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Storia della colonna infame

Il mio professore di Italiano ci raccontò "I promessi sposi", ma lo fece in maniera accurata, con grande passione da renderlo eternamente ancorato alle memorie. In particolare due passaggi mimò con grande enfasi, camminando su e giù nella classe tra i banchi: l'incontro di Don Abbondio coi bravi e soprattutto tutto quello che riguarda la storia nella storia, le conseguenze sociali della peste dilagata a Milano e che entra prepotentemente nel racconto. Tra le varie sfaccettature legate al morbo la più significativa fu quella degli untori, nata dall'isteria e senso di perdita del lume legata alla morte che imperversava incontrastata in città. Dopo la visita dei resti della colonna infame presso il castello sforzesco di Milano la voglia di approfondire l'argomento si fa irresistibile.

Untori extra peste

Nella ricerca delle cause del propagarsi della peste c'è un'altra cosa che accade, una cosa terribile; riguarda il sospetto, trasformato presto in certezza, che esistano individui, gruppi contaminati e agenti di corruzione: gli untori. Maghi e streghe, vagabondi e prostitute, e soprattutto ebrei.
Sono loro a propagare il contagio, il capro espiatorio da eliminare. Sia chiaro: l'antisemitismo è già ben radicato in Europa, però l'epidemia accelera, sparge e intensifica la persecuzione.
Il tema degli untori balza di nuovo agli onori delle cronache secoli più ardi, quando fu Gerolamo Cardano medico, a descrivere la febbre tifoidea, racconta che per 1536, a Saluzzo, si è scoperto un gruppo di persone intente a diffondere la peste con due modalità: spargendo una polvere infetta sugli abiti e spalmando un unguento altrettanto mortifero sugli stipiti delle porte.
Un fatto simile capita anche a Milano nel 1576, e diventa oggetto di una grida del governatore spagnolo Antonio de Guzmán.
Il proclama dice essere noto che:

Alcune persone con fioco zelo di carità e per mettere terrore e spavento al popolo ed agli abitatori di questa città di Milano, e per eccitarli a qualche tumulto, vanno ungendo con onti, che dicono pestiferi e contagiosi, le porte e i catenacci delle case e le cantonate delle contrade di detta città e altri luoghi dello Stato, sotto pretesto di portare la peste al privato ed al pubblico.

Con la sua grida, de Guzmán non minaccia punizioni, cerca invece la collaborazione, o meglio la delazione, promettendo denari come ricompensa a chi saprà fornire informazioni utili.
Tuttavia non ottiene risultati, se non la cattura e l'esecuzione di un poveraccio che, in punto di morte, rivela la ricetta per prevenire il contagio, un preparato di nessuna efficacia ma dal nome suggestivo, quello di «unto dell'impiccato».

Apofenia

Quella fondata sugli untori, oggi la chiameremmo una teoria del complotto. E, come ogni teoria del complotto, mira a spiegare la pestilenza,  attribuendone la colpa a un gruppo di persone malvagie e potenti. Non importa che manchino i riscontri, che ci siano spiegazioni più ragionevoli e affida-bili, la logica del complottista è circolare: l'assenza di prove è la dimostrazione che la cospirazione esiste, e che a tirare le fila ci siano individui talmente capaci e influenti da tenerla nascosta a tutti.
Per gli psicologi si chiama «apofenia», un termine coniato nel 1958 dal neuropsichiatra tedesco Klaus Conrad per descrivere la tendenza a riconoscere schemi e connessioni tra dati casuali o senza alcun senso, a trovare complotti dove non ce ne sono.

Storia della colonna infame


Ecco come inizia il racconto del Manzoni

La mattina del 21 di giugno 1630,' verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia,' a una finestra d'un cavalcavia che allora c'era sul principio di via della Vetra de' Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteva su le mani, che pareva che scrivesse.'



Le diede nell'occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo voltato il cantone, e che a luogo a luogo tiraua con le mani dietro al muro.
All'hora, soggiunge, mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno de quelli che, a' giorni passati, andavano ongendo le muraglie:? Presa da un tal sospetto, passò in un'altra stanza, che guardava lungo la strada, per tener d'occhio lo sconosciuto, che s'avanzava in quella; et viddi, dice, che teneva toccato la detta muraglia con le mani
.

Costruzione di un mostro: Guglielmo Piazza

21 giugno 1630.
"Piove forte a Milano, e sono le otto del mattino quando una vedova, di nome Caterina Troccazzani, vede dalla finestra il commissario di sanità Guglielmo Piazza camminare rasente al muro che costeggia la strada, toccandolo ogni tanto con la mano.


Lo scorge anche Ottavia Persici Boni: «Aveva una carta» dirà al processo «sopra la qual mise la mano dritta, che mi pareva che volesse scrivere, e poi vidi che levata la mano dalla carta la fregò sopra la muraglia».
Le due donne spargono subito la voce, che si diffonde incontenibile. Si cercano le prove dell'unzione, e su un muro non lontano dalla bottega del barbiere Gian Giacomo Mora, all'altezza di un braccio e mezzo, viene trovata una traccia di grasso giallo che viene prontamente bruciato

Il buon senso farebbe pensare che non c'è nulla di strano a costeggiare un muro per ripararsi dalla pioggia, e che un criminale deciso a compiere un gesto infame non lo fa certo alla luce del giorno.

Ma sono tempi, come disse il Manzoni, in cui «Il buon senso se ne stava nascosto per paura del senso comune»; così, il giorno successivo il capitano di giustizia esamina la scena del delitto, interroga le due comari, e ordina l'arresto di Guglielmo Piazza.

Poco importa che l'ispezione della sua casa non riveli la presenza di ampolle, vasi, unti, denaro, o di qualunque cosa di sospetto.
Condotto in carcere, Guglielmo Piazza viene interrogato dal giudice; incalzato, risponde di non aver fatto nulla e di non sapere nulla, eppure il magistrato è convinto stia mentendo, e per questo ordina che venga torturato.



Protesta, Guglielmo, invoca Dio e san Carlo, urla dal dolore, ma non può denunciare nessuno, per il semplice fatto che non ha mai commesso alcun crimine.
Dopo ore di supplizi perde i sensi, e viene così riportato in cella.
Il giorno successivo il Senato dispone di tormentarlo nuovamente «con aspra tortura, con legami di canapa e viti intercalate», aggiungendo che sia prima vestito con abiti curiali, rasato e purgato, per il timore che negli abiti, nei capelli, nei peli e nell'intestino possa celare amuleti, o i segni di un patto col Demonio.
Il resoconto delle nuove sevizie è ancor più terribile: le giunture gli vengono slogate, mentre l'uomo urla la propria innocenza, e alle replicate istanze dei giudici ripete protestando di aver dichiarato il vero, che lui è all'oscuro di qualsiasi macchinazione.
Ma alla fine, straziato, se ne esce con un «Che volete che dica?», pronto ad avallare qualunque accusa immaginaria.

Piazza non è solo

Termina così il secondo giorno di supplizi e, non contenti del risultato, i giudici comandano che al Piazza non vengano sistemate le spalle distorte, lasciandolo penare per l'intera notte.
Il di appresso, alla sola minaccia di nuove sofferenze, l'uomo si trasforma in un fiume in piena: racconta d'avere unto le muraglie, che l'unguento gliel'ha dato il barbiere che abita all'angolo, che era giallo e pesava tre once circa.
Aggiunge che tutto era successo rapidamente, che il barbiere l'aveva fermato dicendogli di avere qualcosa da consegnargli, e che della faccenda sapevano in tre o quattro; lui però questi «altri» non li ha mai visti né sa il loro nome, Se non ha confessato prima, è perché il barbiere gli ha dato da bere qualcosa che lo ha reso immune agli interrogatori.

Tocca allora a Gian Giacomo Mora, di professione barbiere, essere arrestato, a casa sua, davanti alla propria moglie e ai figli.

Certo, risponde agli inquirenti, ha preparato un medicamento per il commissario Piazza. Si tratta dell'unguento dell'impiccato, con cui ungersi le tempie e le ascelle e prevenire così il male contagioso; però non si preoccupa più di tanto, convinto che l'accusa sia solo quella d'avere rubato il mestiere agli speziali.
Interrogato, rende conto delle polveri e delle pillole che conserva in bottega, ma poi, nel cortile di casa, gli trovano una caldaia di rame sul cui fondo c'è una materia viscosa, gialla e bianca, che gettata contro un muro gli resta attaccata. Ecco la prova!


In verità, la moglie del barbiere ha pronta una spiegazione: dice che si tratta di smoglio, il miscuglio filtrato di cenere e acqua bollente con cui si lavano i panni, e che lei ha usato un paio di settimane prima.
Per i giudici è ovvio che la donna menta, ed è naturale che lo faccia per difendere il marito da un'accusa tremenda; si mettono così a cercare chi possa contestarla, e la trovano nella persona di Margarita Arpizzanelli, lavandaia, che dichiara: Questo smoglio non è puro, ma vi è dentro delle furfanterie, perché il smoglio puro non ha tanto fondo, né di questo colore, perché lo fa bianco, bianco, e non è tacchente come questo, il quale ha brutto colore, ed è tacchente, e sta a fondo, e pare cosa grassa.

Ad avallare il giudizio di Margarita viene chiamato il fisico collegiato Achille Carcano, cui si aggiungono Giambattista Vertua e Vittore Bescapé; in realtà nessuno di loro sa cosa sia quella sostanza, ma pur di dire qualcosa escludono si tratti di cenere filtrata.
Ai magistrati basta e avanza per procedere con gli interrogatori sotto tortura, e al Mora viene riservato lo stesso trattamento di Guglielmo Piazza.

Alessandro Magnasco - Interrogatori in carcere

Inevitabilmente, arriva la confessione: è stato lui a confezionare e consegnare al Piazza un vasetto con dentro dello sterco umano unito alla materia che esce dalla bocca dei morti, perché ne imbrattasse i muri.
Ha impiegato una libbra di saliva di appestati, cucinandola nella caldaia di rame, col fine di eliminare un gran numero di cristiani.
A nessuno sembra importare la poca logica della storia: dove avrebbe raccolto il barbiere i tre-quattrocento grammi di saliva infetta, essendo tale la corrispondenza con una libbra dell'epoca?
Come l'avrebbe maneggiata senza ammalarsi?
E soprattutto, con che scopo e quale guadagno ne avrebbe ricavato?

Non ha senso, tant'è che il giorno seguente Mora ritratta, dice che se ha detto certe cose è solo per far cessare il supplizio, e che lui non ha mai fabbricato nessun unguento pestifero.
Salvo, messo ai tormenti, ritornare alla sua prima deposizione e confermarla.
Piano piano, tra dichiarazioni e ritrattazioni, ammissioni e smentite, si costruisce la verità che aggrada tanto ai giudici quanto alla pancia del popolo.
E stato il Piazza a procurare la bava infetta al barbiere, che lo ha cercato con la promessa di una ricompensa; Gian Giacomo Mora aveva detto al commissario di sanita che c'era "una persona grande che gli aveva promesso una gran quantità di danaro per far tal cosa, e sebbene fosse ricercato da me a dirmi chi era questa persona grande, non me lo volle dire, ma solamente mi disse di attendere a lavorare ed untare le muraglie e porte, che mi avrebbe dato una quantità di danari".

La sentenza e l'esecuzione

Dopo un mese e mezzo di indagini, alla fine del mese di luglio 1630, arriva il verdetto...

Riferito in Senato dal Mag. Senator Monti, Presidente del Magistrato della Sanità, il Processo formato contra Gulielmo Piazza e Gio. Giacomo Mora, quali con onto pestifero hanno appestato la Città di Milano; udito i voti de' Padri, il Senato è concorso in questa sentenza:

Che li sopranominati Mora, e Piazza, posti sopra di un carro sijno condotti al loco solito della Giustitia. Nell'andare ne' lochi ove hanno delinquito, sijno tanagliati. Avanti la Barbaria del Mora, si tagli all'uno, e all'altro la mano dritta. Si rompino loro l'ossa al solito con la Rota, la quale si levi in alto, e in quella vivi s'intreccino i loro corpi. Dopò sei hore si scannino, e subito li loro cadaveri 'abbrucino, e le ceneri si gettino in fiume. La casa del Mora si spiani, e in quel largo si drizzi una Colonna, la quale si chiami Infame, e in essa si scrivi il successo; ne ad alcuno sia permesso mai più riedificare detta casa. Si dia satisfattione à creditori di detta casa de beni de condennati, e non bastando, siano satisfatti del Publico. Li beni di detto Mora, e Piazza si confischino. Il modo di condurre costoro alla morte sij questo.

Vadino avanti due Banditori, li quali palesino al popolo la caggione della loro condennaggione, e tormentosa morte, vi sia guardia sufficiente, acciò non nasca qualche tumulto ne popolo, e al medesimo fine si siggillanno le case de sospetti. Si getti un Bando, che ciascuno stij in casa, e si guardi. i loco, ove si doverà fare la Giustitia si circondi con cancelli di legno, i quali, acciò non possino essere onti con l'onto pestifero sijno da huomini a posta guardati. Sopra il medesimo loco si formi come un'ombrella, acciò li Religiosi con minor disaggio possino assistere a giustitiati, e del tutto s'avvisi il Vicario di Giustitia.

Aldrui D'Orsa: il capro espiatorio per eccellenza

Non bastasse l'orrore della sentenza, sul frontespizio della sua pubblicazione viene inciso il profilo di un uomo ributtante, con una didascalia che informa di raffigurare «L'abbominevole ritratto di Aldrui D'Orsa, infame e prima cagione della pestilenzia di Milano nell'anno 1630».

A confermare quanto la fantasia alimenti la storia degli untori, nulla sappiamo di lui: non c'è una citazione, un verbale, il che porta a dubitare sia veramente esistito; ma per l'immaginario popolare è reale, «un Diavolo nero dagli occhi luccicanti».

Nell'immaginario popolare era noto come "un diavolo nero dagli occhi luccicanti" che seminava la peste. È noto esclusivamente per essere raffigurato in un ributtante ritratto sul frontespizio della sentenza del processo contro gli untori, svoltosi a Milano nel 1630 e legato alla realizzazione della colonna infame; la didascalia dell'immagine indica L'abbominevole ritratto di Aldrui D'Orsa, infame e prima cagione della pestilenza di Milano nell'anno 1630

Non solo il Piazza e il Mora

A morire, accanto a Mora e a Piazza, sono altri sventurati, senza colpe se non quella di non aver convinto i giudici della loro ignoranza ed estraneità: Gerolamo Migliavacca, col-tellinaio, con suo figlio Gaspare, Francesco Monzone detto «Bonazzo», Caterina Rozzana, Giacomo Maganzo, Giovanni
Andrea Barbero, Giovanni Battista Bianchino, Martino Re-calcato, Pietro Gerolamo Bertone e Giovanni Paolo Pigotta.

A tutti, condotti sopra un carro, vengono strappate le carni, tagliata la mano destra, frantumate le ossa di braccia e gambe prima d'essere scannati, bruciati e che le loro ceneri vengano disperse.
Pigotta, moribondo per la peste, viene condotto al lazzaretto, dove lo appendono per un piede, e poi archibugiato dal maestro di giustizia.

A Giovanni Farletta si risparmiano le sofferenze, ma solo perché quando viene pronunciata la sentenza è già morto.
Così, giusto per dare l' esempio, al suo posto si decide di bruciare un fantoccio.

Quanto al Piazza e al Mora, nel momento dell'esecuzione confessano d'essere rassegnati a morire per espiare i loro peccati, ma continuano a giurare davanti a Dio di non aver mai fabbricato o usato unguenti, né di conoscere l'arte e la pratica dei sortilegi.

I mandanti

Quindi, chi sarebbe il mandante dei condannati e degli altri sciagurati untori?
Qualcuno parla di un demone potente, sistemato nel palazzo del conte Trivulzio, fuggito nel frattempo per sottrarsi al contagio. Il demone non solo sparge polveri pestilenziali sulla città, ma provvede a ricompensare chiunque gli dia una mano.

Quei pochi che non credono alle spiegazioni sovrannaturali pensano invece si tratti di una cospirazione politica, che di volta in volta coinvolge personaggi come il cardinale Richelieu, il re Filippo IV di Spagna e il principe Carlo Emanuele I di Savoia.

C'è poi una terza ipotesi, decisamente più realistica e per questo poco considerata, che riguarda i monatti. Assoldati tra soggetti d'indole e comportamenti criminali, dediti al ricatto, al furto e al saccheggio, per la gran parte immuni al contagio, a loro si conviene che il lavoro non manchi.
Per questo alcuni di loro abbandonano abiti infetti per le strade, in modo che chi li raccoglie alimenti l'epidemia.

La colonna infame

Fu poi ordinato che nel posto dove una volta ci fu la casa del Mora venisse eretta una colonna, la colonna infame, onde scongiurare il ripetersi di tali avvenimenti


Sulla colonna infami e i suoi resti mi sono occupato in passato qui

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