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Scale Gemonie

Le "scale Gemonie" sono solo una scusa per introdurre uno dei personaggi più controversi ma anche "più tipici" dell'impero romano. Mentre siamo soliti a conoscere i "soliti grandi" come Giulio Cesare, Augusto e Traiano i "soliti grandi cattivi" come Caligola e Nerone si rischia di dimenticare gli "imperatori figli di un dio minore" che sono comunque degni di nota.

Vitellio rappresenta il classico imperatore che dopo un inizio in cui le buone intenzioni prevalevano non ha resistito ala tentazione di abusare della sua posizione perdendosi nei vizi della bella vita.
Come altri imperatori si é bruciato in un lasso di tempo molto breve: in poco più di 8 mesi durò il suo impero, da 16 aprile al 20 dicembre del 69, giorno della sua morte.

Piatto della serie degli Imperatori romani a cavallo - Vitellius - circa 1600-1630 - Limoges (Francia) - Jehan II Limosin - Louvre - RFML.OA.2020.21.1 - Smalto dipinto su rame, spighe d'argento, lumeggiature d'oro.

Rileggendo poi le testimonianze di Svetonio e Tacito non posso fare a meno di pensare alla fine di un "imperatore" più recente come fu quel Gheddafi, che come Vitellio portò con se dell'oro per i suoi ultimi istanti di vita. E proprio come il leader libico fu catturato e in balia del popolo li supplicò di aver salva la vita in quella che si rivelerà essere una fine atroce

Le scale Gemonie

Anche i sassi ormai lo sanno… a Roma, mito, leggenda e realtà si confondono. Nell’antica Roma, sulla scalinata alle pendici del Campidoglio, si esponevano i cadaveri dei giustiziati prima che fossero gettati nel Tevere.

Erano le Scale Gemonie, sulle quali i corpi dei condannati a morte per il delitto di lesa maestà, venivano mostrati dopo il supplizio e lasciati in balia dell’odio del popolo. Una morte estremamente disonorevole, non risparmiata a cittadini anche di altissimo rango, come il potentissimo e ambiziosissimo Seiano, comandante della Guardia pretoriana, il più ascoltato consigliere di Tiberio. Oggi, le "scale dei gemiti", come le chiamavano i Romani, non esistono più, ma si ritiene che si trovassero in via di S. Pietro in Carcere. 



Localizzazione delle scale Gemonie (in rosso) presso il Foro Romano a Roma, dove venne ucciso Vitellio

Vita da Vitellio

Vitellio era incline soprattutto alla crapula e alla crudeltà. I pasti li divideva sempre in tre o talvolta in quattro momenti: colazione, pranzo, cena e baldoria; e tutti quanti riusciva a sostenere per l’abitudine a vomitare.
Si invitava da sé, ora da uno ora dall’altro, nello stesso giorno; e ogni imbandigione non costò mai a nessuno meno di quattrocentomila sesterzi. Famosissima fra tutte fu la cena di benvenuto offertagli per il suo arrivo dal fratello, durante la quale si dice che fossero serviti duemila pesci tra i più prelibati e settemila uccelli. 


Eppure lui superò anche questa con l’invenzione di un piatto che, per la sua smisurata grandezza, usava chiamare «scudo di Minerva protettrice della città». Vi aveva mescolato fegati di scaro, cervella di fagiano e di pavone, lingue di fenicotteri, latte di murena fatto venire fin dalla Partia e dallo stretto di Gibilterra con l’ausilio di triremi e dei loro capitani. 

Ma siccome era uomo di voracità non solo straordinaria, ma anche sordida e fuori luogo, non riusciva a trattenersi mai – nemmeno in viaggio o durante i riti sacri – dal mangiarsi lì per lì le viscere o il pane di farro quasi rubandoli al fuoco dell’altare o, nelle osterie lungo la via, le vivande ancora fumanti o persino del giorno prima e lasciate a metà." (Svetonio, Vitellio, 13)

In questa stampa, l'imperatore Vitellius con la sua galea attracca a Lione.

La fine di Vitellio

[...] Convinse, quindi, il Senato a inviare ambasciatori, insieme con delle vergini Vestali, per chiedere la pace, o comunque una tregua. Il giorno seguente, un esploratore lo informò che reparti di Vespasiano si stavano avvicinando. Subito in lettiga si recò di nascosto sull'Aventino, nella casa della moglie, accompagnato solo da un cuoco e un pasticciere, pronto a fuggire in Campania presso Terracina, dove si trovava l'esercito del fratello Lucio, se almeno quel giorno fosse riuscito a tenersi nascosto. Poi però decise di tornare a palazzo, «credendo in base a una voce vaga e incerta che la pace fosse stata accordata».

«Vi trovò ogni cosa in abbandono, perché anche quelli del suo seguito si stavano dileguando. Si cinse allora ai fianchi una fascia piena di monete d'oro e si rifugiò nella guardiola del portiere, dopo aver legato il cane davanti alla porta ed essersi barricato col letto e un materasso.»

(Svetonio, Vita di Vitellio, 16.)

Imperatore Vitellius a cavallo.

Le avanguardie dell'esercito si erano ormai introdotte in città e non avendo trovato alcuna resistenza, lo stavano cercando ormai ovunque. Lo trovò un certo Giulio Placido, tribuno di una coorte, pur non avendolo riconosciuto inizialmente. Fu condotto nel Foro romano ubriaco e rimpinzato di cibo più del solito, avendo compreso che la fine era ormai vicina, attraverso l'intera via Sacra, con le mani legate, un laccio al collo e la veste strappata. Un soldato germanico gli andò incontro per colpirlo con violenza o per ira o per sottrarlo a peggiori strazi, oppure mirando il tribuno Placido, al quale mozzò un orecchio; per questo fu subito trucidato.

Lungo l'intero percorso venne fatto oggetto di ogni ludibrio a gesti e con parole, mentre era condotto con una punta di spada al mento e la testa tenuta indietro per i capelli, come si fa con i criminali. Fu così costretto a guardare i Rostri, dove aveva pubblicamente rinunciato all'impero, le proprie statue mentre venivano abbattute, il lago Curzio dove era stato ucciso Galba, e alla fine fu portato alle scale Gemonie, dove era stato buttato il tronco senza testa di Flavio Sabino. Venne scannato per le vie di Roma, dopo otto mesi e cinque giorni di regno:

«Sì, io fui una volta il vostro imperatore», furono le sue ultime e, per quanto si sa, le più nobili parole pronunciate da Vitellio. Secondo Tacito dopo queste parole morì sotto un gran numero di colpi, secondo Cassio Dione la sua testa fu portata dai soldati in giro per la città.

«E il volgo lo oltraggiava da morto con la stessa viltà con cui l'aveva adulato da vivo.»

(Tacito, Historiae, III,85)

Morì insieme con il fratello e il figlio, all'età di 57 anni, o 54 come scrive Cassio Dione. Durante la sua breve amministrazione Vitellio aveva mostrato l'intenzione di governare saggiamente, ma fu completamente sotto l'influenza di Valente e Cecina Alieno, che lo indussero a una sequenza di eccessi che misero completamente in secondo piano le sue qualità.

La fine di Vitellio secondo Tacito

Era il 21 dicembre dell'anno 69 d.C. Le legioni fedeli a Vespasiano marciavano trionfanti attraverso la città eterna, sotto un cielo plumbeo che sembrava preannunciare il cambio di un'era. In quello stesso giorno, il destino di Vitellio, il caduto imperatore, si consumava in una tragedia di disperazione e abbandono.

Il palazzo imperiale risuonava soltanto del sinistro eco dei passi di un uomo solo. Vitellio, abbandonato dai suoi stessi, camminava nervosamente per le sale vuote, il cuore colmo di terrore. Tentava di aprire trovare scampo da qualche parte, senza riuscirci. Alla fine, esausto e vinto, il deposto imperatore trovava rifugio in un misero nascondiglio, una scelta che poco dopo si sarebbe rivelata fatale.

Giulio Placido, un tribuno di coorte, lo scovava senza difficoltà. Con le mani legate dietro la schiena e la veste strappata, Vitellio veniva trascinato fuori, un spettacolo miserabile agli occhi di chiunque lo osservasse. Nessuno versava una lacrima per l'uomo che un tempo aveva regnato su Roma; la sua caduta così indecorosa non lasciava spazio al pietà alcuna.

Durante il tragico corteo, un soldato germanico, forse spinto dall'ira o forse nel tentativo di risparmiare all'ex imperatore ulteriori umiliazioni, gli si avventava contro. Il colpo che intendeva forse per Vitellio, colpiva invece il tribuno, recidendo un orecchio, prima di essere lui stesso abbattuto.

Costretto a camminare sotto la spinta delle lame, Vitellio doveva tenere alto il volto, offrendolo agli insulti della folla. Con gli occhi colmi di disperazione, guardava le proprie statue essere abbattute, passava davanti ai rostri, al luogo dove era stato ucciso Galba, e infine veniva spinto verso le Gemonie, il luogo dell'esecuzione di Flavio Sabino.


Dalle labbra di Vitellio sfuggiva solo una frase, un flebile ricordo di tempi migliori, rivolto a un tribuno che lo insultava: un amaro promemoria di essere stato, nonostante tutto, il loro imperatore. Era questo il suo ultimo atto di dignità, subito prima di cadere sotto una pioggia di colpi, la sua vita spezzata così come il suo regno. Il popolo, infido e crudele, lo oltraggiava anche da morto, con la stessa viltà con cui un tempo lo aveva adulato.

La fine di Vitellio secondo Svetonio

Vitellio, divenuto brevemente imperatore nell'anno dei quattro imperatori (68-69) dopo la morte di Galba e Otone, pronunciò la celebre frase dopo la prima battaglia di Bedriaco, camminando nel sangue degli otoniani: "un nemico morto ha un buon odore, e quello di un cittadino lo è ancora di più" (Svetonio, Vitellio, 10). Svetonio aggiunge maliziosamente che però subito dopo comandò di distribuire vino agli astanti per coprire l'odore nauseabondo.


Quando i soldati di Vespasiano entrarono a Roma nel 69 d.C., dopo la sconfitta nella seconda battaglia di Bedriaco, l'imperatore Vitellio, abbandonato da tutti, venne scannato:

«Avevano già fatto irruzione i primi drappelli dell’esercito nemico e, non trovando nessun ostacolo sul proprio cammino, frugavano – come avviene – dappertutto. Lo trascinarono fuori dal suo nascondiglio e, senza riconoscerlo, gli domandarono chi fosse e se sapesse dov’era Vitellio. Tentò di ingannarli con una menzogna; ma poi, vistosi scoperto, non la smetteva più di pregarli perché lo prendessero in custodia, e magari in prigione, con la scusa che doveva fare certe rivelazioni e che ne andava della vita stessa di Vespasiano.

Alla fine, con le mani legate dietro la schiena e un laccio passato attorno al collo, seminudo, con la veste a brandelli, fu trascinato verso il foro, fatto segno, per quanto è lunga la Via Sacra, a gesti e parole di ludibrio. Gli torcevano il capo tirandolo per i capelli, come si fa con i criminali, con la punta di una spada premuta sotto il mento perché mostrasse il volto senza abbassarlo. C’era chi gli gettava sterco e fango e chi gli gridava incendiario e crapulone. La plebaglia gli rinfacciava anche i difetti fisici: e in realtà aveva una statura spropositata, una faccia rubizza da avvinazzato, il ventre obeso, una gamba malconcia per via di una botta che si era presa una volta nell’urto con la quadriga guidata da Caligola, mentre lui gli faceva da aiutante. Fu finito presso le Gemonie, dopo esser stato scarnificato da mille piccoli tagli; e da lì con un uncino fu trascinato nel Tevere.»

Vitellio alla “Wunderkammer” del museo storico di Basilea

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