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Su e giù dal Ceneri

Conobbi una persona proveniente dall'estero che mi chiese com'era il tessuto sociale del Ticino.
Per un ticinese la parola "Ceneri" é impossibile che non venga pronunciata per rispondere ad una domanda simile. Il piccolo monte infatti fa da confine geografico ma non solo, divide due mondi, come se dividere un cantone già piccolo e minoranza linguistica come il nostro non appare come una follia. Eppure é così.

Con l'ausilio del libro "Ticino sottosopra" ho la maniera di approfondire le origini e gli sviluppi di questa divisione che ruota attorno al nostro protagonista

Ave Maria, Giuseppe Chiattone 1898 circa

La scena raffigura una sorta di corteo, composto di una pastorella attorniata dal suo gregge di pecore. La figura femminile è colta di profilo, china e raccolta nella preghiera, mentre regge sulle spalle una gerla con un bimbo e un agnellino. Alle loro spalle si dipana un vasto paesaggio, con un filare di alberi sulla sinistra e un villaggio collinare sulla destra, dominato da una chiesa con il campanile svettante, che chiama i fedeli alla preghiera della sera. Esili figurine di contadine, appena sbalzate, animano i piani più arretrati.
Questa e altre figure caratterizzavano una zona ben precisa del Ticino tagliando in due il cantone

Le prime tracce nel passato

Il toponimo è attestato nel Patto di Torre (1182) - «de Monte Cennero» - e secondo i linguisti appartiene alla famiglia dei nomi derivati dal lat. «Cinis, cinere», ovvero «cenere», probabilmente per via del colore e della qualità della roccia, «cinerea», appunto.

I principali centri d'irradiazione sono le diocesi di Como e di Milano. La prima estende la sua influenza soprattutto nelle pievi sottocenerine, con epicentri a Riva San Vitale, Balerna e Lugano; la seconda, quella milanese, si occupa invece di Locarno, la Capriasca, le valli superiori (Riviera, Blenio e Leventina), con Biasca come piattaforma.

Questa suddivisione sarà all'origine dell'adozione di due liturgie parzialmente diverse: il rito romano e il rito ambrosiano. Liturgie che differiscono l'una dall'altra per la durata della quaresima (differenza di quattro giorni), l'ufficio della messa nei venerdì quaresimali (assente presso gli ambrosiani), l'organizzazione delle benedizioni e del battesimo. Differenze non sostanziali, se vogliamo. Fatto sta che anche nella sfera religiosa, sia pure circoscritta all'aspetto liturgico e demologico (le tradizioni popolari legate al carnevale),

Pure le campane

Piero Bianconi osservava che le differenze tra Ticino alto e basso andavano oltre la liturgia (rito ambrosiano, rito romano) per investire anche il «vocabolario» delle campane:

 «….ad accrescere la già forte varietà delle campane di casa nostra c'è la grande differenza tra le liete campane lombarde (Campane di Lombardia - Voce tua voce mia) e le più cupe campane delle valli superiori. Le nostre, a ruota come si dice, e con adeguato contrappeso, possono essere governate e giustamente ritmate e alternate, si tirano in piedi, a bocca in su, ferme: poi si lascian giù a tutta volata, una prima una dopo, quando suonano a concerto, a festa; ed è spettacolo non privo d'un suo tono rusticamente eroico, vedere gli uomini che le manovrano darsi la voce, attenti a calarle al momento giusto, ognuno la sua, dalla voce acuta della minore al rombo potente del campanone. Mentre le campane delle valli superiori sono rudimentali, semplicemente a perno o come si dice a "sbalzo", dondolano tirate dalla corda per un legno orizzontale, detto stanga, e suonano insieme, confusamente; se sono ben accordate ne riesce un concerto potente, un rimbombo a suo modo grandioso: ma che sempre sa di una certa grave tristezza...».

(Piero Bianconi, Campanili del Ticino, STCBNA,1968).

La capitale itinerante

Il primo grattacapo che si profila all'orizzonte riguarda la scelta della capitale stabile. L'Atto la colloca a Bellinzona, ma i luganesi si oppongono, dando vita ad una diatriba che, tra fiammate e momenti di stanca, durerà circa settant'anni.

Le obiezioni che i luganesi muovono ai bellinzonesi sono d'ordine politico, economico, cultural-antropologico (il decoro, il senso dell'ospitalità). Alle autorità federali, Lugano rammenta che senza il provvidenziale intervento dei volontari in armi gli ex baliaggi sarebbero finiti nelle braccia dell'odiata Cisalpina. Sul piano della dotazione alberghiera poi non c'è paragone tra le rive del Ceresio e il turrito borgo spazzato dai venti alpini. Bellinzona è «insalubre», «carente dei beni di prima necessità», priva di «un decoroso locale per la pubblica residenza delle primarie autorità»; per contro «la Comune di Lugano vi offre il contrapposto di una situazione sana ed aggradevole, di un commercio e di una popolazione brillante, e del quadruplo maggiore, vi offre l'abbondanza di tutti i generi, la discretezza di tutti i prezzi, e tutti i comodi della vita sociale, vi offre dei decorosi locali tanto per il comodo delle Sessioni dei due Consigli, quanto per il privato vantaggio di tutti i pubblici Funzionari».

Ad un certo punto tra i due litiganti s’intromise anche Locarno, per reclamare la sua parte. E così, fra indugi e parole pesanti, il Gran Consiglio decise di rendere «ambulante» la capitale, come s'era già fatto in precedenza con il Tribunale d'appello: iniziava così l'avventura del capoluogo pellegrino tra Lugano, Locarno e Bellinzona, una soluzione non priva d'inconvenienti (il fastidio dei traslochi continui con le relative spese e complicazioni burocratiche) che si sarebbe protratta fino al 1878, allorché il popolo, in votazione, mise la parola fine alla penosa odissea. Quella soluzione era stata subito giudicata assurda, ma in qualche modo inevitabile, considerata la testardaggine dei pretendenti.

Vale la pena tuttavia di ricordare la proposta (semi-seria) di Stefano Franscini, che addusse l'esempio degli Stati Uniti:

Ma se sia ne' destini del paese che la quistione si riaccenda, crederemo che meriteranno bene della patria coloro che anziché combattere per Lugano o per Bellinzona o per Locarno, saranno per adottar l'idea che domina la mente di un buon uomo nostro amico: che si abbia a conformarsi all'esempio degli Americani del Nord, i quali si costruirono in Washington la capitale della loro grande lega: e che sul colle del monte
Ceneri noi altri Ticinesi avessimo a far sorgere, sotto il nome di Concordia, una terra, che sarebbe il capoluogo dell'umile Repubblica, sarebbe causa del dissodamento e della coltura di molto suolo, e sicurtà di un passaggio assai frequentato, già infame e tuttora non scevro di sospetti.

Achille Fontanelli e lo svezzamento infinito da Uri

Nel 1810 le truppe del generale modenese Achille Fontanelli varcano la frontiera con il pretesto di far cessare il contrabbando tra il Ticino e il Regno d'Italia: rimarranno nel paese tre anni, vessando e impoverendo la popolazione. Nel contempo si riaffacciano le mire annessionistiche della Cisalpina sul Mendrisiotto.
Soprattutto nel Sopraceneri qualche voce autorevole - tra queste quella di Vincenzo Dalberti - si dice disposta a sacrificare una parte pur di salvare il tutto.

A nord del cantone, il clima è altrettanto agitato. Uri infatti non s'è mai definitivamente rassegnato a cedere la Leventina, suo unico ex baliaggio, al neocantone. Afferma che i leventinesi non hanno mai ufficialmente reclamato l'emancipazione; al contrario, buona parte dei valligiani si proclama filo-urana. Nel febbraio del 1814 il «cantone di Urania» diffonde nella valle un ambiguo volantino in cui propone agli ex sudditi di raggiungere l'antico padrone: ambiguo perché nel contempo sancisce unilateralmente la riunificazione:

Perciò dichiariamo colla presente nostra la Valle, e Paese di Leventina con tutta [sic] le sue circonferenze, ed Appartenenze Territorio riunito col nostro Cantone di Urania.

Non come Sudditi, no! [sic] Ma ricordevoli e riconoscenti ancora al vostro non ambiguo amore, attaccamento, e leale fedeltà con cui affrettaste di venirci in soccorso, e di unire le vostre forze alle nostre per rispingere, se fosse stato possibile dalle nostre frontiere, e paterni lidi l'inimico devastatore dal genere umano e dalla vera libertà dei popoli e perturbatore della publica quiete, vi chiamiamo e riceviamo come uomini liberi, indipendenti, capaci di regolarvi da se stessi, affinché godiate come veri compatriotti nel nostro seno di tutti i diritti politici, e di tutte le Franchiggie.

Per uno che legge a posteriori verrebbe da dire "che faccia tosta dopo tutti i soprusi creati in valle". Ma non va comunque focalizzato unicamente sulla "rivolta della Leventina" la presenza di Uri in Leventina; e fuori di dubbio che si creò una macchina ben oliata col gli anni, e si sa cambiare registro quando si é abituati a fare la stessa cosa da decenni non é operazione facile

La Leventina e le zampe del pavone

La crisi del 1814, ricostruita in ogni dettaglio da Raffaello Ceschi in un saggio apparso tra il 1973 e il 1977 sull'Archivio Storico Ticinese, evidenzia quanto fossero estranee alla coscienza popolare le idee repubblicane. Uri, per riacquistare la Leventina, fa leva sugli antichi diritti e privilegi (esenzioni daziarie, godimento dei beni patriziali) e sulla promessa di concedere l'autogoverno sottoforma di «Landsgemeinde», la comunità dei cittadini riuniti in assemblea. Forme deliberative «primitive» che ai leventinesi sembravano più dirette e spicce dei nuovi organismi previsti dalla Costituzione d'impronta francese, con tutta la sua panoplia di norme e leggi. A Bellinzona razzola poi «troppa amministrazione» che succhia il sangue alla povera gente. Lo fa imponendo dazi esorbitanti sul sale (elemento indispensabile all'economia agro-pastorale) e trascurando la rete viaria. Emblematico il giudizio sui tempi nuovi espresso dal prevosto Pozzi di Airolo: «Le proprietà, e principali risorse di questa Valle (la Leventina) consistono in prati, pascoli, boschi ed alpi, e nel mantenimento di numerose greggie di capre e pecore, e copiose mandrie Bovine, e li abbitanti pastori, e Contadini."

Ognuno crede, che simili Popoli non sono fatti per una costituzione troppo Filosofica Napoleonica, e complicata, e che per noi ci vogliono poche leggi, ma molta virtù morale, e semplici costumi. Inoltre la mediocrità delle sostanze fa detestare una costituzione troppo dispendiosa, per il numero delli impiegati, e loro indenizazione.

Ora tutti questi vantaggi si trovano nella Democrazia d'Urania a cui si cerca d'unirsi. Non voglio qui entrare a discutere, ne [né] la passata, ne [né] la proggetata Constituzione del Cantone Ticino, perché si spera, che non sia ne (né] sarà la nostra. Si loda la bellezza del Pavone senza voler osservare li suoi piedi».

Liberali e conservatori

Il pomo della discordia è dato dai meccanismi della rappresentanza: che per i liberali dev'essere proporzionale, per i conservatori maggioritaria.

Che la chiave di volta stesse qui è ben comprensibile, visto che i distretti sopracenerini erano sei (Locarno, Valle Maggia, Bellinzona, Riviera, Blenio e Leventina), mentre quelli sottocenerini appena due (Lugano e Mendrisio). Senza adeguati correttivi, un luganese valeva sei volte meno di un villico della Lavizzara.

A gettare benzina sul fuoco ci pensò, nel 1870, un libello uscito anonimo dalla Tipografia Cortesi di Mendrisio: La quistione della separazione nel Cantone Ticino. Secondo l'anonimo estensore, il Sopraceneri era affetto da parassitismo, e per di più s'era dimostrato incapace di gestire le sue risorse naturali, i boschi e le acque. Inoltre contribuiva meno del Sottoceneri all'erario pubblico, mantenendo, per converso, una pletora di funzionari, dagli impiegati ai giudici, assolutamente sproporzionata. Per ristabilire l'equilibrio, occorreva prima di tutto rivedere la formazione dei di-stretti, che sarebbero dovuti diventare quattro: Lugano, Mendrisio, Locarno con la Vallemaggia, Bellinzona con le Tre Valli. In caso contrario sarebbe stato meglio dividere il Ticino in due semi-cantoni, com'era


L'esposizione alla berlina, nel 1853, di un certo Bernardo Bernasconi, assassino, per motivi politici, dell'avvocato Benigno Soldini di Chiasso (Disegno di Vincenzo Vela, Proprietà della Confederazione svizzera, in deposito presso i Museo Vela, Ligornetto).

Il 900

Le cerimonie centenarie servono proprio a questo, a cementare la coesione interna. Nel 1898 si festeggia il primo secolo dell'emancipazione dal regime balivale con sfi-late, banchetti e brindisi, esercizi ginnici e l'inaugurazione a Lugano, in piazza Castello, del monumento in onore dei cittadini «liberi e svizzeri»; nel 1903 - primo centenario della creazione del canton Ticino 

Ampellio Regazzoni - I moti luganesi del 1798. L'erezione dell'albero della libertà 1898
gesso CM 2IS X II4X 30
Archivio di Stato, Bellinzona

Si replica a Bellinzona, in piazza San Rocco, pure attraverso l'erezione di un monumento: un obelisco in granito verzaschese. Unità ritrovata? Solo in apparenza. In realtà anche i festeggiamenti tradiscono la presenza di sensibilità divergenti. 

Inaugurazione del monumento, 10 settembre 1903. In secondo piano, all'imbocco di via Camminata, sono visibili le decorazioni e l'arco trionfale per i festeggiamenti del primo centenario dell'autonomia ticinese.

Quella luganese tende a sottolineare le gesta dei volontari ostili al progetto napoleonico volto ad incorporare gli ex baliaggi nella Repubblica Cisalpina; quella bellinzonese esalta invece l'ingresso a pieno titolo del cantone nel grembo confederale

Il bassorilievo dell'abbraccio cantonale

Emblematico il bassorilievo ideato da Natale Albisetti: «Città e campagna in un unico abbraccio cantonale». Questo bassorilievo aveva già destato la mia curiosità in passato. Dopo la mia prima ricerca mi ero limitato a vedere in esso un contrasto tra operaio e padrone, snobbando il significato della donna e le contadino dietro. Ora il significato mi appare decisamente più completo e attendibile.

questa allegoria é caratterizzata da uno stile improntato a un realismo acuto e descrittivo. I personaggi vestono abiti contemporanei, che permettono immediatamente di distinguerne il ceto sociale: l'operaio che abbraccia il padrone sulla sinistra, la madre intenta ad allevare e a educare i figli, il contadino che ara il campo sullo sfondo, «dominati dalla sacra fiaccola del progresso» («Il Dovere», 10.9.1903)

Donne ticinesi

Dal Quattrocento in poi, ma forse anche prima, il corpo più osservato, scrutato, interrogato e anche punito, è quello della donna. I processi alle streghe iniziano già prima del Rinascimento per concludersi solo nella prima metà del Settecento. Una lunga stagione di orrori, fatta di sospetti e delazioni, sfociata infine in processi, torture, decapitazioni e roghi. Nei baliaggi superiori (Leventina, Blenio e Riviera), la caccia alle streghe raggiunse l'apice alla metà del Seicento: Raffaella Laorca, nella sua ricerca Le Tre Valli stregate (Dadò editore, 1992), ha rintracciato 257 atti processuali sull'arco di trentasette anni: il che dà una media di circa sette processi l'anno, su una popolazione complessiva di 16mila anime. Nell'introdurre la ricerca, Raffaello Ceschi ha evidenziato la sproporzione rispetto al capoluogo ambrosiano: «se a Milano in trentun anni all'inizio del Seicento si sono giustiziate nove persone per stregoneria, nella sola Leventina, periferia montana della diocesi milanese, si sono pronunciate nello stesso periodo 29 condanne capitali».

Dunque il fenomeno riguarda soprattutto la campagna e la montagna, aree di frontiera infide per l'Inqui-sizione, regioni da bonificare e da ricondurre nell'alveo del cattolicesimo ortodosso, ma anche terre popolate da forze misteriose e oscure, sotterranee e pagane, irriducibili alla dottrina.

Sia come sia, il risultato è un accanimento sistematico contro il sesso femminile: in sette-otto processi su dieci, l'imputato è infatti una donna. E tutto questo si protrae, come si è detto, sull'arco di vari secoli.

L'azione persecutoria si conclude solo nel Settecento; i roghi si spengono, ma alle povere contadine il giogo della sottomissione rimane. Questo giogo assume le forme più varie e degradanti: bestia da soma, strumento di riproduzione, serva. Le condizioni in cui versano le donne, specie nelle vallate, non lasciano indifferente nessun viaggiatore. Le fanciulle, sente dire il Bonstetten in val Onsernone, consumano meno e costano meno dei quadrupedi. Tutti i pesi finiscono sulle loro spalle: in bi-gonce, gerle, cadole, brente; legna legata in fascine oppure letame da trasportare nei prati. La donna raccoglie tutto, dal fieno al carbone, e fa di tutto, divisa tra stalla e casa, tra mangiatoie e focolari, nel corso di giornate che non finiscono mai, dalle «stelle alle stelle». E soprattutto, nelle zone di emigrazione, rimangono sole per molti mesi all'anno; sole ad allevare una prole sempre più numerosa.

La conseguenza è un corpo minato dalle fatiche, sformato, che nemmeno l'abito della festa riesce ad ingentilire. D'altronde i vestiti sono grezzi, formati da un'ampia sottana a campana, da grembiuloni e corpetti che mortificano ogni parvenza di femminilità. La qual cosa indigna ancora di più una poetessa ribelle come Friederike Brun, che rivolge agli uomini parole di fuoco: «maltrattano le loro povere donne macilente, e si fanno servire da loro come fossero delle schiave».

Certo, nelle città l'aria è diversa; c'è più fervore, e quindi commer-cio; circolano beni alla moda, generi voluttuari, gioielli. In centri come Lugano, Locarno, Bellinzona e Mendrisio prende piede il rito della passeggiata domenicale, della sosta al caffè dopo la messa, della lettura delle gazzette.

I ceti urbani abbracciano nuovi comportamenti e stili di vita, introducono tavole più ricche e bevande esotiche come il cioccolato, accolto come «brodo indiano». Dalle vetrine occhieggiano capi d'abbigliamento provenienti da Milano o addirittura da Parigi, e poi tessuti pregiati, seta, lino, tendaggi e tovaglie ricamate. E quindi naturale che l'emancipazione, il lungo processo d'affrancamento dagli antichi ceppi, compresa la rivendicazione dei diritti politici, si faccia largo a partire dalla città, non certo dalla montagna, dove invece il fardello della tradizione graverà sulle donne per molti decenni ancora, fino alla contestazione giovanile degli anni Sessanta (del Novecento). E solo in quel clima che il 19 ottobre 1969 giunge à maturazione, finalmente, il suffragio femminile in materia comunale e cantonale: tappa fondamentale ma non conclusiva (per chiudere il cerchio sul piano federale saranno necessari ancora due anni) di un lunghissimo cam-mino, percorso dall'altra metà del cielo tra mille traversie e giganteschi rovi di preconcetti.

Per secoli molte donne della nostra fascia montana sono state delle mezze persone, se non delle non-persone: animali da basto condannati ad una decadenza fisica precoce. Di questo
Le donne, scrive il Bontetten, lavorano come schiave, «debbono sobbarcarsi tutti i lavori, anche quelli più rischiosi. Arano, mietono, partoriscono e allattano, seminano e coltivano. Si arrampicano sulle rupi più insidiose - ove, dall'alto, precipitano blocchi di pietra - per raccogliere sotto il sole cocente un po' di ginestra o di legna o di fieno, non senza il pericolo delle serpi».

La Brun, poetessa danese, rimane colpita dalla bruttezza e dalla sporcizia, addossando la responsabilità di tale condizione agli uomini, che ella vede riuniti in sciami a bivaccare nelle osterie, traviati dal gioco e dal vino.

Le donne, dunque, «anello forte» del mondo rurale, come dice Nuto Revelli, ma anche anello logorato da mille stenti, sfiorito in un attimo, rifiutato e vilipeso, considerato solo come grembo riproduttivo e forza-lavoro.

Lugano città italiana

Scrive Rosanna Zeli (in un saggio del 1982 pubblicato dalla Società svizzera di demologia) che nella seconda metà degli anni '70 i leventinesi, scesi alla Rèssega di Lugano con bandiere rossocrociate, «giunsero a gridare, per dileggio, "Italia! Italia!". E i tifosi luganesi risposero con l*"Inno di Mameli". Le bandiere svizzere e il grido

"Italia! Italia!" ritornarono ancora nei derbies. Recentemente, uno dei dirigenti del Lugano spiegò questo grido con la presenza dei sostenitori varesini; forse, ma vi è anche una spiegazione diversa: è comune nel Sopracene-ri la sensazione, l'impressione, che Lugano sia una città (quasi) italiana, il che non vale, ad esempio, per un centro più a sud come Mendrisio

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