pensiero di Bruno

Bruno sarebbe stato determinato al rientro in Italia da un preciso programma politico religioso, da lui elaborato soprattutto negli ultimi anni, durante il suo soggiorno in Germania. Al centro del suo progetto era l'instaurazione della pace religiosa in Europa, attraverso la riduzione del mondo ad una sola religione. Questa religione non era il calvinismo, a Bruno radicalmente estraneo e da lui visto con grande ostilità, bensì una religione etica e filosofica, priva di dogmi e di eresie, ma fondamentalmente cattolica. Era quella cattolica, infatti, la religione che Bruno considerava, nonostante tutto, la migliore delle religioni, quella che «gli piaceva più dell'altre»,

Che Bruno si ponesse come il fondatore di una nuova setta era un fatto emerso al processo, nell'accusa rivoltagli da molti dei testimoni di aver creato una setta nuova, quella dei giordanisti. Per la verità, non sembra dai verbali che i giudici dedicassero a quest'accusa particolare attenzione. Essi erano molto più interessati a definire i rapporti di Bruno con le sette esistenti, cioè con i protestanti, che ad inseguire utopie religiose non realizzate.

La pacificazione religiosa, in un'Europa dilaniata dalle guerre di religione, era in realtà in quegli ultimi decenni del Cinquecento un problema urgente e assai sentito. Sulla necessità di pacificare i conflitti religiosi, di trovare una strada per la fine delle guerre, erano d'accordo tutti coloro che non si schieravano, nel conflitto, da una parte o dall'altra, tutti coloro che non lottavano per la vittoria finale dell'uno o dell'altro dei due partiti.

L'avversione di Bruno verso il protestantesimo aveva radici più profonde dell'infelice esperienza ginevrina o dei conflitti con Chiese e pastori intolleranti in Germania. Erano le basi teoriche della Riforma ad essere profondamente distanti dal pensiero di Bruno. In particolare, l'idea della giustificazione per fede, a cui Bruno è decisamente ostile.

La forza dell’amore

Per Bruno, la filantropia, l'amore tra gli uomini, è il fondamento del viver sociale, secondo quella formula, a lui cara, che vieta di fare agli altri il male che non si vuole sia fatto a noi stessi. 

Una formula che si congiungeva con la sua avversione per il protestantesimo, per quella dottrina della giustificazione per sola fede che minava, a suo avviso, le basi della società e che, come in Inghilterra, distruggeva la rete di solidarietà sociale senza sostituirvi nulla di nuovo.

Una religione intellettuale, sostanzialmente deistica, fondata sull'idea filantropica dell'amore reciproco fra tutti gli uomini, quale egli descriveva nel 1588 nella dedica del suo libello contro i matematici all'imperatore Rodolfo II. Un tema, questo dell'amore, decisamente magico ed ermetico. L'amore è infatti il vincolo universale che tiene insieme le forze della natura, «che concilia i contrari e unifica il molteplice nell'uno»
Nell'alternanza di tenebre e luce che lo regola, il mondo è ora immerso nelle tenebre e nelle lotte settarie.

Di qui, la necessità di porre fine alle guerre tra gli uomini, di ricostituire la legge dell'amore, di esaltare la libertà interiore dell'uomo contro le costrizioni e la forza.

Tentata riabilitazione 

Wojtyla, nel quadricentenario della morte del filosofo campano, ha affidati al cardinale Sodano il compito di esprimere la posizione attuale della Chiesa cattolica che può essere così sintetizzata: nessuna riabilitazione per Bruno, nessuna condanna per i suoi carnefici, dispiacere per l’accaduto. Ma stiamo parlando della stessa Chiesa che ha avuto bisogno di quattro secoli per riabilitare Galileo senza allo stesso tempo condannare chi lo costrinse alla pubblica abiura) e di appena qualche anno in meno per bollare la scienza come religione della gmatica da tenere separata dallo Stato.

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Tradizioni molto svizzere

Dopo anni di tentennamenti decido finalmente di partecipare ad un avvenimento che nella Svizzera tedesca é assolutamente irrinunciabile: la festa federale che si tiene ogni tre anni. Oggi saró circondato da svizzeri che fanno cose molto svizzere. Moltissime tradizioni svizzere in questo disegno creato appositamente per la festa federale 2025, se volgiamo cercare il pelo nell'uovo manca l'Hornuss La prima cosa che noto già nell’avvicinamento sul treno é il consumo di birre in lattina con conseguente coda davanti alle toilette, questo anche se ci troviamo a primo mattino I più impavidi sortiscono dagli zainetti i bicchierini da cichett e brindano a non meglio identificate entità. Il lieve aroma di schnapps alle prugne si diffonde nell’area del vagone. Seguono racconti gogliardici accompagnati da grasse risate. Purtroppo non conosco bene l’idioma svizzerotedesco e non riesco a percepire se il genere di sense of humor degli allegri compagni di viaggio farebbe sganasciare pure me....

Anima di donna dannata scovata!

Due anni! Due anni per trovare questo misterioso ed unico quadro nel suo genere in terra ticinese. O almeno che io sappia. Anonimo l’autore mentre il titolo che lo accompagna recita “ anima di donna dannata ”. Purtroppo é andata persa la fonte dove ho preso questa informazione così come una foto piuttosto sfuocata dell'opera. Impossibile trovare il quadro in rete. Non restava che trovarlo in carne e ossa.  Oggi con grande piacere lo schiaffo bellamente dietro il mio faccione sotto qualche riga di testo introduttivo con tanto di indicazione nella didascalia di dove si può ammirare.  Così come a Parigi ci si selfa davanti alla torre Eiffel ad Ascona lo si fa davanti ad anime dannate Toh! “Anima di donna dannata», tela di autore anonimo della prima metà del Seicento (Ascona, Museo parrocchiale presso l’oratorio dei santi Fabiano e Sebastiano ). P.S. E fattelo un selfie ogni tanto...si cazzo! Oggi si! Mi sembra di essere il cacciatore che si fa fotografare con il cervo subito dopo...

Strada dei banchi e lago di Sabbioni

La strada dei banchi per un airolese é un classico, anzi un must. È la strada che corre in alto sul fianco della montagna lungo tutta la valle Bedretto. È esattamente l'equivalente della strada alta, quella della "famosa canzone" di Nella Martinetti, ma dall'altro versante della valle Bedretto. Oggi in aggiunta un bonus, che si rivela una perla che impreziosisce e di molto il giro, una deviazione al lago di Sabbioni. La strada dei banchi La strada dei banchi rispetto all strada alta presenta delle differenze sostanziali, ha molta poca ombra, é molto meno frequentata e all'apparenza potrebbe risultare più monotona. Per buona parte la strada é costituita da una carrabile che serve per collegare le varie alpi, poi ad un certo punto diventa sentiero, più precisamente in vista dell'arrivo del riale di Ronco che presente l'unico vero e proprio strappo del percorso. Come dicevo la strada dei banchi é un must per un Airolese, in pratica questa strada porta ai pied...

Chasa Chalavaina

Non son solito fare post dedicati agli alberghi, ma questo, come l’ hotel Dakota,  riporta eventi storici e merita una menzione  a parte. Chi entra in questa casa respira la storia e per uno come me non c'é nulla di più entusiasmante L'albergo sulla centralissima piazza di Müstair. Il monastero é a circa 100 passi di distanza Sopra la porta tutta a destra la mia stanza per una notte Nel 1254, la Chasa Chalavaina fu menzionata per la prima volta come locanda.  Questa casa è unica perché rappresenta l'hotel più antico della Svizzera.  1930 (?) La locanda, situata nella strada principale di Müstair, si trova a pochi passi dal monastero di St. Johann, patrimonio dell'Unesco. L'hotel comprende 18 camere, un ristorante, una cucina "colorata" di nero dalla fuliggine e un ampio giardino. Dove un tempo dormivano galline, gatti e capre, oggi ci sono camere per gli ospiti. Le stanze sono in parte arredate con mobili in legno secolari e in tutta la casa si trovano ute...

Il Dazio Grande e la via delle genti

Orson Wells afferma che gli svizzeri in 500 anni sono riusciti a creare ben poco, in particolare: "In Italia sotto i Borgia, per trent'anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos'hanno prodotto? Gli orologi a cucù." Orson Wells - Il terzo uomo - fim 1949 Possiamo tranquillamente affermare che gli urani hanno seguito la stessa falsa riga per quanto riguarda il baliaggio di Leventina: in oltre 300 anni sono riusciti “solo” a migliorare la viabilità presso la gola del piottino (e di conseguenza fabbricarci il redditizio Dazio grande) . Le virgolette sul solo stanno comunque a sottolineare la difficoltà di costruire una strada in quel punto, questo senza nulla togliere alla difficoltà nel costruire un orologio a cucù che meritava forse anch’esso sarcasticamente le stesse virgolette nella battuta di Well...

Sulla strada per Beromünster

Domenica 10 agosto 2025. Sono seduto su di un bus in stazione a Lucerna. A momenti partirà e in men che non si dica lascerà la città per addentrarsi nelle campagne lucernesi. Ed é proprio questo che amo, essere portato in quello che nel film Trainspotting viene definito “il nulla”. La mia esplorazione oggi mi porterà da una cappella in piena campagna fino al villaggio di Beromünster. La cappella e il nome del villaggio posto come traguardo intrigano (Beromünster si chiamava fino al 1934 semplicemente Münster, monastero). Sono 7 km completamente piatti in una rovente giornata d’estate. Mi aspetto di vedere forse qualche giocatore di golf ad inizio percorso per poi isolarmi completamente tra campi e boschi fino all’arrivo, la tappa di per se non ha nulla che attiri le grandi masse, in Svizzera Mobile non fa nemmeno parte di un percorso a tema. Ma oggi per stare nella pace occorre ricorrere a questi tragitti di “seconda fascia”. La vera gioia sta nell’apprezzare quello che la natura o ...

Curon sul lago di Resia

Diciamo subito che io sappia non esistono altri Curon per cui si necessita aggiungere la precisazione “sul lago di Resia”. La scelta di aggiungere l’indicazione del lago é per facilitare la messa a fuoco del lettore. Se poi vogliamo esagerare sarebbe bastato dire “dove c’è la chiesa sommersa ed emerge solo il campanile." Sarebbe poi bastato aggiungere due foto del caso, da due angolazioni diverse e chiuderla lì, verso nuove avventure. Ma sarebbe stato “facile”, superficiale e maledettamente incompleto. Se il campanile compare un po’ ovunque, sulle portiere dei veicoli della municipalità agli ingombranti souvenir (vedi sotto) un motivo ci sarà.  Il classico dei classici. E non é legato all’aspetto “wow” che questo edificio immerso in uno scenario idilliaco suscita alla prima vista, come se si trattasse di un opera artistica moderna. C’è dell’altro. Basterebbe porsi semplici domande, ad esempio come si é giunti a tutto questo? Un inondazione? Una tragedia? Oppure é una semplice attr...

Kyburg e la vergine di Norimberga

Il tempo passa ma per la vergine di Norimberga presente al castello di Kyburg sembra non incidere, ache se poi vedremo che qualche ritocco l'ha necessitato pure lei. Che poi se ne possano dire finché si vuole ma la vera superstar del castello del castello di Kyburg é lei, proprio come aveva ben visto chi l'acquistò proprio per questo scopo «Vergine di ferro» I visitatori del castello si aspettavano sempre di vedere armi storiche e strumenti di tortura.  Appositamente per loro venivano realizzate delle «vergini di ferro». Matthäus Pfau acquistò il suo esemplare nel 1876 in Carinzia per mettere in mostra «il lato più oscuro del Medioevo».  A quel tempo, le forze conservatrici cercavano di reintrodurre la pena di morte, che era stata abolita poco prima in Svizzera. Attrazione turistica È risaputo che la Vergine di ferro fu inventata nel XIX secolo. Non vi è alcuna prova che in una simile cassa dotata di lame e con una testa di donna sia mai stata uccisa o torturata una persona....

Da Campo Valle Maggia a Bosco Gurin - parte II - Da Cimalmotto al passo Quadrella

Sbuco su Cimalmotto dal sentiero proveniente da Campo Valle Maggia verso mezzogiorno. Non mi aspetto di trovare spunti storici altrettanto avvincenti che a Campo, sarebbe impensabile in così pochi ettari sperare in tanto. Eppure.... Vista da Cimalmotto in direzione di Campo Valle Maggia di cui si intravede il campanile in lontananza Ci sono due elementi geologici che caratterizzano questa parte della valle: la frana che domina la parte inferiore e il pizzo Bombögn che sovrasta la parte superiore. Campo Valle Maggia e Cimalmotto sono l'affettato di questo ipotetico sandwich Chi visita Campo e le sue frazioni con occhio attento non può non rimanere esterrefatto dal contrasto fra la bellezza paesaggistica della zona e la ricchezza dei monumenti storici da un lato e la desolante povertà demografica dall’altro. I motivi sono diversi: innanzitutto Campo, al momento dell’autarchia più dura, era uno dei comuni più popolati della Valmaggia (nel XVIII superava i 900 abitanti; nel 1850 erano...

Mosé Bertoni

C'é una piccola sala nel museo di Lottigna, resta staccata dal complesso principale del museo, una piccola sala che per eventi sfortuiti (si con la "s" davanti) sono riuscito a vedere solo di sfuggita. Però quello che sono riuscito a assaggiare nei pochi momenti mi ha affascinato. Il classico ometto nato in un piccolo villaggio in una valle discosta per poi costruirsi una vita tutt'altro che scontata. Un personaggio amante delle tradizioni svizzere e dei principi anarchici, una combinazione piuttosto bizzarra per non dire incomprensibile. Si capisce fin dai primi momenti che si ha a che fare con un personaggio di nicchia, degno di un approfondimento. Mosè Bertoni verso il 1910 Foto F. Velasquez, Asuncion (Coll. priv.) Mosè Bertoni non è un uomo comune. Giovane irrequieto, dai molteplici interessi, impegnato politicamente tra i liberali innovatori e vicino all'anarchismo, a 27 anni decide di «dare un calcio a questa vecchia Europa» . Non è neppure un emigrante comu...