Credo nelle coincidenze, nel caso, anche se a volte sembra ci sia qualcuno che voglia farmi cambiare idea asserendo che era scritto da qualche parte che dovesse essere così, che é già tutto scritto
Durante la mia breve permanenza a Ginevra sapevo che non avrei potuto “evitarlo” di nuovo; alla fine della visita del museo a lui dedicato nel cuore della città vecchia di Ginevra mi faccio indicare dall'impiegato un libro del filosofo che lo caratterizza ma anche facile da ruminare: la scelta va su "Le fantasticherie di un viandante solitario"
Durante la mia breve permanenza a Ginevra sapevo che non avrei potuto “evitarlo” di nuovo; alla fine della visita del museo a lui dedicato nel cuore della città vecchia di Ginevra mi faccio indicare dall'impiegato un libro del filosofo che lo caratterizza ma anche facile da ruminare: la scelta va su "Le fantasticherie di un viandante solitario"
Così pochi giorni dalla passeggiata virtuale con Butler, poi con Goethe ecco spuntare un terzo passeggiatore, uno già sentito ma mai “affrontato” veramente. E mi bastano un paio di frasi per farmi capire che “oltre al bianco degli occhi” in comune abbiamo di più
Negli anni 1751-1752, subito dopo il successo ottenuto con la pubblicazione del Discours sur les sciences et les arts, Jean-Jacques decide di vivere in povertà, ma soprattutto in indipendenza finanziaria (diventa copista musicale), e non più al servizio dei potenti di questo mondo. Rifiuta persino di essere presentato a corte, privandosi così volontariamente di ogni speranza di pensione.
Questa riforma suntuaria si estende ai suoi effetti personali e al suo stile di vita; la gioia che gli procura l'abbandono dell'orologio diventa a questo proposito simbolica: segna l'ingresso deliberato in un altro tempo, quello della vita meditativa, il tempo della vita interiore, che sarà propriamente il tempo delle Rêveries. Rousseau può così pensare e sognare in tutta libertà, soprattutto durante le sue passeggiate solitarie nel bosco.
L'idea guida di questo testo fondante del pensiero di Rousseau è che l'uomo civilizzato («educato») si è alienato la sua libertà originaria e le sue virtù naturali attraverso il lusso e la corruzione; ne consegue quella schiavitù sociale che conferisce a ogni individuo un valore economico (i nostri politici moderni «valutano gli uomini come mandrie di bestiame?»), a scapito dei costumi e di ogni sentimento patriottico. Non ci sono più cittadini nella città, e il repubblicano Jean-Jacques, che firma «cittadino di Ginevra», non vi trova altro che schiavi.
«Ritirandomi nell'anima mia e recidendo i rapporti esterni che lo rendono esigente, rinunciando ai paragoni e alle preferenze, esso [l'amor proprio] si è accontentato che io fossi buono con me stesso; allora, tornando ad essere amore per me stesso, è rientrato nell'ordine della natura e mi ha liberato dal giogo dell'opinione. Da allora ho ritrovato la pace dell'anima e quasi la felicità»
L'opinione degli uomini non conta più: fin dalle prime pagine vengono dichiarati «inutili», senza alcun potere su chi si nutre dei propri pensieri, della propria esistenza:
Le fantasticherie del passeggiatore solitario (in francese Les Rêveries du promeneur solitaire) è un'opera incompiuta e postuma di Jean-Jacques Rousseau scritta tra il 1776 e il 1778.
L'opera, pubblicata postuma, venne scritta nell'ultima fase della vita dello scrittore e filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau. È l'ultimo dei suoi scritti, essendo stata progettata la parte finale probabilmente un paio di settimane prima della sua morte, perciò il lavoro è incompiuto. La sua redazione è stabilita intorno agli ultimi due anni della sua vita, fino al suo rifugio nel castello di Ermenonville presso il marchese René-Louis de Girardin: di natura solitaria e un po' paranoica l'autore, nonostante una reputazione in crescita, fu costretto all'esilio dopo la poca accoglienza dei suoi dialoghi, o forse anche a causa della morte del suo protettore Louis François de Bourbon, principe di Conti, nell'estate 1776.
Scrivo le mie fantasticherie solo per me stesso. Se nei miei ultimi giorni, quando mi avvicinerò alla fine, rimarrò, come spero, nello stesso stato d'animo in cui mi trovo ora, leggerle mi ricorderà la dolcezza che provo nel scriverle e, facendo rivivere così il tempo passato, raddoppierà, per così dire, la mia esistenza.
Ho così imparato per esperienza personale che la fonte della vera felicità è dentro di noi e che non dipende dagli uomini rendere davvero infelice chi sa desiderare di essere felice. Da quattro o cinque anni assaporavo abitualmente quelle delizie interiori che le anime amorevoli e dolci trovano nella contemplazione. Questi rapimenti, queste estasi che provavo talvolta passeggiando solo.
Da alcuni giorni era terminata la vendemmia; i passanti della città si erano già ritirati; anche i contadini lasciavano i campi fino all'inizio dei lavori invernali. La campagna, ancora verde e rigogliosa, ma in parte spogliata delle foglie e già quasi deserta, offriva ovunque un'immagine di solitudine e di avvicinamento dell'inverno. Il suo aspetto suscitava in me un misto di impressioni dolci e tristi, troppo simili alla mia età e al mio destino perché non le applicassi a me stesso. Mi vedevo al tramonto di una vita innocente e sfortunata, l'anima ancora piena di sentimenti vivaci e la mente ancora adornata di alcuni fiori, ma già appassiti dalla tristezza e inariditi dalle preoccupazioni. Solo e abbandonato, sentivo avvicinarsi il freddo delle prime gelate, e la mia immaginazione inaridita non popolava più la mia solitudine di esseri plasmati secondo il mio cuore...
Sospirando, mi dicevo: «Che cosa ho fatto qui? Ero fatto per vivere e muoio senza aver vissuto».
È a quest'epoca che posso datare la mia completa rinuncia al mondo e questo gusto vivo per la solitudine che da quel momento non mi ha più lasciato. L'opera che stavo intraprendendo non poteva realizzarsi che in un ritiro assoluto; richiedeva lunghe e silenziose meditazioni che il tumulto della società non sopporta. Questo mi spinse ad assumere per un certo tempo un'altra maniera di vivere, con la quale in seguito mi trovai così bene che, non avendola interrotta da allora che per forza e per pochi istanti, l'ho ripresa con tutto il mio cuore e mi ci sono rinchiuso senza sforzo appena possibile; e, quando successivamente gli uomini mi hanno indotto a vivere solo, ho trovato che, sequestrandomi per rendermi miserabile, avevano fatto di più per la mia felicità di quanto non avessi saputo fare io stesso.
C'è in quest'occupazione oziosa un fascino che non si sente se non nella calma piena delle passioni, ma che allora è sufficiente da solo per rendere la vita felice e soave; però, non appena vi si mescola un motivo di interesse o di vanità, sia per riempire dei posti o per scrivere dei libri, appena si vuole imparare solo per istruire, si va in cerca di erbe medicinali solo per diventare autore o professore, tutto questo dolce fascino svanisce, non si vedono più nelle piante che strumenti delle nostre passioni, non si attinge più alcun piacere autentico nello studiarle, non si vuole più sapere, ma mostrare che si sa e nei boschi si è come sul palcoscenico del mondo, occupati dalla preoccupazione di farsi ammirare.
Non rivedrò più questi bei paesaggi, queste foreste, questi laghi, questi boschetti, queste rocce, queste montagne, il cui aspetto ha sempre colpito il mio cuore; ma, adesso, che non posso più correre in questa terra felice, non ho che da aprire il mio erbario e immergermi presto in esso. I frammenti delle piante che vi ho raccolto bastano per ricordarmi tutto questo magnifico spettacolo. Questo erbario è per me un diario di erborizzazione, che me li fa rivivere con un nuovo fascino, e produce l'effetto di un ottico che li dipingesse daccapo davanti ai miei occhi
È la catena delle idee accessorie che mi procura l'attaccamento alla botanica. Riunisce e ricorda alla mia immaginazione tutte le idee che la lusingano di più; i prati, le acque, i boschi, la solitudine, la pace soprattutto, e il riposo che si trova in mezzo a tutto ciò, sono ripercorsi attraverso essa incessantemente dalla mia memoria. Mi fa dimenticare le persecuzioni degli uomini, il loro odio.
"La terra offre all'uomo l'unico spettacolo al mondo che i suoi occhi e il suo cuore non si lasciano mai sfuggire."
E ancora
"Eccomi qui, solo al mondo, senza più fratelli, vicini, amici, compagnia se non me stesso."
E ancora se non bastasse
«Non conosco modo più piacevole di viaggiare che andare a cavallo se non quello di andare a piedi»
(Emile 1762, Libro V),
inoltre, camminare stimolava la sua ispirazione:
«Camminare ha qualcosa che anima e ravviva le mie idee: non riesco quasi a pensare quando resto fermo»
(Le Confessioni, Libro IV).
Rullo di tamburi…Jean Jacques Rousseau
Svizzera, Jean-Jacques Rousseau perseguitato e senza un posto dove stare
Louis-François Charon (1783 - 1831), litografo
Frédéric Bouchot (1798 - circa 1860-1870), disegnatore
Negli anni 1751-1752, subito dopo il successo ottenuto con la pubblicazione del Discours sur les sciences et les arts, Jean-Jacques decide di vivere in povertà, ma soprattutto in indipendenza finanziaria (diventa copista musicale), e non più al servizio dei potenti di questo mondo. Rifiuta persino di essere presentato a corte, privandosi così volontariamente di ogni speranza di pensione.
Questa riforma suntuaria si estende ai suoi effetti personali e al suo stile di vita; la gioia che gli procura l'abbandono dell'orologio diventa a questo proposito simbolica: segna l'ingresso deliberato in un altro tempo, quello della vita meditativa, il tempo della vita interiore, che sarà propriamente il tempo delle Rêveries. Rousseau può così pensare e sognare in tutta libertà, soprattutto durante le sue passeggiate solitarie nel bosco.
L'idea guida di questo testo fondante del pensiero di Rousseau è che l'uomo civilizzato («educato») si è alienato la sua libertà originaria e le sue virtù naturali attraverso il lusso e la corruzione; ne consegue quella schiavitù sociale che conferisce a ogni individuo un valore economico (i nostri politici moderni «valutano gli uomini come mandrie di bestiame?»), a scapito dei costumi e di ogni sentimento patriottico. Non ci sono più cittadini nella città, e il repubblicano Jean-Jacques, che firma «cittadino di Ginevra», non vi trova altro che schiavi.
Fantasia
Ho concluso che questo stato mi era gradito più come una sospensione dei dolori della vita che come un godimento positivo. Jean-Jacques dichiara, a modo di prefazione: «tutta la mia vita non è stata altro che una lunga fantasticheria divisa in capitoli dalle mie passeggiate quotidiane», associa la stesura delle fantasticherie a una lotta contro la decadenza e la morte - «fredde e tristi fantasticherie»
La rêverie non è altro che «reminiscenza» (ovvero ricordi involontari e incontrollabili) in un corpo in declino. La rêverie rousseauista parte fondamentalmente da una ricerca della felicità personale, che inizia con l'ozio, il far niente.
La fantasticheria rimane per lui il luogo di un godimento in cui l'individuo, distaccato dagli obblighi esterni, ritrova un rapporto autentico con un mondo primitivo ricomposto dal pensiero.
Questo amore per se stessi è teorizzato molto presto nell'opera di Rousseau. Una nota del Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini (1754) stabilisce chiaramente la distinzione tra amor proprio e amore per se stessi:
«L'amore di sé è un sentimento naturale che spinge ogni animale a provvedere alla propria conservazione e che, guidato nell'uomo dalla ragione e modificato dalla pietà, produce l'umanità e la virtù. L'amor proprio è solo un sentimento relativo, artificiale e nato nella società, che spinge ogni individuo a fare più caso di sé che di qualsiasi altro».
«Ritirandomi nell'anima mia e recidendo i rapporti esterni che lo rendono esigente, rinunciando ai paragoni e alle preferenze, esso [l'amor proprio] si è accontentato che io fossi buono con me stesso; allora, tornando ad essere amore per me stesso, è rientrato nell'ordine della natura e mi ha liberato dal giogo dell'opinione. Da allora ho ritrovato la pace dell'anima e quasi la felicità»
L'opinione degli uomini non conta più: fin dalle prime pagine vengono dichiarati «inutili», senza alcun potere su chi si nutre dei propri pensieri, della propria esistenza:
«Solo per il resto della mia vita, poiché trovo solo in me stesso consolazione, speranza e pace, non devo né voglio occuparmi più che di me stesso»
Le passeggiate
Le fantasticherie del passeggiatore solitario (in francese Les Rêveries du promeneur solitaire) è un'opera incompiuta e postuma di Jean-Jacques Rousseau scritta tra il 1776 e il 1778.
L'opera, pubblicata postuma, venne scritta nell'ultima fase della vita dello scrittore e filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau. È l'ultimo dei suoi scritti, essendo stata progettata la parte finale probabilmente un paio di settimane prima della sua morte, perciò il lavoro è incompiuto. La sua redazione è stabilita intorno agli ultimi due anni della sua vita, fino al suo rifugio nel castello di Ermenonville presso il marchese René-Louis de Girardin: di natura solitaria e un po' paranoica l'autore, nonostante una reputazione in crescita, fu costretto all'esilio dopo la poca accoglienza dei suoi dialoghi, o forse anche a causa della morte del suo protettore Louis François de Bourbon, principe di Conti, nell'estate 1776.
Per capire bene le passeggiate di Rousseau, bisogna immaginarsi come era Parigi nel 1776-1777: divisa in venti quartieri, la capitale era circondata da una cintura di mura (o Grands Boulevards) sulla rive droite e dai Nouveaux Boulevards sulla rive gauche, dagli Invalides fino all'Hôpital général (oggi chiamato la Salpêtrière). I parigini andavano in vacanza su questi boulevards, nei villaggi dei dintorni (Charonne, Chaillot, Passy), sulle rive della Senna e sui grandi viali che portano al Bois de Boulogne, ovvero il Cours-la-Reine (il viale che costeggia la Senna, dalle Tuileries all'attuale Place de l'Alma) e gli Champs-Élysées. Secondo le indicazioni di Rousseau nelle Reveries, è possibile ricostruire gli itinerari della seconda, sesta e nona passeggiata.
Prima passeggiata - In contatto con l'anima
Mi immergo completamente nella dolcezza di conversare con la mia anima, poiché è l'unica cosa che gli uomini non possono portarmi via. Se a forza di riflettere sulle mie disposizioni interiori riuscirò a metterle in ordine e a correggere il male che può esservi rimasto, le mie meditazioni non saranno del tutto inutili e, anche se non sarò più buono a nulla sulla terra, non avrò perso del tutto i miei ultimi giorni. Il tempo libero delle mie passeggiate quotidiane è stato spesso riempito da contemplazioni affascinanti di cui mi dispiace aver perso il ricordo. Metterò per iscritto quelle che mi verranno ancora in mente; ogni volta che le rileggerò, potrò goderne nuovamente. Dimenticherò le mie disgrazie, i miei persecutori, i miei oltraggi, pensando al prezzo che il mio cuore ha meritato.
Scrivo le mie fantasticherie solo per me stesso. Se nei miei ultimi giorni, quando mi avvicinerò alla fine, rimarrò, come spero, nello stesso stato d'animo in cui mi trovo ora, leggerle mi ricorderà la dolcezza che provo nel scriverle e, facendo rivivere così il tempo passato, raddoppierà, per così dire, la mia esistenza.
Seconda passeggiata - Quello che la natura ha voluto
Ho deciso di tenere un registro fedele delle mie passeggiate solitarie e delle fantasticherie che le riempiono, quando lascio totalmente libera la mente e le mie idee di seguire la loro inclinazione senza resistenza né preoccupazione. Queste ore di solitudine e di meditazione sono le sole della giornata in cui sono pienamente me stesso e in me, senza distrazioni, senza ostacoli, e dove posso veramente dire di essere quello che la natura ha voluto.Da alcuni giorni era terminata la vendemmia; i passanti della città si erano già ritirati; anche i contadini lasciavano i campi fino all'inizio dei lavori invernali. La campagna, ancora verde e rigogliosa, ma in parte spogliata delle foglie e già quasi deserta, offriva ovunque un'immagine di solitudine e di avvicinamento dell'inverno. Il suo aspetto suscitava in me un misto di impressioni dolci e tristi, troppo simili alla mia età e al mio destino perché non le applicassi a me stesso. Mi vedevo al tramonto di una vita innocente e sfortunata, l'anima ancora piena di sentimenti vivaci e la mente ancora adornata di alcuni fiori, ma già appassiti dalla tristezza e inariditi dalle preoccupazioni. Solo e abbandonato, sentivo avvicinarsi il freddo delle prime gelate, e la mia immaginazione inaridita non popolava più la mia solitudine di esseri plasmati secondo il mio cuore...
Sospirando, mi dicevo: «Che cosa ho fatto qui? Ero fatto per vivere e muoio senza aver vissuto».
Terza passeggiata - «Divento vecchio imparando sempre».
"Mentre invecchio continuo a imparare ogni giorno molte cose" Solone ripeteva spesso questo verso nella sua vecchiaia. Ha un senso che potrei dire anche nella mia; ma è una scienza molto triste quella che l'esperienza mi ha fatto acquisire in vent'anni: l'ignoranza è ancora preferibile. L'avversità è senza dubbio un grande maestro, ma fa pagare caro le sue lezioni e spesso il profitto che se ne ricava non vale il prezzo che è costato. Del resto, prima di aver acquisito tutto questo con lezioni così tardive, l'opportunità di usarne il frutto è già passata.
La giovinezza è il tempo per studiare la saggezza; la vecchiaia è il tempo per praticarla. L'esperienza insegna sempre, lo ammetto; ma è utile solo per il tempo che ci resta da vivere. È forse il momento di imparare come si sarebbe dovuto vivere quando è giunta l'ora di morire?
A che serve imparare a guidare meglio il proprio carro quando si è alla fine della carriera? Non resta altro da pensare che a come uscirne. Lo studio di un anziano, se ne ha ancora da fare, è solo quello di imparare a morire, ed è proprio quello che si fa meno alla mia età, si pensa a tutto tranne che a questo. Tutti gli anziani tengono alla vita più dei bambini e ne escono con meno grazia dei giovani. Questo perché tutti i loro lavori sono stati per questa stessa vita e alla fine vedono che hanno perso le loro fatiche.
Tutte le loro cure, tutti i loro beni, tutti i frutti delle loro faticose veglie, lasciano tutto quando se ne vanno. Non hanno pensato a nulla da acquisire durante la loro vita che potessero portare con sé nella morte.
Quanto a me, quando ho desiderato imparare, era per sapere io stesso e non per insegnare; ho sempre creduto che prima di istruire gli altri bisognasse cominciare con il sapere abbastanza per se stessiÈ a quest'epoca che posso datare la mia completa rinuncia al mondo e questo gusto vivo per la solitudine che da quel momento non mi ha più lasciato. L'opera che stavo intraprendendo non poteva realizzarsi che in un ritiro assoluto; richiedeva lunghe e silenziose meditazioni che il tumulto della società non sopporta. Questo mi spinse ad assumere per un certo tempo un'altra maniera di vivere, con la quale in seguito mi trovai così bene che, non avendola interrotta da allora che per forza e per pochi istanti, l'ho ripresa con tutto il mio cuore e mi ci sono rinchiuso senza sforzo appena possibile; e, quando successivamente gli uomini mi hanno indotto a vivere solo, ho trovato che, sequestrandomi per rendermi miserabile, avevano fatto di più per la mia felicità di quanto non avessi saputo fare io stesso.
Quinta passeggiata - La definizione di felicità
L'esercizio che avevo fatto nella mattinata e il buon umore che ne era inseparabile mi rendevano il riposo della cena molto piacevole; ma quando si prolungava troppo e il tempo bello mi invitava, non potevo aspettare così a lungo e, mentre ero ancora a tavola, mi defilavo e andavo a gettarmi da solo in una barca che mi portava in mezzo al lago quando l'acqua era calma; e lì distendendomi nella barca, gli occhi rivolti al cielo, mi lasciavo andare e procedere alla deriva lentamente secondo la corrente, qualche volta per lunghe ore, immerso in mille fantasticherie confuse, ma deliziose e che, senza aver alcun oggetto ben determinato né fisso, non cessavano d'essere, secondo me, cento volte preferibili rispetto a tutto quello che avevo trovato di più dolce in quelli che si chiamano piaceri della vita.Ho notato nelle vicissitudini di una lunga vita che i periodi delle gioie più dolci e dei piaceri più vivaci non sono tuttavia quelli il cui ricordo mi attira e mi tocca di più.
Questi brevi momenti di delirio e di passione, per quanto vivaci possano essere, non sono tuttavia, e per la loro stessa vivacità, che dei punti molto distanziati nella linea della vita.
Sono troppo rari e troppo rapidi per costituire uno stato; e la felicità che il mio cuore rimpiange non è affatto composta di attimi fuggenti, ma uno stato semplice e permanente che non ha niente di vivace in se stesso, ma la cui durata accresce il fascino, al punto di trovarvi infine la felicità suprema.
Tutto è in un flusso continuo sulla terra. Niente vi conserva una forma costante e immobile e le nostre affezioni che si attaccano alle cose esteriori, passano e cambiano necessariamente come esse. Sempre, davanti o dietro di noi, esse ricordano il passato che non è più, o prevengono il futuro, che spesso, non dev'essere affatto: in questo non c'è nulla di solido a cui il cuore si possa attaccare. Qui giù non si ha quasi altro che un piacere effimero; il perché la felicità possa durare, dubito ci sia noto. Nelle nostre gioie più vive, c'è solo un istante nel quale il cuore possa realmente dirci: vorrei che questo istante durasse per sempre. E come si può chiamare felicità un istante fuggitivo che ci lascia ancora il cuore inquieto e vuoto, che ci fa rimpiangere qualcosa prima, o desiderare ancora qualcosa dopo?
Ma se c'è uno stato nel quale l'anima trova una base abbastanza solida per riposarsi completamente e riunirvi tutto il proprio essere, senza aver bisogno di ricordare il passato, né di varcare l'avvenire, dove il tempo non sia alcunché per essa, dove il presente duri per sempre, senza nondimeno segnare la sua durata e senza lasciare traccia di un seguito, senza alcun altro sentimento di privazione né di gioia, né di piacere, né di pena, e ancora di desiderio e di timore che solo quello della nostra esistenza e che questo sentimento da solo possa riempirla totalmente; fin tanto che questo stato duri, colui che vi si trova, può definirsi felice non di una felicità imperfetta, povera e relativa, tale quale colui che si trova nei piaceri della vita, ma di una felicità bastevole, perfetta e piena, che non lascia nell'anima alcun vuoto che senta il bisogno di riempire.
Di cosa si gioisce in una situazione simile? Di nulla al di fuori di sé, di nulla se non di se stesso e della propria esistenza; fin tanto che dura questo stato, si basta a se stessi come Dio. Il sentimento dell'esistenza spogliato di tutt'altra affezione è di per sé un sentimento prezioso di contentezza e pace che basterebbe da solo per rendere quest'esistenza cara e dolce a chi sapesse allontanare da sé tutte le impressioni sensuali e terrestri che vengono a distrarci senza requie e turbare la dolcezza su questa terra.
È vero che queste compensazioni non possono essere sentite da tutte le anime, né in tutte le situazioni. Bisogna che il cuore sia in pace e che nessuna passione venga a turbare la calma. Ci vuole una disposizione d'animo da parte di colui che la prova; come ce ne vuole nel con degli oggetti all'intorno. Non serve né riposo assoluto né troppa agitazione ma un movimento uniforme e moderato che non abbia né scosse, né intervalli. Senza movimento la vita non è che un letargo. Se il movimento è irregolare o troppo forte, risveglia; ricordandoci gli oggetti d'intorno, distrugge il fascino del fantasticare e ci strappa a noi stessi, per rimetterci all'istante sotto il giogo della fortuna e degli uomini, riconsegnandoci al sentimento del nostro malessere.
Ma se c'è uno stato nel quale l'anima trova una base abbastanza solida per riposarsi completamente e riunirvi tutto il proprio essere, senza aver bisogno di ricordare il passato, né di varcare l'avvenire, dove il tempo non sia alcunché per essa, dove il presente duri per sempre, senza nondimeno segnare la sua durata e senza lasciare traccia di un seguito, senza alcun altro sentimento di privazione né di gioia, né di piacere, né di pena, e ancora di desiderio e di timore che solo quello della nostra esistenza e che questo sentimento da solo possa riempirla totalmente; fin tanto che questo stato duri, colui che vi si trova, può definirsi felice non di una felicità imperfetta, povera e relativa, tale quale colui che si trova nei piaceri della vita, ma di una felicità bastevole, perfetta e piena, che non lascia nell'anima alcun vuoto che senta il bisogno di riempire.
Di cosa si gioisce in una situazione simile? Di nulla al di fuori di sé, di nulla se non di se stesso e della propria esistenza; fin tanto che dura questo stato, si basta a se stessi come Dio. Il sentimento dell'esistenza spogliato di tutt'altra affezione è di per sé un sentimento prezioso di contentezza e pace che basterebbe da solo per rendere quest'esistenza cara e dolce a chi sapesse allontanare da sé tutte le impressioni sensuali e terrestri che vengono a distrarci senza requie e turbare la dolcezza su questa terra.
È vero che queste compensazioni non possono essere sentite da tutte le anime, né in tutte le situazioni. Bisogna che il cuore sia in pace e che nessuna passione venga a turbare la calma. Ci vuole una disposizione d'animo da parte di colui che la prova; come ce ne vuole nel con degli oggetti all'intorno. Non serve né riposo assoluto né troppa agitazione ma un movimento uniforme e moderato che non abbia né scosse, né intervalli. Senza movimento la vita non è che un letargo. Se il movimento è irregolare o troppo forte, risveglia; ricordandoci gli oggetti d'intorno, distrugge il fascino del fantasticare e ci strappa a noi stessi, per rimetterci all'istante sotto il giogo della fortuna e degli uomini, riconsegnandoci al sentimento del nostro malessere.
Settima passeggiata - La passione (per la botanica)
Più la solitudine dove vivo è dunque profonda, più è necessario che qualche oggetto ne riempia il vuoto, e quelli che la mia immaginazione rifiuta o che la mia memoria respinge sono sostituiti dalle produzioni spontanee che la terra, non forzata dagli uomini, offre ai miei occhi da tutte le parti. Il piacere di andare in un deserto a cercare nuove piante copre quello di fuggire i miei persecutori; e, giunto in luoghi in cui non vedo alcuna traccia di uomini, respiro più a mio agio, come in un rifugio dove il loro fiato non mi segue più.C'è in quest'occupazione oziosa un fascino che non si sente se non nella calma piena delle passioni, ma che allora è sufficiente da solo per rendere la vita felice e soave; però, non appena vi si mescola un motivo di interesse o di vanità, sia per riempire dei posti o per scrivere dei libri, appena si vuole imparare solo per istruire, si va in cerca di erbe medicinali solo per diventare autore o professore, tutto questo dolce fascino svanisce, non si vedono più nelle piante che strumenti delle nostre passioni, non si attinge più alcun piacere autentico nello studiarle, non si vuole più sapere, ma mostrare che si sa e nei boschi si è come sul palcoscenico del mondo, occupati dalla preoccupazione di farsi ammirare.
Non rivedrò più questi bei paesaggi, queste foreste, questi laghi, questi boschetti, queste rocce, queste montagne, il cui aspetto ha sempre colpito il mio cuore; ma, adesso, che non posso più correre in questa terra felice, non ho che da aprire il mio erbario e immergermi presto in esso. I frammenti delle piante che vi ho raccolto bastano per ricordarmi tutto questo magnifico spettacolo. Questo erbario è per me un diario di erborizzazione, che me li fa rivivere con un nuovo fascino, e produce l'effetto di un ottico che li dipingesse daccapo davanti ai miei occhi
È la catena delle idee accessorie che mi procura l'attaccamento alla botanica. Riunisce e ricorda alla mia immaginazione tutte le idee che la lusingano di più; i prati, le acque, i boschi, la solitudine, la pace soprattutto, e il riposo che si trova in mezzo a tutto ciò, sono ripercorsi attraverso essa incessantemente dalla mia memoria. Mi fa dimenticare le persecuzioni degli uomini, il loro odio.
Ottava passeggiata - Il piacere della solitudine
Pressato da tutti i lati, dimoro in equilibrio, perché non mi attacco più a nulla, non mi appoggio che su me stesso.In tutti i mali che ci capitano guardiamo più all'intenzione che all'effetto: una tegola che cade da un tetto essenzialmente può ferirci ma non ci rattrista quanto una pietra lanciata di proposito da una mano malintenzionata; il colpo non va a segno qualche volta, ma l'intenzione non manca mai la propria aspettativa.
I luoghi in cui non vedo nessuno non penso più alla mia sorte; non la sento più, non soffro più, sono felice senza distrazioni, senza ostacoli.
Abito nel centro di Parigi: uscendo da casa respiro la campagna e la solitudine; ma bisogna andarla a cercare così lontano che, prima di poter respirare a mio agio, trovo sul mio cammino mille oggetti che mi stringono il cuore, e metà della giornata trascorre in angosce prima che io abbia raggiunto il rifugio che vado cercando. Felice nondimeno quando mi si lascia completare il mio cammino! Il momento in cui sfuggo al corteo dei malevoli è delizioso e, appena mi vedo sotto gli alberi, in mezzo al verde credo di vedermi nel paradiso terrestre e mi gusto un piacere interiore vivo come se fossi il più felice dei mortali.
Se ho fatto qualche progresso nella conoscenza dell'animo umano, è grazie al piacere che provavo nel vedere e osservare i bambini. Questo stesso piacere nella giovinezza ha posto una sorta di ostacolo, giacché giocavo con i bambini così allegramente e così di buon grado che non immaginavo di studiarli. Ma, quando invecchiando, ho visto che la mia faccia cadente gli inquietava, mi sono astenuto da importunarli; ho preferito privarmi di un piacere che turbare la loro gioia; e, contento allora di soddisfarmi guardando i loro giochi e le loro piccole giostre, ho trovato una compensazione al mio sacrificio nelle luci che queste osservazioni mi hanno fatto acquisire sui primi e autentici movimenti della natura, dei quali tutti noi 'sapienti' non conosciamo nulla.
I luoghi in cui non vedo nessuno non penso più alla mia sorte; non la sento più, non soffro più, sono felice senza distrazioni, senza ostacoli.
Abito nel centro di Parigi: uscendo da casa respiro la campagna e la solitudine; ma bisogna andarla a cercare così lontano che, prima di poter respirare a mio agio, trovo sul mio cammino mille oggetti che mi stringono il cuore, e metà della giornata trascorre in angosce prima che io abbia raggiunto il rifugio che vado cercando. Felice nondimeno quando mi si lascia completare il mio cammino! Il momento in cui sfuggo al corteo dei malevoli è delizioso e, appena mi vedo sotto gli alberi, in mezzo al verde credo di vedermi nel paradiso terrestre e mi gusto un piacere interiore vivo come se fossi il più felice dei mortali.
Nona passeggiata - La chimera della vita
La felicità è uno stato permanente che non sembra fatto quaggiù per l'uomo: sulla terra tutto è in un flusso continuo che non permette a nulla di prendere una forma costante. Tutto cambia intorno a noi: cambiamo noi stessi e nessuno può essere certo che amerà domani quello che ama oggi; così tutti i nostri progetti di felicità per questa vita sono delle chimere. Godiamo della contentezza dello spirito quando arriva, guardiamoci dall'allontanarla per un nostro errore; ma non facciamo progetti per incatenarla; giacché questi progetti sono pure follie: ho visto pochi uomini felici, forse nessuno; ma ho visto spesso dei cuori contentiSe ho fatto qualche progresso nella conoscenza dell'animo umano, è grazie al piacere che provavo nel vedere e osservare i bambini. Questo stesso piacere nella giovinezza ha posto una sorta di ostacolo, giacché giocavo con i bambini così allegramente e così di buon grado che non immaginavo di studiarli. Ma, quando invecchiando, ho visto che la mia faccia cadente gli inquietava, mi sono astenuto da importunarli; ho preferito privarmi di un piacere che turbare la loro gioia; e, contento allora di soddisfarmi guardando i loro giochi e le loro piccole giostre, ho trovato una compensazione al mio sacrificio nelle luci che queste osservazioni mi hanno fatto acquisire sui primi e autentici movimenti della natura, dei quali tutti noi 'sapienti' non conosciamo nulla.
Nell'estrema miseria ci si sente ricchi con poco: un mendicante che trova uno scudo ne è più colpito di quanto lo sarebbe un ricco trovando una borsa d'oro.
È per me anche un piacere disinteressato che non dipende dalla consistenza della mia partecipazione: giacché nelle feste del popolo, vedere dei visi allegri mi ha sempre attratto fortemente.Parentesi sugli svizzeri
Quest'aspettativa tuttavia è stata spesso frustrata in Francia perché questa nazione, che sostiene di essere allegra, mostra poco questa gaiezza negli sguardi. Una volta andavo spesso in delle trattorie con balera per vedervi danzare il menu del popolo; ma le sue danze erano così cupe, il suo andamento così dolente, così sinistro, che ne uscivo più contrito che rallegrato.Ma a Ginevra e in Svizzera, dove il riso non degenera senza sosta in folli malignità, tutto respira contentezza e allegria nelle feste. La miseria non vi porta affatto il suo aspetto odioso. Il fasto non vi mostra nemmeno la sua insolenza. Il benessere, la fraternità, la concordia vi dispongono i cuori a espandersi e spesso, nei trasporti di una gioia innocente, gli sconosciuti si accostano, si baciano e si invitano a godere di concerto i piaceri del giorno. Per gioire io stesso di queste amabili feste, non ho bisogno di capire. Mi basta vederle e vedendole, ne divengo partecipe; e, tra tanti visi allegri, sono proprio sicuro che non ci sia un cuore più allegro del mio.
La natura idealizzata
L'immagine degli Svizzeri visti come un popolo di contadini e pastori viene plasmata nel XVIII secolo. I resoconti di viaggi e i letterati elevano il Paese a modello di vita semplice in armonia con la natura. L'esaltazione delle Alpi da parte di Haller e il ritorno alla natura preco-nizzato da Rousseau diffondono questa idealizzazione anche in Svizzera.
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