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Due punizioni crudeli

Che la mente, o meglio, la perversione umana sia illimitata ne é prova la varietà di pene e torture escogitate dall'uomo. Il pensiero comune in questo senso di originalità punta al famoso toro di Falaride dove la vittima veniva rinchiusa al suo interno e un fuoco veniva acceso sotto di esso per riscaldare il metallo fino ad arroventarlo; così la vittima si bruciava lentamente fino a morire. Il toro era costruito in modo tale che il suo fumo si levasse in profumate nuvole di incenso.
Sarebbe però un errore a limitarsi al toro di Falaride, sarebbe come impuntarsi sulla Gioconda al Louvre, ok bella, ma c'é molta altra roba, magari anche più "sorprendente"
Decisamente originali le due ritrovate durante la lettura delle paure medievali. 

La punizione di Isotta

Nella storia di Tristano e Isotta, la cui più antica redazione conservatasi è quella messa per iscritto dal troviere normanno “Béroul” nella seconda metà del XII secolo: “si trattava di rifacimenti e di variazioni di una leggenda antica e celebre, alla quale certo nuovi e più forti e drammatici colori dovevano essere stati aggiunti proprio da quando, in seguito all’intensificarsi dei traffici e dei pellegrinaggi […] lebbra e lebbrosari erano divenuti sempre più frequenti”.

La sua miniatura mostra San Francesco e altri che curano le vittime della lebbra. Alcuni scrittori identificano erroneamente questi pazienti come affetti da vaiolo, visti i sintomi illustrati, e l'immagine è anche erroneamente usata per illustrare la peste nera. L'immagine proviene da un manoscritto de La Franceschina (1474 circa), una cronaca dell'Ordine del francescano Jacopo Oddi (morto nel 1488) di Perugia, conservato presso la Biblioteca Augusta di Perugia.

Per quanto riguarda i lebbrosi ne è prova il supplizio escogitato da uno di loro per punire Isotta, la moglie adultera di re Marco, secondo il Tristan di Béroul, un narratore e giullare del XII secolo:

Cento lebbrosi, deformi, con la carne corrosa e tutta biancastra, accorsi sulle loro stampelle con sbattimento di nacchere, si spingevano vicino al rogo preparato per Isotta; sotto le palpebre gonfie gli occhi sanguinanti godevano lo spettacolo.

Ivano, il più odioso a vedersi, gridò al re con voce stridula: «Sire, tu vuoi gettare tua moglie in questo braciere; è una buona giustizia, ma troppo breve. Questo gran fuoco l'avrà presto bruciata, questo gran vento avrà presto disperso le sue ceneri. E quando la fiamma fra poco finirà, la sua pena sarà finita. Vuoi che io ti insegni un supplizio peggiore, in modo che ella viva, ma con suo gran disonore, e sempre desiderando la morte? Re, lo vuoi?».

Il re rispose: «Sì, la vita per lei, ma a gran disonore e che sia peggiore della morte. A chi mi insegnerà un simile supplizio, io sarò grato».
«Sire, ti dirò dunque brevemente il mio pensiero. Vedi, ho là cento compagni. Dacci Isotta e che ce la godiamo in comune! Il male accende i nostri desideri. Dalla ai tuoi lebbrosi! Mai una dama farà fine peggiore. Guarda, i nostri stracci sono incollati alle piaghe che colano. Lei, che vicino a te si compiaceva delle ricche stoffe foderate di vaio, dei gioielli, delle sale di marmo, lei che gustava vini buoni, godeva onore, gioia, quando vedrà la corte dei lebbrosi, quando dovrà entrare nei nostri tuguri e giacere con noi, allora Isotta la Bella, Isotta la Bionda, riconoscerà il suo peccato e rimpiangerà questo bel fuoco di rovi!». 

Il re ascolta, si alza e resta a lungo immobile. Alla fine corre verso la regina e l'afferra per la mano.
Ella grida: «Per pietà, sire, bruciatemi piuttosto, bruciatemi!». Il re la spinge via.

Ivano la prende, e i cento malati si stringono intorno a lei. Nel sentirli gridare e guaire, tutti i cuori si muovono a pietà; ma Ivano è felice. Isotta se ne va, Ivano la conduce con sé. Fuori dalla città scende il ripugnante corteo.

La punizione dei filistei

La frase seguente: «Quindi in tutta la regione campi e città ribollirono, nacquero i topi, ci fu un gran tumulto di morte nella città»' non fa parte della Vulgata di Girolamo ma è presente nella versione dei Settanta (la traduzione greca della Bibbia ebraica) ed è conosciuta da Pietro Comestore. Egli cita Giuseppe Flavio il quale, nelle Antiquitates Iudacorum aveva ricordato il castigo divino dei filistei manifestatosi in vomito e dissenteria, in aggiunta alla nascita dalla terra di una moltitudine di topi che infierì sugli abitanti e distrusse piante e frutta. 
Scrisse Pietro Comestore nella Storia Scholastica commentando il passo biblico: "la mano del Signore si abbatté sugli abitanti di Azotos [una delle principali città dei filistei] e li colpì nella parte più interna delle natiche e sporgendo marcivano le loro emorroidi."

Giuseppe dice che questo avvenne per la crudele sofferenza della dissenteria cosicché i filistei ebbero gli intestini putrefatti e i topi, usciti dai campi, corrodevano le loro viscere.

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