Tutti questi post su Roma sono estremamente incompleti, in pochi giorni sono stato bombardato e sotterrato di immagini e informazioni e non posso che riportare le più evidenti, fremmentarie, rapinate, incomplete ma anche semplicemente meravigliose.
Mi sento in colpa, mi scuso con la Città Eterna.
Questo non mi impedisce di presentarmi con largo anticipo dall'apertura dei musei capitolini, tempo che impiego più che volentieri per osservare le opere d'arte al suo esterno.
Mattina inoltrata al Campidoglio.
La foto sopra é stata scatta dal numero 1
A. Palazzo senatorio
B. Palazzo dei conservatori
C. Palazzo nuovo
1. Cordonata
2. Statua colossale di Dioscuro
3. Copia della Statua in bronzo di Marco Aurelio
4. Statua del fiume Nilo
5. Statua del fiume Tevere
6. Fontana - Statua della Dea Roma
Copia della Statua in bronzo di Marco Aurelio
Poi mi metto in coda, anzi creo la coda, meglio ancora: io sono la coda! Sono davanti, sono il primo, e quando il museo apre lo faccio notare alla cassa, lo dico ad alta voce in un senso di vittoria, in tipico stile Mr. Bean. Sono raggiante.
Un buon suggerimento a chi ama i musei in Italia; andateci presto appena aprono, che prima che si mette in movimento il carrozzone dei museari del pomeriggio inoltrato.
Ed é subito colosso
La statua colossale di Costantino I, opera composita in marmo e bronzo dorato, fu una delle opere più importanti della scultura romana tardo-antica, alta ben 12 metri.
I suoi resti (la testa e parti frammentarie del corpo) si trovano al Palazzo dei Conservatori a Roma (Musei capitolini) e sono databili tra il 313 (anno in cui la basilica venne dedicata a Costantino I) e il 324 (quando nei ritratti dell'imperatore romano comincia ad apparire il diadema). La statua fu rinvenuta al tempo di papa Innocenzo VIII, nel 1486.
Tumulazioni
Leggo qua e la: In questa onesta tomba, giace serena Glyconis: era dolce nel nome, ma ancor più dolce nell'anima. Non si curò mai degli onori della vita per lei (troppo) austeri, ma piuttosto sfrenati e piacevoli, (preferi) essere inebriata dal vino (Bacchus) ed eseguire canti con semplicita. Spesso come divertimento lei stessa intrecciava con dolce amore morbide corone (di fiori) per sé e per i suoi Figli che lasció nella pubertà, (figli) che generò fratelli ad immagine dei Castori. Degna si di godere una beata vita eterna, si affretta però dove i fati benigni (ci) chiamano. Publius Mattius Chariton fece (fare il sepolcro) per la benemerita moglie.
Un primo veloce sguardo sui fori
Superba vista sui fori ancora prive delle ordate di turisti, a sinistra l'arco di Settimio Severo 203 a.C.
Questa invece é la vista da chi dal foro osserva verso i musei capitolini; essi si trovano (una parte) nel grande palazzo al centro, la foto dei fori é stata scattata dal puntino rosso. Sotto come appariva il luogo in antichità
Il Marforio
Il nome di questa statua colossale conosciuta fin dal
XII secolo come Marforio, deriva probabilmente dalla collocazione originaria ritenuta essere nel medioevo Martis forum (foro di Marte), nell'area tra il Foro Romano e i Fori Imperiali
L'opera, lunga oltre sei metri, rappresenta verosimilmente la personificazione di Oceano (la divinità che soprintendeva a tutte le acque del mondo) ed è databile tra il II e III secolo d.C
La statua venne trasferita nella piazza del Campidoglio nel 1592 e in questa occasione venne deciso il suo inserimento in una quinta architettonica progettata da Giacomo Della Porta, con la sua nuova funzione di elemento decorativo per fontana.
E in questa epoca che il Marforio svolse il ruolo di statua parlante, ovvero di statua antica prescelta per l'esposizione in forma anonima di lagnanze o invettive rivolte alle autorità Con la costruzione del Palazzo Nuovo la Fontana del Marforio venne a trovarsi nel cortile del più recente tra i palazzi capitolini (1644).
Statua di Pan e satiro della Valle attualmente presenti ai lati della fontana
Qualche personaggio
Due imperatori tra i più controversi: Nerone e Eliogabalo
Cicerone 106 a.C.- 43a.C., come poterlo scrollare allegramente senza prima aver citato un suo aforisma?
“Cosa c'è di più dolce che avere qualcuno con cui parlare così come con se stessi?”
Busto di Commodo come Ercole
Il busto rappresenta uno dei capolavori più celebrati della ritrattistica romana e ritrae l'imperatore sotto le spoglie di Ercole, del quale ha adottato gli attributi: la pelle di leone sul capo, la clava nella mano destra, i pomi delle Esperidi nella sinistra a ricordo di alcune fatiche dell'eroe greco.
Il busto, straordinariamente ben conservato, poggia su una complessa composizione allegorica: due Amazzoni inginocchiate (solo una è conservata) ai lati di un globo decorato con i simboli zodiacali, sorreggono cornucopie che si intrecciano intorno a una pelta, il caratteristico scudo delle Amazzoni. L'intento celebrativo che, con un linguaggio ricco di simboli, impone il culto divino dell'Imperatore è accentuato dalla presenza dei due Tritoni marini che fiancheggiano la figura centrale come segno di apoteosi. Il gruppo fu rinvenuto in una camera sotterranea del complesso degli Horti Lamiani segno, probabilmente, di un tentativo di occultamento.
La sala grande nel mezzo
Maschera di un satiro
Mosaico, intarsio, II sec d.C.
Il mosaico, trovato nel 1824 nella Vigna dei Gesuiti sull'Aventino, di fronte alla chiesa di Santa Prisca, sul luogo delle terme costruite dall'imperatore Traiano Decio (249-251 d.C.), fu acquistato e collocato in questa sala dall'allora papa Leone XII (1823-1829).
Raffigura due maschere poggiate sullo zoccolo aggettante di due pareti disposte ad angolo, viste in prospettiva; a una parete sono appoggiati due flauti, che proiettano su di essa la loro ombra. La maschera femminile ritrae una donna con grandi occhi e bocca spalancata; tra i capelli, arricciati a lunghi boccoli, è legato un nastro, annodato a fiocco sopra il centro della fronte. Nell'uomo i tratti fisionomici sono accentuati e ridicolizzati: la bocca enorme, il naso largo e schiacciato, gli occhi sporgenti, le guance raggrinzite, sulla testa una corona di edera e bacche, ornamento legato al culto dionisiaco, che tanta parte ha avuto nella nascita del teatro greco.
Le maschere appartangono a due "tipi" della Commedia Nuova, sviluppatasi con l'età ellenistica: la giovane donna, tavolta triste per le sue sciagure, e lo schiavo, pauroso e beffardo.
Vecchia ebbra
Marmo, II sec. d.C., da originale ellenistico della fine del III sec. a.C.
Roma, via Nomentana, chiesa di S. Agnese, 1620
Gabinetto della Venere
La piccola sala poligonale, realizzata nei primi decenni del XIX secolo, crea una suggestiva ambientazione ad una delle sculture più rappresentative del museo, la
Venere Capitolina.
La scultura, di dimensioni leggermente superiori al vero, fu rinvenuta tra il 1667 e il 1670 nei pressi della basilica di San Vitale tra il Quirinale e il Viminale e donata ai Musei Capitolini da Benedetto XIV nel 1752.
La dea è nuda, ritratta in un gesto sensuale e pudico, con le braccia disposte a celare alla vista dello spettatore le armoniose forme del corpo. Gli oggetti ai suoi piedi, la nudità e la pettinatura alludono al bagno lustrale della divinità. Si tratta di una variante della statua di Afrodite creata da Prassitele nel IV secolo a.C. per il santuario della dea a Cnido.
Il numero di copie e varianti conosciute testimonia il successo dell'opera nel mondo romano. Il valore attribuito a questa scultura è documentato anche dal suo ritrovamento dietro un muro, dove l'antico proprietario la nascose per difenderla da un imminente pericolo.
Due rilievi da monumento onorario di Marco Aurelio: sottomissione dei Germani e trionfo
Sala dei Capitani
La decorazione ad affresco della sala fu realizzata tra il 1587 e il 1594 da Tommaso Laureti (1530-1602), allievo del pittore Sebastiano del Piombo.
Con vivacità cromatica e monumentalità di accenti, si narrano esempi di valore militare e di virtù civili del primo periodo della repubblica, continuando idealmente il racconto storico della sala degli Orazi e Curiazi (in entrambe le sale sono stati riproposti i temi della decorazione del palazzo eseguita nel primo decennio del 1500 e perduta in seguito al rinnovamento architettonico degli ambienti).
Notevole è il soffitto a cassettoni con tele dipinte raffiguranti episodi del poema "La Gerusalemme Liberata". Le tele, attribuite al pittore Francesco Allegrini (1587-1663), furono trasferite in Campidoglio dopo il 1930 in seguito alla distruzione del Palazzo Mattei Paganica, dal quale provengono. Le porte lignee scolpite sono state realizzate nel 1643.
Si narra che nel 508 a.C., durante l'assedio di Roma da parte degli Etruschi comandati da Porsenna, proprio mentre nella città cominciavano a scarseggiare i viveri, un giovane aristocratico romano, Gaio Muzio Cordo, propose al Senato di uccidere il comandante etrusco.
Non appena ottenne l'autorizzazione, si infiltrò nelle linee nemiche, grazie anche al fatto che egli era di origine e lingua etrusca, e armato di un pugnale, raggiunse l'accampamento di Porsenna, che stava distribuendo la paga ai soldati. Muzio attese che il suo bersaglio rimanesse solo e quindi lo pugnalò, ma sbagliò persona: aveva infatti assassinato lo scriba del lucumone etrusco.
Subito venne catturato dalle guardie del comandante, e portato al cospetto di Porsenna, il giovane romano non esitò a dire: «Volevo uccidere te. La mia mano ha errato e ora la punisco per questo imperdonabile errore». Così mise la sua mano destra in un braciere dove ardeva il Fuoco dei sacrifici e non la tolse fino a che non fu completamente consumata. Da quel giorno il coraggioso nobile romano avrebbe assunto il cognomen di "Scevola" (il mancino).
Bassorilievo della mano di Muzio Scevola nel fuoco, a Roma, in via Sallustiana.
Porsenna rimase tanto impressionato da questo gesto che decise di liberare il giovane. Muzio, allora, sfoggiò la sua astuzia e disse: «Per ringraziarti della tua clemenza, voglio rivelarti che trecento giovani nobili romani hanno solennemente giurato di ucciderti. Il fato ha stabilito che io fossi il primo e ora sono qui davanti a te perché ho fallito. Ma prima o poi qualcuno degli altri duecentonovantanove riuscirà nell'intento».
Questa falsa rivelazione spaventò a tal punto il principe e tutta l'aristocrazia etrusca da far loro considerare molto più importante salvaguardare il futuro del re di Chiusi piuttosto che preoccuparsi del destino dei Tarquini. Sempre secondo la leggenda, così Porsenna prese la decisione di intavolare trattative di pace con i Romani, colpito positivamente dal loro valore
La statua in primo piano ritrae Marco Antonio Colonna fu uno dei maggiori protagonisti della vittoria della battaglia di Lepanto e detenne numerose cariche amministrative e militari nell'ambito dello Stato della Chiesa e dei domini spagnoli del sud-Italia
Con vivacità cromatica e monumentalità di accenti, si narrano esempi di valore militare e di virtù civili del primo periodo della repubblica, continuando idealmente il racconto storico della sala degli Orazi e Curiazi (in entrambe le sale sono stati riproposti i temi della decorazione del palazzo eseguita nel primo decennio del 1500 e perduta in seguito al rinnovamento architettonico degli ambienti).
Muzio Scevola e Porsenna, affresco, 1587 - 1594
Non appena ottenne l'autorizzazione, si infiltrò nelle linee nemiche, grazie anche al fatto che egli era di origine e lingua etrusca, e armato di un pugnale, raggiunse l'accampamento di Porsenna, che stava distribuendo la paga ai soldati. Muzio attese che il suo bersaglio rimanesse solo e quindi lo pugnalò, ma sbagliò persona: aveva infatti assassinato lo scriba del lucumone etrusco.
Subito venne catturato dalle guardie del comandante, e portato al cospetto di Porsenna, il giovane romano non esitò a dire: «Volevo uccidere te. La mia mano ha errato e ora la punisco per questo imperdonabile errore». Così mise la sua mano destra in un braciere dove ardeva il Fuoco dei sacrifici e non la tolse fino a che non fu completamente consumata. Da quel giorno il coraggioso nobile romano avrebbe assunto il cognomen di "Scevola" (il mancino).
Bassorilievo della mano di Muzio Scevola nel fuoco, a Roma, in via Sallustiana.
Porsenna rimase tanto impressionato da questo gesto che decise di liberare il giovane. Muzio, allora, sfoggiò la sua astuzia e disse: «Per ringraziarti della tua clemenza, voglio rivelarti che trecento giovani nobili romani hanno solennemente giurato di ucciderti. Il fato ha stabilito che io fossi il primo e ora sono qui davanti a te perché ho fallito. Ma prima o poi qualcuno degli altri duecentonovantanove riuscirà nell'intento».
Questa falsa rivelazione spaventò a tal punto il principe e tutta l'aristocrazia etrusca da far loro considerare molto più importante salvaguardare il futuro del re di Chiusi piuttosto che preoccuparsi del destino dei Tarquini. Sempre secondo la leggenda, così Porsenna prese la decisione di intavolare trattative di pace con i Romani, colpito positivamente dal loro valore
Medusa di Gian Lorenzo Bernini
Sala dei trionfi
La sala prende il nome da un affresco a ciclo continuo che corre sotto il soffitto, in cui è raffigurato il trionfo celebrato dal console romano L. Emilio Paolo su Perseo, re di Macedonia ( 167 a.C. ). L'affresco eseguito dai pittori Michele Alberti e Iacopo Rocchetti nel 1569 ripropone con fedeltà la descrizione della cerimonia tramandataci dal racconto dello storico greco Plutarco, in cui per ben quattro giorni sfilarono i beni e le opere sottratte al nemico come bottino di guerra. I luoghi e i palazzi della Roma rinascimentale fanno da sfondo al fastoso corteo che accompagna il vincitore fin sul Campidoglio, riconoscibile per la raffigurazione della nuova facciata del Palazzo dei Conservatori che proprio in quegli anni si andava edificando.Trionfo di Lucio Emilio Paolo, affresco 1569. Sala dei Trionfi – Musei Capitolini
I bronzi lateranensi
II 15 dicembre del 1471 papa Sisto IV donò al Popolo Romano un gruppo di statue bronzee di grande valore simbolico, la Lupa, lo Spinario, il Camillo, la testa e la mano con il globo del colosso di Costantino.I bronzi, fino a quel momento conservati in Laterano (campus lateranensis), furono trasferiti in Campidoglio, per essere custoditi dai Conservatori.
La donazione, celebrata in una antica inscrizione murata accanto all'ingresso della Sala Orazi e Curiazi, segna la trasformazione del colle capitolino in luogo deputato alla conservazione delle antiche memorie di Roma e si può considerare come l'atto di nascita del complesso museale capitolino, la collezione pubblica più antica del mondo.
Leone che attacca un cavallo
M.C, inv. 1366; marmo pentelico, con restauri in marmo lunense
L'impressionante gruppo scultoreo è documentato per la prima volta in Piazza del Campidoglio nel
1300. Dal 1347 si trovava sulla scalinata del Palazzo Senatorio, un'area dedicata all'amministrazione della giustizia e all'esecuzione della pena capitale. A lungo simbolo stesso di Roma e del suo glorioso passato, il gruppo suscitò l'ammirazione di Michelangelo Buonarroti e nel 1594 fu restaurato da uno degli allievi del grande artista, Ruggero Bescapè, a cui si devono la testa, le zampe e la coda del cavallo, nonché le zampe posteriori del leone. La scultura si data agli inizi dell'età ellenistica (fine del IV secolo a.C.) e si può attribuire a una bottega attiva in Grecia o in Asia Minore. Il gruppo è forse da interpretare come un monumento commemorativo legato alle vittorie persiane di Alessandro Magno.
Secondo il mito, la vestale Rea Silvia venne fecondata dal dio Marte e partorì due gemelli, Romolo e Remo. Il nonno dei gemelli, Numitore, fu scacciato dal trono di Alba Longa dal fratello Amulio. Per evitare che i nipoti, diventati adulti, potessero rivendicare il trono usurpato, Amulio ordinò ad un suo servo che fossero uccisi e gettati nel Tevere ma il servo non ebbe il coraggio e allora li mise in una cesta e li lasciò trasportare dalle acque del fiume. Questa cesta si incagliò sul fiume alle pendici di un colle, dove i gemelli furono trovati da una lupa che si prese cura di loro finché non furono trovati dal pastore Faustolo. L'antro della lupa era il leggendario lupercale presso il colle Palatino.
A parte qualche piccolo danno e lacuna prontamente restaurati, la statua della Lupa è integra. Il modellato è in linea di massima scarno e rigido, ma impreziosito da un decorativismo minuto, chiaro ed essenziale, soprattutto nel disegno del pelo, che è reso sul collo con un motivo calligrafico di ciocche "a fiamma", che prosegue nelle linee oltre la spalla e sulla sommità del dorso, fino alla coda.
L'animale è posto di profilo, con la testa girata verso lo spettatore di novanta gradi. Le fauci sono semiaperte e i denti aguzzi. Il corpo dell'animale è magro, mettendo in mostra tutto il costato. Le mammelle sul ventre sono ben evidenti. Anche le zampe presentano un aspetto asciutto e ruvido, e sono modellate in posizione di guardia.
L'impressionante gruppo scultoreo è documentato per la prima volta in Piazza del Campidoglio nel
1300. Dal 1347 si trovava sulla scalinata del Palazzo Senatorio, un'area dedicata all'amministrazione della giustizia e all'esecuzione della pena capitale. A lungo simbolo stesso di Roma e del suo glorioso passato, il gruppo suscitò l'ammirazione di Michelangelo Buonarroti e nel 1594 fu restaurato da uno degli allievi del grande artista, Ruggero Bescapè, a cui si devono la testa, le zampe e la coda del cavallo, nonché le zampe posteriori del leone. La scultura si data agli inizi dell'età ellenistica (fine del IV secolo a.C.) e si può attribuire a una bottega attiva in Grecia o in Asia Minore. Il gruppo è forse da interpretare come un monumento commemorativo legato alle vittorie persiane di Alessandro Magno.
Del monumento equestre dedicato all'imperatore Marco Aurelio (161-180 d.C.) non troviamo alcuna menzione nelle fonti letterarie antiche, ma è verosimile che esso sia stato innalzato nel 176 d.C., insieme ai numerosi altri onori tributatigli in occasione del trionfo sulle popolazioni germaniche, o nel 180 d.C., subito dopo la morte.
In quei tempi a Roma le statue equestri erano molto numerose: le descrizioni tardoimperiali delle regioni della città ne enumerano ventidue, definite equi magni, ossia maggiori del vero, analogamente al monumento di Marco Aurelio. Quest'ultimo, tuttavia, è l'unico giunto sino a noi e in virtù della sua integrità ha assunto ben presto un valore simbolico per tutti coloro che intendevano proporsi come eredi dell'antica Roma imperiale.
Il luogo di collocazione originario non è noto. Tuttavia già Carlo Fea, che per primo attribui la salvezza del monumento alla errata identificazione del cavaliere con l'imperatore Costantino, confutò l'ipotesi avanzata da Nardini e accolta da Winckelmann che la statua fosse stata innalzata fin dall'inizio al Laterano, dove è ricordata nelle fonti medievali.
In realtà si può affermare soltanto che la statua sia stata eretta per una dedica pubblica e che, pertanto, il luogo di collocazione originaria più probabile fosse il Foro Romano o la piazza con il tempio dinastico che circondava la Colonna Antonina.
La presenza al Laterano della scultura bronzea viene ricordata fin dal X secolo, ma è probabile che vi si trovasse almeno dalla fine dell'VIII secolo, quando Carlo Magno volle duplicare la sistemazione del campus lateranensis, trasferendo davanti al suo palazzo ad Aquisgrana (Aachen) una statua equestre analoga portata via da Ravenna.
Nel gennaio del 1538, per ordine di papa Paolo II della famiglia Farnese, la statua fu trasferita sul colle capitolino, che dal 1143 era divenuto sede delle autorità cittadine.
Ad un anno dal suo arrivo, il Senato Romano affido a Michelangelo l'incarico di risistemare la statua del Marco Aurelio. 11 grande artista fiorentino, invece di limitarsi a progettare una sistemazione idonea per il monumento, ne fece il perno di quel mirabile complesso architettonico che è la piazza del Campidoglio.
In quei tempi a Roma le statue equestri erano molto numerose: le descrizioni tardoimperiali delle regioni della città ne enumerano ventidue, definite equi magni, ossia maggiori del vero, analogamente al monumento di Marco Aurelio. Quest'ultimo, tuttavia, è l'unico giunto sino a noi e in virtù della sua integrità ha assunto ben presto un valore simbolico per tutti coloro che intendevano proporsi come eredi dell'antica Roma imperiale.
Il luogo di collocazione originario non è noto. Tuttavia già Carlo Fea, che per primo attribui la salvezza del monumento alla errata identificazione del cavaliere con l'imperatore Costantino, confutò l'ipotesi avanzata da Nardini e accolta da Winckelmann che la statua fosse stata innalzata fin dall'inizio al Laterano, dove è ricordata nelle fonti medievali.
In realtà si può affermare soltanto che la statua sia stata eretta per una dedica pubblica e che, pertanto, il luogo di collocazione originaria più probabile fosse il Foro Romano o la piazza con il tempio dinastico che circondava la Colonna Antonina.
La presenza al Laterano della scultura bronzea viene ricordata fin dal X secolo, ma è probabile che vi si trovasse almeno dalla fine dell'VIII secolo, quando Carlo Magno volle duplicare la sistemazione del campus lateranensis, trasferendo davanti al suo palazzo ad Aquisgrana (Aachen) una statua equestre analoga portata via da Ravenna.
Nel gennaio del 1538, per ordine di papa Paolo II della famiglia Farnese, la statua fu trasferita sul colle capitolino, che dal 1143 era divenuto sede delle autorità cittadine.
Ad un anno dal suo arrivo, il Senato Romano affido a Michelangelo l'incarico di risistemare la statua del Marco Aurelio. 11 grande artista fiorentino, invece di limitarsi a progettare una sistemazione idonea per il monumento, ne fece il perno di quel mirabile complesso architettonico che è la piazza del Campidoglio.
La lupa capitolina - sconosciuto (la lupa) e Antonio del Pollaiolo (i Gemelli)
490-480 a.C. scultura in Bronzo Etrusca oppure XII-XIII (lupa) [incerta] e fine XV secolo (gemelli)
A parte qualche piccolo danno e lacuna prontamente restaurati, la statua della Lupa è integra. Il modellato è in linea di massima scarno e rigido, ma impreziosito da un decorativismo minuto, chiaro ed essenziale, soprattutto nel disegno del pelo, che è reso sul collo con un motivo calligrafico di ciocche "a fiamma", che prosegue nelle linee oltre la spalla e sulla sommità del dorso, fino alla coda.
L'animale è posto di profilo, con la testa girata verso lo spettatore di novanta gradi. Le fauci sono semiaperte e i denti aguzzi. Il corpo dell'animale è magro, mettendo in mostra tutto il costato. Le mammelle sul ventre sono ben evidenti. Anche le zampe presentano un aspetto asciutto e ruvido, e sono modellate in posizione di guardia.
Spinario - seconda metà del I secolo a.C.
Lo Spinario è un'opera ellenistica di scultura, raffigurante un giovane seduto mentre, con le gambe accavallate, si sporge di fianco per togliersi una spina dalla pianta del piede sinistro. Ne esistono varie versioni sparse nei musei di tutto il mondo.
Quella forse più antica, in bronzo (73 cm di altezza), si trova ai Musei Capitolini a Roma, mentre una marmorea fa parte della collezione degli Uffizi di Firenze e venne copiata da Brunelleschi nella celebre formella del concorso per la porta nord del Battistero del 1401. Un'altra copia marmorea si trova al Louvre, una bronzea al Museo Puškin di Mosca.
La statua a Roma è documentata fin dal XII secolo. Fu notata alla fine del XII secolo o agli inizi del XIII da un viaggiatore inglese, Magister Gregorius, che scrisse nel suo De mirabilibus urbis Romae che era ridicolo pensare che fosse Priapo.[1] Si deve infatti considerare che fino ad allora lo scroto pendente del fanciullo era stato erroneamente visto come un pene estremamente grande, tipico dell'iconografia di Priapo.
Venne donata da Sisto IV alla città nel 1471, prelevandola dal palazzo Laterano. Durante tutto il Rinascimento fu tra le statue antiche più ammirate e copiate e in quell'epoca nacque probabilmente la leggenda del pastorello Gnaeus Martius, che corse da Vitorchiano a Roma per avvertire dell'arrivo degli invasori etruschi, si affrettò ignorando la spina che gli era entrata nel piede, fermandosi per estrarla solo a missione compiuta.
Testa colossale di Costantino - M.C. inv. 1072
La testa, cinque volte più grande del vero, raffigura l'imperatore Costantino ormai in età avanzata e può essere stata realizzata subito dopo la sua morte nel 337 d.C. Già collocata nella, Piazza del Laterano, la testa fa parte del gruppo dei bronzi donati in Campidoglio da papa Sisto TV nel 1471, atto di nascita del complesso museale capitolino. La mano colossale in bronzo (inv. 1070) e il globo (inv.1065), anch'essi parte della donazione di Sisto IV, sono forse pertinenti alla stessa statua colossale, mentre il piede destro in bronzo (inv.1073) si deve riferire a un'opera diversa.
Il celebre ratto delle Sabine, compiuto da Romolo, poco dopo la fondazione di Roma del 753 a.C., nel dipinto di Pietro da Cortona
Il ratto delle Sabine è una fra le vicende più antiche della storia di Roma, avvolta dalla leggenda. Secondo la tradizione, Romolo, dopo aver fondato Roma, si rivolge alle popolazioni vicine per stringere alleanze e ottenere delle donne con cui procreare e popolare la nuova città. Al rifiuto dei vicini risponde con l'inganno: organizza un grande spettacolo per attirare gli abitanti della regione e rapire le loro donne.
Durante il rapimento si sarebbe verificato l'episodio da cui i Romani deriverebbero la tradizione di gridare Talasius durante le feste di matrimonio.
«Si racconta che una di esse, molto più carina di tutte le altre, fu rapita dal gruppo di un certo Talasio e, poiché in molti cercavano di sapere a chi mai la stessero portando, gridarono più volte che la portavano a Talasio perché nessuno le mettesse le mani addosso. Da quell'episodio deriva il nostro grido nuziale.»
Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610)
Buona Ventura, 1597
olio su tela, cm 115 x 150
Roma, Musei Capitolini, inv. PC 131
Il dipinto è un importante esempio delle novità dirompenti introdotte in pittura da Caravaggio.
Ancora due dipinti
Il ratto delle Sabine è una fra le vicende più antiche della storia di Roma, avvolta dalla leggenda. Secondo la tradizione, Romolo, dopo aver fondato Roma, si rivolge alle popolazioni vicine per stringere alleanze e ottenere delle donne con cui procreare e popolare la nuova città. Al rifiuto dei vicini risponde con l'inganno: organizza un grande spettacolo per attirare gli abitanti della regione e rapire le loro donne.
Durante il rapimento si sarebbe verificato l'episodio da cui i Romani deriverebbero la tradizione di gridare Talasius durante le feste di matrimonio.
«Si racconta che una di esse, molto più carina di tutte le altre, fu rapita dal gruppo di un certo Talasio e, poiché in molti cercavano di sapere a chi mai la stessero portando, gridarono più volte che la portavano a Talasio perché nessuno le mettesse le mani addosso. Da quell'episodio deriva il nostro grido nuziale.»
Buona Ventura, 1597
olio su tela, cm 115 x 150
Roma, Musei Capitolini, inv. PC 131
Il dipinto è un importante esempio delle novità dirompenti introdotte in pittura da Caravaggio.
Raffigura un episodio di vita quotidiana cui sembra di poter assistere in un giorno qualunque inoltrandosi tra i vicoli e le piazze della Roma di fine Cinquecento.
Partendo dal fondo della tela Caravaggio costruisce uno spazio indefinito ma reso reale dalla luce naturale che invadendo il campo pittorico costruisce forme e volumi. I personaggi, una zingara e un giovane cavaliere, sono modelli viventi, vestiti con abiti contemporanei, tratti dall'osservazione del vero. Tuttavia, il soggetto dell'opera non è solo ciò che si vede: la giovane e seducente zingara, con il pretesto di leggere il futuro al cavaliere, gli prende la mano e con un gesto rapido gli sfila l'anello dall'anulare destro, dunque un chiaro monito a non farsi ingannare e a non cedere alla seduzione dei falsi profeti.
Partendo dal fondo della tela Caravaggio costruisce uno spazio indefinito ma reso reale dalla luce naturale che invadendo il campo pittorico costruisce forme e volumi. I personaggi, una zingara e un giovane cavaliere, sono modelli viventi, vestiti con abiti contemporanei, tratti dall'osservazione del vero. Tuttavia, il soggetto dell'opera non è solo ciò che si vede: la giovane e seducente zingara, con il pretesto di leggere il futuro al cavaliere, gli prende la mano e con un gesto rapido gli sfila l'anello dall'anulare destro, dunque un chiaro monito a non farsi ingannare e a non cedere alla seduzione dei falsi profeti.
***
Non ho parole, non posso avere parole, é tutto più grande di me e mi soverchia.
Roma 29 aprile 2022
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