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La rivolta della Leventina

Abito in Leventina da più di 40 anni. Malgrado le mie origini sulla carta non portano il nome di queste terre mi reputo tutto e per tutto un leventinese. 

La storia della valle é stata fortemente condizionata dalla sua morfologia; così come lo sperone di roccia a Bellinzona dove é stato costruito il castello di Montebello ha condizionato la storia di queste valli altrettanto si può dire del massiccio del Gottardo e soprattutto del suo passo che ha via via acquisito sempre più importanza attirando attenzioni con relative conseguenze. Tra i vari avvenimenti capitati in valle uno dei più famosi é quello della cosiddetta "rivolta della Leventina". Parole grosse, da testata giornalistica in ricerca di scoop, usate dagli urani per giustificare atti ingiustificabili.

L'alfiere della Leventina nel 1518 secondo il progetto di vetrata di Hans
Holbein il Giovane (1497/98-1543) conservato a Berlino.
Sullo sfondo la montagna del San Gottardo affrontata dai somieri. E possibile che il progetto sia stato elaborato durante il soggiorno dell'H. a Lucerna.

Per iniziare prendiamo due istantanee degli eventi: una giusto all'alba dei fatti mentre la seconda subito dopo la fine

FOTOGRAMMA INIZIALE

Dicembre 1755. Immaginatevi di essere un signorotto inviato dal governo centrale come rappresentante del potere centrale un baliaggio di una valle.

Sapete che c'é un contenzioso in corso da qualche tempo tra il governo che voi rappresentate e gli abitanti del baliaggio; é inerente la gestione della curatele degli orfani; il cantone sovrano richiede di visionare i conti degli orfani curati dai tutori. I leventinesi si rifiutano. Il cantone urano sovrano insiste. I leventinesi si rifiutano nuovamente. 
È un escalation di stampo infantile "per me é no" "e per me invece é si" "e per me invece é no" ecc ecc

E ora immaginate di salire da Faido verso il piottino: state andando a trovare il gestore del dazio, il vostro compaesano Tanner, é un vostro parente e vi vedete regolarmente.

Dazio grande 1833

Ma questa volta va diversamente, un gruppo di giovani faidesi vi arresta (c'é chi sostiene fossero in 300 vi trattano in malo modo) e vi riaccompagna a Faido alla vostra dimora.
Intanto un messaggio é già partito per la sede centrale del vostro Governo (Altorfo), in esso si descrive che la Leventina tutta é in rivolta, che si sono imbracciate le armi, un vero scoop degno dei TG scandalistici, ma siamo nel 1755.
Altdorf prende la palla al balzo, e già infastidito dalla questione delle curatele e per altri contenziosi, decide di farla finita e dare una lezione agli arroganti leventinesi. 
L'arresto del lanfogto Gamma casca a pennello ed é il classico casus belli.

Uno storico mi odierebbe per questo riassunto troppo riassunto sugli eventi scatenanti la rivolta (termine esagerato, la protesta sarebbe più consona) della Leventina. Non un solo colpo sparato, non un solo ferito, eppure le conseguenze saranno spropositatamente pesanti per i leventinesi

FOTOGRAMMA FINALE

"Poveri e miserabili contadini della Leventina, riconoscete infine a quali estremità vi siete posti da voi stessi, e non abbandonatevi più in futuro a simili eccessi "

 "Non sapete dunque che la legge del Signore dice 'date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio'? E voi, senza la minima ragione, avete l'ardire di erigervi contro il vostro legittimo sovrano che fino ad oggi con tanto affetto, benevolenza e amore vi ha governati e protetti, di prendere le armi contro di lui e di arrestare con tanta sfrontatezza i suoi rappresentanti. (...)"

"Se mai in futuro in queste terre si noterà il minimo segno di rivolta, saremo pronti a porvi fine con la stessa forza e potenza che per ora vi viene risparmiata, e a sterminarvi completamente."


L'intera popolazione della Leventina deve giurare nel nome di Dio e di tutti i Santi di contribuire in ogni modo a promuovere il benessere della terra di Uri: noi abitanti della Leventina, in considerazione del nostro cattivo comportamento attuale, giuriamo e promettiamo con questo giuramento di sottometterci completamente e di obbedire senza la minima resistenza, con l'aiuto di Dio e di tutti i Santi».

Lo stesso anno Russeau scriveva “delle origini e delle cause dell’ ineguaglianza tra gli uomini”

POSSIBILI CAUSE

Si può nuovamente avanzare l'ipotesi che, come nel 1713

la crisi legata al servizio mercenario abbia indotto il Cantone di Uri ad aumentare la pressione economica sulla Leventina per sopperire in parte alle mancate entrate finanziarie

Nessun altro cantone percepiva, in proporzione alla sua popolazione, pensioni più alte, in nessun altro luogo i diritti legati alla sovranità (redditi prelevati sui sudditi, dazi, ecc...) avevano un peso maggiore ». Questa situazione determinava l'identità stessa degli urani: stando ad un osservatore contemporaneo, Gottlieb Christian Schmid, «ogni comune cittadino di questo piccolo stato democratico, di 29 miglia quadrate e 13 000 abitanti, ha l'impressione di valere tanto quanto un principe tedesco, e ognuno è in grado di far risalire la propria genealogia ad un qualche famoso eroe.

Anche perchè ai dirigenti urani doveva ancora bruciare il ricordo delle concessioni strappate dai leventinesi negli anni 1712-13, nel momento di debolezza seguente la sconfitta dei cantoni cattolici nella guerra di Villmergen, e sotto l'influsso della mediazione confederata. Tali concessioni avevano sancito il fallimento parziale dello sforzo urano di assicurarsi nuove competenze ai danni delle libertà tradizionali della valle: uno dei punti cruciali era il sistema di elezione dei parroci da parte delle comunità, ma probabilmente anche la ripartizione delle pensioni francesi con i sudditi leventinesi. Nel 1755 si presentò l'occasione di rifarsi dello smacco subito

Fuga delle truppe della Svizzera centrale durante la battaglia di Villmergen (25.7.1712). Olio su tela realizzato poco dopo il 1712 dal monogrammista J.S., probabilmente Johann Franz Strickler (Museo nazionale svizzero, Zurigo, LM-16809).

L'artista, originario della Svizzera centrale, critica l'atteggiamento dei Lucernesi. Presi dal panico, questi ultimi abbandonano i loro pezzi di artiglieria e si danno alla fuga, inseguiti dai Bernesi (a destra). Il pittore rappresenta il brigadiere Ludwig Christoph Pfyffer von Wyher, ritenuto responsabile della sconfitta, mentre batte vilmente in ritirata a cavallo.

LIBERTÀ A RISCHIO

«La presenza svizzera nei baliaggi 'italiani', si è tradotta con una 'amministrazione leggera', che lasciava sopravvivere dei larghi spazzi d'autonomia nella gestione della vita pubblica ed economica locale. Le cariche pubbliche principali, che assicuravano il legame fra il balivo e la popolazione, erano largamente controllate da un numero ristretto di famiglie che si trasmettevano queste funzioni d'una generazione all'altra, nell'ambito di uno stesso lignaggio»

Le libertà care ai Leventinesi che erano state messe in discussione dal Cantone sovrano o che lo sarebbero state nel corso del XVII secolo: la proibizione di modificare gli statuti, la possibilità di essere considerati cittadini urani a tutti gli effetti (come abbiamo visto questo privilegio era unicamente riservato a pochi notabili), i limiti geografici dell'intervento della milizia leventinese, i cui costi pesavano in parte sulla Valle, il diritto di ogni comunità di eleggere i parroci ed i cappellani e la possibilità politica per la Leventina di sganciarsi da Uri.

URI RISPONDE PICCHE

Così si arriva alla faccenda delle curatele: la lettera di protesta venne inviata ad Altdorf, ma il Cantone sovrano, a differenza di quanto era avvenuto spesso in passato, non cercò di trovare un compromesso con i suoi sudditi, e il 3 maggio dichiarò che se in pochi giorni non fossero state accolte le sue richieste sarebbe ricorso ad un intervento armato. 

A questo punto furono inviati due notabili di provata fedeltà nei confronti di Uri per spiegare al Consiglio del Cantone le ragioni dei Leventinesi: il landscriba Giuseppe Maria Bullo ed un Vella di Bedretto.

BULLO E VELLA CAPRI ESPIATORI

In una lettera postuma inviata probabilmente nel 1798 da D. Giovan-Giuseppe Calgari, cappellano di Altanca , a Giacomo Gianotti, tesoriere della Leventina, si sottolineava in generale le responsabilità per il tragico epilogo degli avvenimenti del 1755 dei notabili leventinesi ed in particolare dei due emissari inviati dagli abitanti della Valle ad Altdorf:
«In secondo luogo, quel castigo non era necessario, perché se i Tedeschi avesser avuto prudenza, e buon senso, dovevano sul principio chiamar a se i capi faziosi, e punirli, anzi sono stati essi la causa di questo male, perché due di questi birbi erano fuori in Altorfo; invece di rimandarli al Paese, dovevano impiccarli, che il tutto era terminato, ma avendoli lasciati venire, sono poi essi stati quelli, che hanno acceso quella specie di insubordinazione. E chi ne fu la causa, se non la Suprema stessa, mancando di castigare chi ne era degno? »

CAN CHE ABBAIA NON MORDE

In realtà, dal 1602 i Leventinesi avevano minacciato più volte di brandire le armi contro i loro signori se le franchigie fossero state messe in discussione, ma non erano mai passati alle vie di fatto. Quindi, fino a quel momento, se paragonata alle proteste avvenute nei decenni precedenti, quella del 1755 non presentava niente di nuovo. Lo stesso Giuseppe Maria Bullo si era recato ad Altdorf a spiegare al Consiglio di Uri le ragioni della Valle, come aveva fatto 153 anni prima il suo antenato. L'unico aspetto inedito era in realtà l' intransigenza urana. In altri termini, il Cantone sovrano cercava un' occasione favorevole per poter aumentare le entrate provenienti dalla Leventina, per fornire dei benefici ecclesiastici ai figli cadetti dei suoi notabili, salvaguardando così i suoi interessi economici messi a repentaglio dalla crisi del servizio mercenario

SVITTO INVITA ALLA CALMA

Il 7 maggio Svitto propose ad Uri di sedare amichevolmente il diverbio con i suoi sudditi, questo avviso era anche condiviso da Zugo e Glarona. Dichiarata la guerra, le truppe di Svitto vi parteciparono malvolentieri a causa della neve e della pioggia. Non entrarono poi in campagna perché la loro presenza, considerando la mancata reazione militare degli abitanti della Valle, non fu ritenuta necessaria. Il giorno dopo la svolta

ARRESTI DOMICILIARI

La protesta alimentata da parte dei più importanti esponenti della Valle, che avevano saputo sfruttare il generale malcontento degli abitanti, prese una via imprevista e gravida di conseguenze quando domenica 8 maggio un gruppo di giovani di Faido, che stavano assistendo alla funzione, decise di arrestare poco oltre Polmengo armi in pugno il landfogto che si stava recando a cavallo al Dazio grande per parlare con il daziere Tanner, un suo parente.

 A quanto pare un certo Scolari, arrivato presso la Chiesa parrocchiale gridò «che il landfogto si fuggiva a prender forza in Urania» (andava nel Cantone di Uri a chiedere rinforzi). Probabilmente i notabili non avevano calcolato che i sentimenti antiurani - un prete aveva parlato apertamente di rivolta dal pulpito di una chiesa potessero sfociare in un atto di aperta e grave insubordinazione quale l'arresto del rappresentante del potere sovrano in Leventina. Ormai si era giunti al «casus belli», importava poco che il landfogto fosse "accompagnato alla sua abitazione senza che per altro gli fosse fatto affronto di sorta, e molto men fu posto [in] prigione, come ipocritamente aveva espresso il rapporto del Tanner, e dietro a quello alcuni storici male informati."
Libero era in casa sua il Landfogto, ed in Faido ancora, se gli fosse piaciuto uscire, soltanto eran tenute osservate, sia di giorno, che di notte, le uscite del Comune, sempre pel timore non sen andasse a richiamar truppe»
La ponderata protesta dei notabili stava quindi diventando una rivolta rurale, con i tipici eccessi di una «jacquerie paysanne». 
I Leventinesi però si fermarono, non ci furono altri atti di insubordinazione ed il landfogto riacquistò in pochi giorni la libertà.

CASUS BELLI

L'avvenimento però fornì agli Urani un pretesto per poter intervenire. Allarmati dalla descrizione dei fatti fornita dal daziere Tanner, decisero di prendere in ostaggio i due messi leventinesi, che nel frattempo, ignari degli ultimi avvenimenti, si erano fermati ad Amsteg per rifocillarsi. Vennero accusati di tradimento ed incarcerati nella prigione ubicata nella Torreta ad Altdorf. 

Gli Urani avevano con questo atto «perso la testa», perché arrestare Giuseppe Maria Bullo significava colpire l'esponente di una delle famiglie che in passato, malgrado il ruolo avuto nelle proteste dei Leventinesi, aveva sempre dimostrato la sua fedeltà nei confronti del Cantone sovrano,

la falsa descrizione dei fatti fornita a Altdorf dalla staffetta inviata dal daziere Tanner poteva spiegare l'arresto dei messi leventinesi

«[... ] Il signor Landfogt era stato arrestato da gente armata, e messo in prigione, il popolo in piena rivolta, ed armansi per far fronte alle forze urane sul S.Gottardo, e nelle strette di Monte Piottino, e che senza una pronta compressione [intervento N.d.A.], difficilmente si poteva evitare una guerra sanguinosa».


TENTATIVO DI NEGOZIAZIONE


Il dispositivo militare si stava schierando e quindi non rimaneva altro da fare per i Leventinesi che tentare un'ultima disperata negoziazione al fine di scongiurare il peggio. In quest'ottica dev'essere interpretata l'uscita avvenuta il 15 maggio 1755 nella Valle di Orsera della delegazione composta dal vicario Giudici, con altri rappresentanti del clero uranofilo ed il landfogto Gamma, che nel frattempo era stato liberato. Essi cercarono di convincere il capitano generale Schmid a non intervenire militarmente. La missione, come già osservato, non ebbe successo. 

INVASIONE DELLA LEVENTINA

Il 21 maggio le truppe entrarono in Leventina.
Si ebbe poi il disperato tentativo di fermare la marcia dei soldati da parte degli uomini di Airolo disarmati, che sventolavano gli stendardi dei santi Nazzaro e Celso. Sul piano di Piotta il giorno seguente altri 300-400 uomini in abito di confratello, provenienti dalla vicinanza di Faido, implorarono clemenza, ma fu loro risposto che «a Faido si renderebbe giustizia».
In realtà ai Leventinesi, avendo rinunciato ad ogni resistenza armata, non rimaneva altro che implorare il perdono del Cantone sovrano perché la punizione poteva manifestarsi anche sottoforma di incendi e saccheggi.

Oltre ai tre «martiri» che subirono la pena capitale, altri furono condannati, alcuni dei quali in contumacia, molti scapparono sugli alpi, in val Morobbia o valle Maggia


Gli imprigionati furono condotti ad Altdorf, dove vennero probabilmente esposti alla berlina. Dei 9 o 12 membri del Consiglio di Leventina, che avevano incaricato di scrivere il documento di protesta, solamente 4 furono condannati. Anche il landscriba Vella, che aveva abbozzato il testo, non figurava fra coloro che furono sottoposti ad una pena. E nemmeno il landscriba Giuseppe Maria Bullo, che partecipò in prima persona agli eventi, e che poté continuare ad esercitare la sua attivita. La giustizia urana fu quindi selettiva e si guardò bene dal colpire tutto il notabilato locale coinvolto negli avvenimenti. Degli intermediari erano ancora necessari al Cantone sovrano per poter governare la Valle.

L'intervento militare di Uri e dei suoi alleati era stato massiccio rispetto all'inesistente resistenza dei leventinesi. Occorreva quindi per giustificare le decapitazioni, le condanne e soprattutto la riduzione delle franchigie «inventarsi una guerra».
A questo pensarono gli «storici» d'Oltralpe.

VERBA VOLANT, SCRIPTA MANENT

«Senza documenti non vi è storia» 
«Spesso la storia è scritta dai vincitori...»


Il 31 maggio 1755, il capitano generale urano Jost Sebastian Heinrich Schmid inviò una lettera al Consiglio di Uri nella quale chiedeva disposizioni sull'opportunità di portare nel Cantone la bandiera ed il tesoro della Valle depositato nell'archivio. Inoltre, domandava sul da farsi a riguardo delle casse delle vicinanze e dei documenti dell'archivio di Leventina. In un' altra fonte si parla dello «[...] spoglio che hanno fatto del nostro Archivio nell'anno del 55, degli scritti più buoni, e preziosi, danno che può essere questo incalcolabile. Che abbiano manomesso l'archivio, il segretario Bullo, ne può far fede, se mai negassero »

La manomissione dell'archivio della Valle è un fatto reale, che spiega la scarsità di documenti esistenti sulla protesta del 1755. Pochissimi testi si sono salvati, in particolare grazie agli archivi delle vicinanze.

Appropriarsi della bandiera del nemico vinto in battaglia, benché non ci fosse stata nessuna guerra nel 1755, era un atto usuale nell'Antica Confederazione: spesso gli stendardi degli avversari venivano esposti quali trofei nelle chiese o conservati negli arsenali. 

Stendardo preso dal conte Johannes von Sonnenberg, che combatteva a fianco della Lega di Svevia per il re Massimiliano d'Austria.
Bottino della guerra di Svevia, stendardo, 1490 circa.
Taffetà di seta dipinto. Museo nazionale svizzero di Zurigo

La requisizione del tesoro della Valle quale bottino di guerra è anch'essa facilmente comprensibile. Ma perché saccheggiare i documenti presenti nell'archivio di Leventina? Le motivazioni sono principalmente due. Da un lato, togliere ai Leventinesi i testi più importanti, significava privarli della loro storia, che era stata contraddistinta - come abbiamo visto - da una serie di proteste per far valere i loro diritti. In pratica, si gettava un colpo di spugna sulle loro antiche franchigie e si rendeva difficilmente documentabile qualsiasi ulteriore rivendicazione, in base a principio «verba volant, scripta manent». D'altro canto, privandoli della documentazione concernente i fatti del 1755, si rendeva possibile la diffusione di una vulgata degli avvenimenti, che difficilmente si sarebbe potuta smentire.

Nella lettera già citata inviata il 15 maggio dal Consiglio di Uri al capitano Schmid, emerge chiaramente che fino a quel momento il governo del Cantone sovrano credeva di trovarsi confrontato con una rivolta in armi di parte della popolazione. In base a questa considerazione era stato chiesto l'aiuto militare degli alleati. Ma i soldati che occuparono la Leventina a partire dal 21 maggio 1755 non incontrarono nessuna resistenza, né tanto meno vallerani in armi. Lo stesso landfogto Gamma era stato liberato alcuni giorni prima. Occorreva quindi poter giustificare in qualche modo la mobilitazione di uomini e di mezzi, le severe punizioni inflitte ai presunti colpevoli e soprattutto il nuovo «Decreto di Sovranità» del 28 ottobre 1755. Il documento è preceduto da una cronistoria dei fatti, che aveva lo scopo di giustificare i 20 nuovi articoli uniti agli Statuti della Valle. Questa vale la pena di essere analizzata, perché contribuì a diffondere un immaginario dell'avvenimento presente ancora oggi.

URI: UNICA VERSIONE AMMESSA 

Dopo aver riassunto fedelmente i fatti legati alla richiesta di mostrare i conti delle curatele, il Cantone sovrano ingigantiva l'episodio dell'arresto del landfogto.

« Non solo fu fatta provisione d'arme, e munizione per opporsi alla sovranità loro Natural Principe, ma anche da gente armata fu arrestato da una parte di loro il nostro reggente Landfogt alla casa del Dazio, circondata di giorno e di notte con guardie, suspeso il Dazio della Superiorità e messa una guardia d'huomini armati sopra il monte S. Gottardo»

L'arresto del landfogto da parte di uomini armati corrispondeva al vero, ma il fatto di trattenerlo ed imprigionarlo al Dazio implicava l'occupazione militare dell'edificio, che era di proprietà urana.
L' «averlo sospeso», impedendo quindi l'incasso della tassa daziaria, poteva da solo giustificare ampiamente l'intervento militare perché, come più volte osservato, quasi 1/3 delle entrate sovrane provenivano da questa infrastruttura. 
L'idea poi che i Leventinesi avessero messo una guardia armata sopra il San Gottardo, lasciava intendere nella migliore delle ipotesi che si preparavano in caso di pericolo a scappare sui maggenghi o sugli alpi e nella peggiore che gli abitanti armati fossero pronti a dare battaglia, magari nella gola del Piottino, come aveva suggerito qualche cronaca. Si trattava di invenzioni volte a giustificare l'intervento militare contro una popolazione inerme. I Leventinesi, sia pur divisi sul da farsi, avrebbero potuto schierare se non i circa 2'000 uomini della milizia, almeno alcune compagnie di combattenti che avrebbero potuto causare comunque delle perdite alla «spedizione punitiva». 

Gli abitanti della Valle, che avevano partecipato alle imprese militari del Cantone sovrano, si erano spesso distinti sul campo di battaglia. Non era quindi di sicuro la tradizione militare o l'istruzione al combattimento che facevano loro difetto. In realtà non furono spaventati dall'entità delle truppe scese in campo, ma semplicemente avevano rinunciato sin dall'inizio ad ogni resistenza armata, forse su consiglio degli stessi notabili. Questo è facilmente dimostrabile in base a quanto avvenuto durante la «guerra delle forcelle o dei forchetti» - la Vandea leventinese - del 1799, durante la quale le truppe della Valle, schierate a fianco degli ex dominatori, si batterono con valore contro le superiori forze francesi.

«Seguito questo, il suddetto Paese di Leventina subito deponendo le sue armi, si è messo all'ubbidienza, e con solenne giuramento si è reso a discrezione».

I LEVENTINESI RIDONO

Secondo una lettera del capitano Schmid inviata al Consiglio di Uri da Faido il 23 maggio 1755, le armi più che deposte, furono consegnate ai soldati. Quanto agli abitanti di Faido, si diceva che non facevano altro che ridere.

il massiccio spiegamento di truppe, al quale non seguì nessuno scontro armato, aveva causato una certa ilarità.

«leri siamo giunti qui [a Faidol con il 1° ed il 2° reparto e con 340 uomini di Obvaldo e 240 di Nidvaldo, stamattina abbiamo fatto suonare le campane a martello e abbiamo ordinato di casa in casa, che tutta la vicinanza consegnasse i suoi fucili, e così avvenne. Quando furono riuniti, le nostre truppe hanno disarmato coloro che possedevano delle armi, e si è spiegato loro precisamente l'Alto Comando; con tutto ciò sembra che questa gente non sia per niente dispiaciuta per quello che hanno commesso, poiché la maggior parte di loro non faceva altro che ridere»

NUOVO STATUTO

Comunque, grazie ad alcune invenzioni, la sovranità urana era riuscita ad imporre 20 nuovi articoli alla Leventina, che fu dotata in pratica di un nuovo statuto.

Uri, che da anni aspettava l'occasione propizia per poter assoggettare maggiormente la Leventina e convinto della necessità di un intervento armato, aveva mobilitato, grazie all'alleanza confederale, un contingente sproporzionato di uomini.

Il Cantone sovrano, dopo aver occupato la Valle, aveva voluto dare l'esempio tramite l'esecuzione dei cosiddetti «capi della rivolta» e le pene imposte a coloro che avevano contribuito alla protesta. Aveva poi utilizzato 5 mesi per poter sfruttare a fondo la situazione favorevole e revocare alcune franchigie godute fino a quel momento dai Leventinesi, ma per giustificare le nuove imposizioni occorreva elaborare una storia degli avvenimenti in gran parte inventata.

UNA COSA IN 300 ANNI

«L'autonomia in Leventina prima della rivoluzione del 1755 era maggiore che negli alti baliaggi».

Il Cantone di Uri, che aveva inizialmente occupato la Leventina per motivi strategici, aveva in seguito cercato di sfruttare la Valle da un punto di vista economico. Essa non assunse mai la stessa importanza che ebbe la Valtellina per le Leghe grigie, grazie alla coltivazione della vite, ma comunque rappresentò una fonte di entrate non trascurabili per il Cantone sovrano tramite la costruzione del Dazio grande ed i prestiti concessi dalle potenti famiglie urane e dagli enti religiosi alle corporazioni o ai privati. 

Gli interessi, benché non superiori al 5%, venivano riscossi per un periodo molto lungo - talvolta superiore agli ottant'anni - e non si estinguevano con la morte dei richiedenti

In più di trecento anni di dominazione, l' unica importante realizzazione da parte degli urani fu il Dazio grande

Dopo la protesta del 1755, che divento un pretesto per poter aumentare le entrale provenienti dalla Valle, il Cantone sovrano incamero le pensioni francesi versate provenienti a partire dal 1713. L'assegnazione dei benefici ecclesiastici passò a sua competenza, contribuendo a fornire in alcuni casi de posti da occupare ai cadetti delle importanti famiglie urane destinati alla carriera ecclesiastica. A monte di queste imposizioni, stavano la crisi del servizio mercenario e la necessità di diversificare le entrate; anche se l'incremento dei traffici attraverso il San Gottardo nel corso del XVIII secolo, come asserito dallo storico Anselm Zurfluh, ha forse potuto colmare il disavanzo della bilancia dei pagamenti urana.

MILIZIA LEVENTINESE

Durante i secoli di sudditanza, la milizia leventinese aveva più volte dimostrato il proprio valore sui campi di battaglia a fianco dell'esercito urano. Una parte di questo contingente militare fino al 1755 combatteva sotto la bandiera della Valle ed il suo comandante faceva parte di quello che oggi si chiamerebbe lo stato maggiore urano. È quindi in questo specifico settore che apparivano in modo più evidente le libertà che erano state concesse dal Cantone sovrano alla Valle. D'altro canto, fu proprio il timore che la milizia scendesse in campo contro i dominatori, che indusse gli Urani a chiedere il sostegno militare da parte degli altri cantoni, perché ad Altdorf, fino all'entrata del contingente militare in Leventina, si temette veramente di dover affrontare magari nella gola del Piottino, com'era poi chiaramente emerso dall'immaginario dei «vincitori», gli abitanti della Valle in armi. La ricostituzione della compagnia dei volontari nel 1785 mostra chiaramente che il Cantone di Uri aveva tutto l'interesse a poter disporre nuovamente dei soldati della Valle.

POTERE RELIGIOSO

Nella Leventina, fin dal 1480, erano presenti due poteri: quello politico del Cantone di Uri e quello religioso esercitato fino alla prima metà del XVI secolo dai 4 conti canonici ed in seguito sempre più dagli arcivescovi di Milano. La questione delle benefici ecclesiastici non deve essere percepita unicamente dal punto di vista religioso, ma anche da quello economico. Le terre ed i diritti delle chiese e delle cappelle presenti nella Valle erano considerati a tutti gli effetti di proprietà delle corporazioni e quindi facevano parte del patrimonio che permetteva la sussistenza di una società a beni limitati. Inoltre, la nomina dei preti era anche un problema politico, perché da un lato essi esercitavano un' indubbia influenza sui fedeli . L'atteggiamento del cardinale Giuseppe Pozzobonelli fu di estrema prudenza durante i fatti del 1755, perché lo schierarsi apertamente di una parte del clero leventinese contro il potere sovrano poteva fare intendere ad Altdorf che la curia milanese ambisse a recuperare la sovranità politica sulla Valle, appartenuta in passato ai 4 conti canonici.

Quindi, dopo aver acconsentito alla richiesta urana che le chiese ed i conventi non fossero utilizzati come un rifugio da parte dei presunti sudditi leventinesi. Il cardinale Filippo Visconti, continuando la politica dei suoi predecessori, aveva cercato di arginare la decisione del Cantone sovrano di attribuirsi la competenza di scegliere gli ecclesiastici della Valle e di potere in questo modo favorire i candidati d'Oltralpe. L'idea era quella di incrementare il numero degli allunati presso il seminario minore di Pollegio attraverso la soppressione dell'ospedale di Faido, che causò reiterate proteste da parte dei vicini, e di alcuni ospizi per viandanti presenti nell'alta Valle e la cessione dei loro beni all'istituto religioso. Il Cantone sovrano evidentemente non stette a guardare e, prendendo come pretesto le spese sempre maggiori necessari al suo buon funzionamento, fra il 1788 ed il 1796 il seminario venne chiuso.

I NOTABILI

I notabili presenti a Faido, abbiamo appena sfiorato il caso delle altre influenti famiglie che abitavano nelle altre località della Leventina, grazie alla vicinanza geografica con il landfogto ed alla ricchezza accumulata in modo particolare dalla famiglia Varesi e in parte da quella dei Bullo, avevano assunto un ruolo importante in qualità di intermediari fra la popolazione ed il potere sovrano, ricoprendo principalmente le cariche di vicelandfogto e di landscriba e fra Uri e gli arcivescovi di Milano, dai quali avevano ricevuto dei titoli nobiliari. Spesso avevano anche assunto dei ruoli amministrativi nell'ambito della vicinanza di Faido, della degagna di Fichengo e della terra di Faido, difendendo gli interessi di queste corporazioni quando entravano in lite con le altre. I risultati ottenuti erano in gran parte dovuti ai rapporti privilegiati che intrattenevano con il potere sovrano. La loro presenza nel capoluogo leventinese e soprattutto l'apertura della nuova mulattiera attorno alla metà del XVI secolo avevano permesso a Faido di assumere una maggiore importanza nell'ambito della Valle.

I notabili ebbero un ruolo di primo piano durante le proteste del XVII secolo ed anche in occasione degli avvenimenti del 1755. Era infatti nel loro ambito che erano stati elaborati - in occasione dei tentativi urani di ridurre le franchigie della Leventina - i documenti di protesta che venivano presentati all'amministrazione urana. Erano gli esponenti di queste famiglie - i Varesi prima, i Bullo ed i Giudici in seguito - che si recavano ad Altdorf a spiegare le ragioni dei Leventinesi. 

Il parlamento di Leventina aveva il ruolo di approvare i documenti di protesta inviati ad Uri, in pratica la linea di condotta proposta dalle famiglie notabili. 

CURATELE

Però in talune occasioni, come appunto nel 1755, le discussioni al suo interno potevano anche esasperare gli animi ed i toni del confronto, aggravando il contenzioso con i signori di Uri. La protesta del 1755 rivolta principalmente contro il decreto sulle curatele era stata gestita inizialmente da alcune influenti famiglie della Valle, che temevano una possibile diminuzione della loro influenza sulla popolazione e quindi in definitiva del loro potere, oltre alla volontà di arginare un provvedimento che andava contro le autonomie locali e mirava ad introdurre dei principi di modernità nella società tradizionale. 
Nella condotta dei Leventinesi non vi era quindi stata inizialmente nessuna novità rispetto alla difesa delle franchigie attuata a partire dall'inizio del Seicento. Il Cantone di Uri però, a causa della crisi del servizio mercenario, una delle tre attività che assicuravano la sua esistenza con il trasporto delle merci e l'allevamento del bestiame, 

Uri era intenzionato a approfittare della prima occasione favorevole per ridurre le franchigie della Valle in modo da poterla sfruttare ulteriormente da un punto di vista economico

La situazione, già resa difficile dalla mancanza di un'unità d'intenti da parte della popolazione leventinese, sfuggi di mano ai notabili quando un gruppo di giovani di Faido decise di arrestare il landfogto in prossimità del Piottino. Da quel momento gli avvenimenti presero una direzione imprevista. Sembrò inizialmente che ci si stesse incamminando verso una rivolta rurale, ma poi non ci furono degli altri atti di insubordinazione nei confronti del Cantone sovrano. 
Gli Urani, con l'appoggio dei cantoni alleati, vollero inizialmente fornire un esempio attraverso le «spettacolari» decapitazioni di Faido a cui dovettero assistere anche le truppe inviate dai baliaggi di Blenio, Bellinzona e Riviera. Sicuramente sulla decisione di ricorrere alla pena capitale ebbe anche un influenza la protesta che si era verificata nella Valle di Blenio nel 1748. Gli Urani furono comunque selettivi nella punizione degli esponenti delle famiglie di notabili che avevano partecipato con modalità diverse alla protesta.

Evidentemente, questi intermediari erano ancora indispensabili per garantire il governo della Valle. Poi, nel giro di alcuni mesi con il «Decreto di Sovranità», ridussero sensibilmente le libertà dei Leventinesi. In base ad uno studio comparativo degli statuti della Leventina, di Blenio e della Riviera, appare infatti chiaramente che le autonomie degli abitanti della Valle erano state fino a quel momento maggiori rispetto a quelle godute dalla popolazione degli altri due baliaggi. Infatti, fino all'ottobre 1755 - quando venne introdotto il 20° capoverso del «Decreto di Sovranità» - non esisteva negli Statuti di Leventina un articolo paragonabile al 217° di quelli di Blenio presente fin dal 1500: «Come li Magnifici Signori s'hanno riservato poter mutare tutti i statuti».

«E statuito, ed ordinato li Magnifici Signori delle tre Leghe Urania, Svito, ed Undervaldo hanno riservato a se stessi chiaramente di poter questi Capitolo, e posti, e scritti nel Volume de Statuti mutare a loro beneplacito, come a loro meglio parerà esser necessario».

Inoltre, il Consiglio di Leventina aveva delle estese competenze ed il tribunale della ragione non trovava corrispondenti negli altri baliaggi. Il primo organo fu abolito a seguito dei fatti del 1755. Il Consiglio fino a quel momento non aveva unicamente svolto un ruolo giuridico, ma in occasione delle proteste dei Leventinesi nei confronti Uri si era spesso comportato come un vero e proprio organo esecutivo. E anche sicuramente per questo ruolo generato dalle franchigie della Valle, che il Cantone sovrano decise di eliminarlo. Lo stesso discorso vale anche per il parlamento, che aveva votato le risoluzioni inviate ad Altdorf.

« Non si deve per l'avvenire far parlamenti in Leventina, ed unicamente prestare il giuramento in presenza delli SS. Ambasciatori, e questo solo alla venuta di un nuovo Landfogt [...]»

La presenza di famiglie di notabili, che svolgevano un ruolo di intermediari fra la popolazione locale ed il potere sovrano, non era evidentemente una peculiarità della Leventina. Ogni baliaggio aveva le sue. Si pensi ai Molo di Bellinzona, ai Franzoni della Valle Maggia o ai Beroldingen di Mendrisio. Però le famiglie leventinesi dei Varesi, dei Bullo e dei Giudici, solo per citare alcune delle più importanti, dovettero sostenere il difficile compito di difendere le ampie franchigie della Valle ed in definitiva anche i loro interessi di fronte alle autorità urane. Spesso, come nel 1755, con degli atteggiamenti che, data la loro difficile posizione, potevano apparire ambigui.

In conclusione, per dare un significato politico a questa protesta di Leventina, che si tramutò in un pretesto per il Cantone di Uri, dobbiamo inserirla nei movimenti contrari alla centralizzazione amministrativa che fin dal XVII secolo contribuirono alla creazione del nostro federalismo.

L'impressione è tuttavia che, paradossalmente, al di là della brutale repressione e delle punizioni decretate dall'autorità urana, i leventinesi abbiano ottenuto un successo, almeno parziale. Sappiamo che perlomeno sulla questione centrale del controllo delle tutele, le ingerenze urane non ebbero un seguito. I libri delle tutele furono presentati per un paio d'anni, ma poi si tornò agli usi tradizionali.

Invece il risarcimento per le spese provocate dall'intervento militare del 1755, le vicinanze della Leventina furono obbligate a versare al Cantone di Uri un indennizzo pari alle pensioni ricevute dal 1713 al 1755 (9'600 fiorini) e continuarono a riversare queste pensioni fino al 1789, con un importo di altri 8'015 fiorini, per un totale di 17'615 fiorini

I MARTIRI

Gli urani nelle loro esecuzioni del 1755 cercarono anche di colpire parte di coloro che avevano partecipato alla stesura del Memoriale di protesta, in particolare il capitano Lorenzo Orsi.
Quanto al vecchio alfiere Forni, uomo di severi costumi, ed «ad Urania attaccatissimo», si rifiutò inizialmente di apporre al Memoriale di protesta il sigillo della Valle, di cui era custode. Per ovviare a questo impedimento un suo nipote glielo sottrasse! Responsabile sarebbe stato il nipote Rocco Orelli, che gli carpi il sigillo per dare autenticità a nome del Parlamento. Si può pensare che, con questa azione, egli aggravò la posizione personale degli altri firmatari del memoriale. Questo bastò perché il Forni fosse condannato a morte, con il consigliere Sartori, cofirmatario con l'Orsi del documento'".

Giovan Antonio Forni

9.2.1687 Ronco, 2.6.1755 Faido, di Ronco
Banderale di Leventina. A seguito della sommossa leventinese contro gli Urani del 1755, Forni fu ritenuto compartecipe della rivolta, venne prelevato dal suo domicilio di Airolo il 2.6.1755 e condotto a Faido, nonostante le sue proteste di innocenza e il fatto che fosse in età avanzata e ammalato

In seconde nozze si uni ad Anna Maria Ottomar di Airolo in casa della quale viveva quando venne arrestato alla fine di maggio del 1755 per essere trascinato, vecchio e incapace di camminare, su una slitta fino a Faido accusato di alto tradimento. Ben egli prevedeva l'inesorabil sua sorte, e passando in mezzo a Faido esclamava 'Sono innocente, vado alla morte, pregate per l'anima mia, buoni cristiani, pregate!'

Lorenzo Orsi

7.8.1709 Rossura (oggi com. Faido), 2.6.1755 Faido, di Rossura
Fu capitano della Leventina. Nel 1748 ebbe l'appalto del forletto (pedaggio) per 10 anni sulla tratta tra Giornico e Faido. Prese parte attiva alla stesura del memoriale leventinese con la rivendicazione degli antichi diritti e privilegi, consegnato alle autorità urane nell'aprile del 1755. A seguito della sommossa contro gli Urani (maggio 1755), fu arrestato a Faido (in chiesa) e accusato di tradimento

Nella vicenda personale del capitano Orsi colpisce non solo il fatto dell'arresto di due dei principali collaboratori del sovrano urano (Orsi e Forni) che molto probabilmente si ritenevano al riparo da ogni sospetto, ma fa impressione il luogo dell'arresto: sotto il pulpito della chiesa del convento di Faido dove, sopraffatto dal precipitare degli eventi, egli si era rifugiato ritenendosi al sicuro in virtù dell'antico diritto d'asilo adottato e rispettato dai Confederati sin dal Trecento.

Giuseppe Sartore

5.5.1700 Dalpe, 2.6.1755 Faido, di Dalpe
Contadino, rivestì tutte le cariche della sua piccola comunità locale; fu in particolare procuratore e segr. della vicinanza di Prato. A seguito della sommossa leventinese contro gli Urani del 1755,  venne ritenuto compartecipe della rivolta e condotto a Faido

L'ESECUZIONE

Commutazione della pena in extremis

Il cappellano che, nella piazza di Faido, implorò i capi urani in ginocchio e piangendo, ottenendo almeno la commutazione della pena per impiccagione in quella della decapitazione, era don Benedetto Sartorio, che sarebbe divenuto parroco di Faido per 26 anni, dal 1758 al 1784.

Le ultime parole

Dal dizionario del dialetto leventinese:
Bofum in u c'ü(u)" = "soffiami nel culo", apostrofe molto più genuina del subapenninico "vaffanculo" Sembra siano state le ultime parole del dalpese Giuseppe Sartore il 2 giugno 1755 a Faido prima di essere decapitato con altri due presunti caporioni della "rivolta leventinese" contro gli urani. Su un libro di storia la frase (non citata) è attribuita al capitano Lorenzo Orsi di Rossura. Beffa di Airolo la mette invece in bocca all'alfiere compaesano Giuseppe Antonio Forni e l'allunga anche: "c'im bofian i lu c'ü cun una paia storta"! = "che mi soffino nel culo con una paglia storta".



La popolazione della Valle (L) sta inginocchiata e piena di ansie, assistendo alla macabra scena. Il capitano generale Schmid di Uri è indicato con la lettera (F); il Landscriba Scolar di Uri (G) legge la sentenza della condanna a morte del capitano Giovan Lorenzo Orsi di Chirgiogna, dell'alfiere Giovanni Antonio Forni di Bedretto e del consigliere Felice Sartore di Dalpe, tutti e tre ritenuti tra i più colpevoli della rivolta.
L'Orsi e il Formi sono già stati decapitati (H, l) e teste collocate sulla parte posteriore dei corpi starebbero, secondo quanto dicono i vecchi leventinesi, a significare la barbara reazione del capo urano dopo la risposta "bofim in a cü" datagli da uno dei condannati all'invito di esprimere un eventuale ultimo desiderio prima della deapitazione.
La spada del carnefice sta ormai anche per cadere sul collo del povero Sartore (K). In primo piano si scorge (M) il noce con tre chiodi infissi nel grande ramo preparati per l'impiccagione, pena ch'era stata prevista in un primo tempo.
Alle finestre delle casupole s'affacciano inorriditi donne e fors'anche ragazzi. Purtroppo, la serie di punizioni non ebbe termine con queste inumane condanne.


Il rapporto inviato dal capitano Schmid quello stesso 2 giugno completa quanto illustratoci dalla stampa. Onorato, il capitano scrive al consiglio urano che i tre condannati sono stati giustiziati nella più completa tranquillità. Dopo la decapitazione la loro testa è rimasta sul patibolo. Solo il corpo del Sartore ha beneficiato della sepoltura in terra consacrata. Il trattamento speciale riservato a quest'ultimo è da attribuire all'intervento del cappellano di Faido Benedetto Sartore, il quale aveva chiesto, implorando le autorità urane, la commutazione della pena di impiccagione in quella meno infamante di decapitazione. Quest'ultime avrebbero concesso la commutazione, a patto che i chiodi già piantati nell'albero predestinato venissero lasciati a titolo di ammonimento.

Le esecuzioni, oltre che punire i diretti responsabili, assumono una forte connotazione simbolica per la valle intera. Il sovrano, oltre che riconquistare obbedienza e fedeltà vuole tutelarsi dal riproporsi di simili insubordinazioni. Mai più si osi rifiutare l'obbedienza dovuta alla suprema autorità: questo è il prezzo da pagare in caso di trasgressione.

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