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Museo di Vallemaggia

I giardini che portano all'entrata del museo di Vallemaggia non possono competere con la ricchezze di quelli più sfarzosi d'Europa ma trasmettono un intimità al visitatore senza uguali. È un entrata da sogno per chi é capace a sognare quella del piccolo grande museo di Vallemaggia.

Il museo si contraddistingue per riportare le testimonianze di vita di valle, storia di povertà e misera; il museo dista a pochi km dai lughi dove si svolge la storia riportata nel fondo del sacco di Plinio Martini di cui si percepisce l'anima tra le varie sale

Palazzo Franzoni

Il museo ha la sua sede principale in una casa borghese del XVII secolo, a Cevio Vecchio. È inserito in un nucleo composto in buona parte dalle case dei Franzoni, famiglia gentilizia che determinò le sorti della valle durante parecchie generazioni, acquisendo un ruolo politico ed economico preponderante.
Il palazzo venne costruito da Giovan Angelo Franzoni, potente cancelliere del baliaggio (dal 1577 al 1613), notaio insigne, e fu per quasi due secoli l'abitazione sontuosa della sua famiglia.
Sull'architrave della porta principale è scolpita la data 1630 e su una cartella affrescata, posta sopra la medesima porta, si legge chiaramente la data 1688.

L'entrata del museo

Il torchio

Il torchio del museo, adibito alla noci, é uno dei più grandi del genere ancora visibili nel Ticino. In tutto il Cantone ne sono stati inventariati ancora 27, di cui solo tre in Valmaggia. Si tratta di un congegno relativamente semplice, ma impressionante per la mole e la forza che sprigiona. II lungo edificio porticato, che lo ospita, venne edificato dopo la costruzione del grande marchingegno.

Costruzione porticata che ospita il torchio

Il torchio è composto di pochi elementi di legno e di granito, connessi in modo da formare un complesso mastodontico.
Visto a riposo sembra un gigante addormentato, ma quando gli uomini mettono in funzione la grande macchina, con manovre dettate da tradizione secolare, e la sottopongono allo sforzo, essa sviluppa una potenza impressionante; è l'espressione viva dell'ingegno della civiltà contadina che lo ha creato.

L'elemento principale è la trave di pressione, un intero tronco di castagno lungo 9-10 metri e del peso di ca. 7000 chilogrammi, inserito tra due coppie di pilastri e sostenuto dalla vite. Al tronco di castagno ne sono stati sovrapposti e legati due di larice, per rinforzo, provvedimento reso necessario dal fatto che il tronco di castagno minacciava di rompersi. I quattro pilastri verticali di legno sono ben piantati nel suolo e racchiudono il basamento del torchio, il «letto», una vasca monolitica di granito (m 3,60 x 3,20) del peso di 5 tonnellate.

La vite, in legno di noce, alta 4 metri, reca alla base una grossa pietra (la «dona», di 22 quintali) che fa da contrappeso nella fase finale della torchiatura. Il torchio nel momento di massima pressione sprigiona una forza di 17'000 chilogrammi.

Per torchiare la pasta di noci e ottenere l'olio si utilizzava la tozza vasca di pietra (capacità di 40 litri) collocata tra i due pilastri anteriori.
Questo genere di torchio, detto di tipo piemontese, è conosciuto anche nella Svizzera tedesca, dove si possono trovare esemplari del 1400 e 1500.
Nell'Ottocento entrarono in uso modelli più piccoli e più maneggevoli la cui vite premeva direttamente sulle vinacce.
Con il progresso attuale è cambiata radicalmente la tecnica e oggi si costruiscono torchi idraulici e computerizzati. Da un'analisi dendrocronologica, effettuata nel 1987, risulta che parti del torchio del museo risalgono al 1550.

Questa macchina venne quindi utilizzata per secoli e la Famiglia Guglielmini, che abitava la casa Franzoni, la impiegò regolarmente fin verso il 1960. Il torchio, oramai inutilizzato, rimane perfettamente funzionante.

Ritratti smorzati

La prima testimonianza ci allinea subito con questo triste fil rouge che ci guida attraverso il museo tra testimonianze e oggetti più disparati

Fotografia di un prigioniero scattata a Cevio negli anni '20 del secolo scorso

Volti un po' così con sorrisi un po' così, la miseria e gli stenti traspaiono in ogni minima espressione di questa sgualcita foto del passato

Culla e fasce

"Per nove lune e sette giorni", durante tutta la gravidanza, continua l'abituale duro lavoro della donna: pur osservando delle precauzioni magiche volte alla salvaguardia del nascituro, nè diminuisce la sua fatica quotidiana, nè migliora la sua povera alimentazione.
Il parto avviene abitualmente in casa, talvolta sul lavoro: nei campi, ai monti o sugli alpi. E un evento domestico durante il quale sono scrupolosamente applicati dei precetti tradizionali che non sempre rispettano i più rudimentali principi d'igiene. La mortalità di madre e neonato è perciò particolarmente elevata.
Molto poche le levatrici, sostituite da donne che, prive di ogni conoscenza teorica, basano il loro sapere sulla sola esperienza.
Il neonato per alcuni mesi viene completamente fasciato affinché cresca ben diritto. Poi, durante i primi anni di vita, per comodità igieniche, maschi e femmine portano entrambi la "sottanella"

Figli di tutti e di nessuno

Purtroppo non sempre e non ovunque al neonato vien garantito il legittimo diritto alla sopravvivenza.
Nell'800, in Ticino, come in numerosi stati europei, si assiste alla diffusione di quello che vien chiamato un infanticidio differito: l'anonimo e precario abbandono di neonati in luoghi pubblici dove facilmente e in fretta possano essere raccolti.
In alcuni casi questi trovatelli vengono affidati prima ad una balia, poi messi al pubblico incanto per essere allevati da una famiglia affidataria; in altri casi vengono esportati clandestinamente e depositati nei torni degli ospizi di Como, Milano e Novara.
All'origine di tali atti delittuosi non si riscontrano delle difficoltà di tipo economico bensì la salvaguardia di valori moralistici: la grande maggioranza dei trovatelli sono bambini illegittimi che la società non vuole accettare.

Breve storia della Valmaggia

Scavi in Alta Valmaggia hanno portato alla luce alcune testimonianze di presenze umane preistoriche che però rendono possibile solo ipotesi sul modo di vivere di questi primi abitanti
Più precisi si può invece essere sul periodo della romanizzazione: i ritrovamenti di Moghegno hanno permesso di identificare una popolazione autoctona che, all'infuori di alcune sue radicate tradizioni, è stata fortemente romanizzata.
Con un lento lavoro di conversione, alle credenze pagane si sostituiscono quelle cristiane: la comunità cristiana si estende e aumentano i luoghi sacri.
Nel 1513, dopo un susseguirsi di governi milanesi e comaschi, inizia la dominazione svizzera che si protrarrà fino al 1798: la Valmaggia diventa un baliaggio retto da un landfogto. La Lavizzara mantiene però una certa indipendenza amministrativa, continuando ad applicare suoi particolari statuti, ottenuti nel 1430.

La dominazione svizzera

Dopo un periodo travagliato, in cui si succedono diverse dominazioni, la Valmaggia nel 1513 cade sotto la sovranità degli Svizzeri. Appartiene ai 12 cantoni: Uri, Svitto, Untervaldo, Zugo, Glarona, Lucerna, Zurigo, Berna, Friburgo, Soletta, Basilea e Sciaffusa.
A capo del baliaggio s'insedia un landfogto che rimane in carica per due anni. Raramente conosce la lingua e le abitudini della regione in cui si reca. Questa situazione e la brevità del mandato favoriscono la tendenza al malgoverno. Il regime è però generalmente tollerato, perchè la comunità mantiene i suoi statuti e una certa autonomia.
Annualmente una commissione di ambasciatori dei Cantoni sovrani, , i sindacatori, verifica l'operato, risolve diverbi, decide dei ricorsi e raccoglie le lamentele dei sudditi

Stemmi dei cantoni della confederazione su questa costruzione a Prato Sornico

Porta della prigione


Pur essendo la Valmaggia un unico baliaggio, persiste la divisione tra questa e la giurisdizione della Lavizzara.
Il landfogto deve recarsi una volta al mese a Sornico, dove segue le vicende giudiziarie della Lavizzara.

Arancione Valmaggese

Sapevo che era famoso l'azzurro di Aurigeno ma dell'arancione nessuna idea.

Decisamente forte e fuori dal comune

Non trovo altre informazioni in merito

G.A. Vanoni

Giovan Antonio Vanoni di Aurigeno (1810-1886) e di Giacomo Antonio Pedrazzi di Cerentino (1810-1879).
Giovanni Antonio Vanoni era di povera famiglia contadina. Appena quindicenne aveva seguito i 
compaesani che emigravano stagionalmente nella vicina Lombardia, per guadagnare qualcosa di più che a lavorare la terra. Non si sa nulla della sua vita di emigrante, né delle fatiche e dei sacrifici affrontati per la sua formazione artistica. Deve aver frequentato l'accademia e fu, per studi, a Roma, come risulta da suoi disegni e appunti stilati nella città eterna.
Quando tornò in patria, ventottenne, era già ricco di esperienza umana e artistica. Sposatosi nel 1840, fu subito preso dagli impegni familiari poiché dalla moglie Caterina ebbe ben dieci figli. Senza lasciare il lavoro dei campi, fu attivo per mezzo secolo come pittore affreschista e di cavalletto, ma si dedicò anche alla vita pubblica come segretario comunale, a intervalli, e municipale.
Per oltre cinquantanni affrescò chiese e cappelle in valle e fuori, soprattutto nel Locarnese.

Stendardo dei morti di G.A.Vanoni - 1810-1886 - Olio su tela 1836

Era un abilissimo decoratore e pittore focoso: le sue opere si contraddistinguono per colori caldi e sgargianti. Come pittore di cavalletto fu un notevole ritrattista, ma soprattutto un inimitabile creatore di tele votive, tanto da essere definito «il re degli ex voto».
Nella chiesa della Madonna delle Grazie a Maggia si possono ancora ammirare 24 ex voto vanoniani, e sono tra i più belli usciti dal suo talento. Alla fine della sua laboriosa esistenza il Vanoni lascia in eredità alla sua gente, alla sua valle, il capolavoro negli affreschi della chiesa parrocchiale di Aurigeno, decine e decine di cappelle e dipinti murali; una galleria di ritratti ed oltre un centinaio di tele votive.

La convivenza con la morte


La famiglia di Alessandro e Carolina Zanini di Cavergno nel 1891.
Il destino si accanirà sui loro tredici figli; quattro saranno vittime della montagna, una ragazza perirà cadendo nella caldaia del ranno, un'altra resterà storpia in seguito ad una caduta, tre figli partiranno per la California senza far ritorno.

Altre testimonianze dei pericoli che riservava la vita di valle 



Non si teme concorrenza

Oggetti misteriosi

Oggetti per la fabbricazione di calzature (?)

Dovrebbe trattarsi degli stessi oggetti visti al museo di Raron: la cassiera : essi erano utilizzati il giorno di pasqua per richiamare la gente alla messa. Solo il giorno di pasqua.

La pietra ollare

I giacimenti presenti in Ticino determinano due diversi tipi di cava: quella a cielo aperto e quella in profondità.
Nel primo caso blocchi di franamento o massi erratici vengono smembrati dai cavatori.
Nel secondo caso le lenti vanno cercate in profondità con un lavoro difficile e penoso che con il tempo forma vere e proprie gallerie. La pietra ollare viene estratta con il martello a due punte e staccata con l'ausilio di cunei.

Tra le varie rocce affioranti la pietra ollare ha sempre suscitato l'interesse dell'uomo per la relativa facilità della lavorazione, per la varietà e il pregio dei prodotti.
Questa particolare roccia, in dialetto «güia», è costituita da un aggregato di vari minerali basici, in particolare da talco, clorite, magnesite.
Le componenti variano assai da un giacimento all'altro e così pure il colore: da grigio biancastro a verde scuro. Al tatto risulta saponosa.

La lavorazione della pietra ollare andò notevolmente sviluppandosi particolarmente nell'alta valle, dove affiorano buoni materiali.
Lavizzara, il nome della parte più alta della Valmaggia, ricorda l'industria dei laveggi, la cui importanza andava ben oltre i confini della valle. San Carlo in Val di Peccia fu l'ultima località della Svizzera dove si lavorò con tecniche tradizionali la pietra ollare.
Questa attività plurisecolare terminò bruscamente nell'agosto 1900, in seguito ai danni provocati da un'alluvione.
Nelle zone d'affioramento, con l'impiego di martelli a due punte e di cunei, venivano staccati blocchi e lastre grezze che andavano poi trasportate a valle. Immani le fatiche del trasporto se consideriamo le distanze tra la cava e l'abitato, il rilievo impervio e irto di ostacoli, la mole e il peso del materiale.
Giova ricordare come la pietra ollare pesa circa un terzo più del granito e come certe lastre pesassero oltre il quintale.

Il cavatore prepara il blocco grezzo lasciando una sporgenza forata (oregia) su un'estremità, dove vi infila un ramo che favorisce il trasporto. La pietra viene trascinata lungo un solco scavato nel terreno (sovenda) o portata a spalla.

I materiali migliori, con struttura omogenea e ricchi di talco, venivano applicati ai torni idraulici. Si iniziava a lavorare il blocco messo in rotazione dapprima all'esterno, in seguito si incideva all'interno con verghe diritte che formavano le pareti e poi con ferri curvi che scavavano il fondo. 


Da un solo blocco si ottenevano successivamente diversi laveggi, via via sempre più piccoli. Il laveggiaio, curvo su se stesso, faticava due o tre ore per ottenere un recipiente. Il lavoro di tornitura dava aveggi da mettere sul fuoco e vasi per la conservazione di alimenti.
pietre ollari non omogenee e dure venivano lavorate con strumenti a percussione: il martello e le punte, lo scalpello, la bocciarda. L'oggetto veniva poi rifinito con la lima.

Per ore e ore, dopo aver fissato all'albero rotante del tornio un blocco rozzamente arrotondato, l'artigiano scavava i laveggi, con fatica e grande perizia.

Con la pietra ollare si poterono ottenere prodotti molto diversi: recipienti per la preparazione, la conservazione e il consumo di alimenti, oggetti di uso artigianale, elementi con funzione architettonica, religiosa e artistica.
In Alta Valmaggia, dove domina un clima di montagna, con il lungo e rigido inverno, quasi ogni casa possedeva una pigna in pietra ollare, formata da grandi e pesanti lastre assemblate in modo da costituire un corpo unico, dentro il quale si accendeva il fuoco.
La pigna assorbiva lentamente il calore e lo emanava gradualmente in modo piacevole e la «stüa», l'unico locale della casa interamente riscaldato, diveniva così, durante molti mesi, il punto centrale della famiglia patriarcale.
La pigna è uno straordinario esempio di riscaldamento pratico ed economico, può infatti venire impiegata regolarmente per due o tre secoli.
Molte pigne vennero distrutte in questi ultimi decenni in seguito all'adozione di altre tecniche di riscaldamento; ne restano ancora circa 300 in Valmaggia, ma sono poche quelle ancora in uso.
L'associazione del museo ne ha fatto un inventario dettagliato.
La pietra ollare è forse il materiale che mostra meglio la profonda conoscenza del territorio, il senso pratico e l'ingegno, la creatività e il gusto del bello delle popolazioni di questa valle sudalpina.

Il mondo contadino

Insomma per tutto l'anno la nostra gente aveva la casa sulle spalle."
Plinio Martini, Nessuno ha pregato per noi

Giovani contadine valmaggesi.
Documentazione precisa del costume, da capo a piedi, e del mezzo di trasporto, la cadola. Le due fanciulle vestono, esattamente come le donne, un costume dimesso.
Disegno di J. Weber, 1884.
Johannes Weber, paesaggista e illustratore, nato a Netstal nel 1846 e morto a Castagnola nel 1912.

Zoccole chiodate che mi ricordano quelle usate dai leventinesi sui campi ghiacciati nel momento clou della battaglia di Giornico

Gli alpeggi

Oggi in Valmaggia sono ancora caricati 22 alpi, situati quasi tutti nell'alta valle dove i pascoli alpini offrono migliori condizioni di sfruttamento e un maggiore reddito.
L'abbandono degli alpi in questi ultimi decenni è stato impressionante, basti pensare che all'inizio del secolo ne erano ancora caricati 106. In Valle Bavona l'abbandono è stato totale.

L'alpeggiante con le sue figlie e un piccolo garzone. Alpe Froda, Valle di Peccia, 1935

L'accentuato rilievo della valle rende i pascoli alpini impervi e difficili da raggiungere. L'alpe, suddiviso in corti, costringeva uomini e animali a salire gradatamente, a partire da metà giugno,
fino ai pascoli più alti e poi a ridiscendere per sfruttare l'erba ricresciuta nel frattempo. La stagione alpestre si concludeva verso metà settembre.
La tradizionale dimora dell'alpigiano è di un'estrema semplicità. In pochi metri quadrati si compiono tutte le operazioni casearie; si lavora, si dorme; vengono stipati gli attrezzi di lavoro, gli effetti personali, la legna. Pochi ambienti sono tanto angusti ma funzionali come la cascina dell'alpe.
Mucche, capre e maiali sono gli animali che vengono portati fino ai duemila metri 'altitudine in cerca dell'erba che spunta fra i sassi. Mentre le mucche brucano sui pascoli dei corti, le capre preferiscono l'erba che cresce più in alto, vicino alle vette. I maiali trasformano in carne i sottoprodotti della lavorazione del latte così che, 
sull'alpe, non va perso proprio nulla.


Dopo i mesi invernali passati in basso nel tepore delle stalle, in primavera il bestiame viene fatto salire dapprima sui maggenghi, posti a metà versante, e poi, durante i tre mesi estivi, sui pascoli alpini. In autunno si ridiscende a tappe verso il villaggio.
Questa secolare migrazione verticale di uomini e animali, detta transumanza, si è protratta fino all'ultimo dopoguerra.

II latte viene lavorato due volte al giorno con gesti secolari nella caldaia lucida e sonante. L'abilità e l'esperienza del casaro sono decisive per la buona riuscita del formaggio.
In passato era giustamente rinomato, anche fuori valle, il formaggio della paglia, tipico prodotto dell'alta
Valmaggia. Lavorato a temperature assai basse, questo formaggio risultava tenero e piccante; per la spedizione veniva accuratamente avvolto nella paglia. Attualmente si producono circa
400 quintali all'anno di formaggio dolce di eccellente qualità.
L'allevamento del bestiame e l'alpeggio restano tra le poche attività possibili in alta montagna e garantiscono un discreto reddito, ottenuto però con duri sacrifici.
Nel secondo dopoguerra solo pochi alpi hanno subito migliorie e su alcuni ancora oggi si vive e si lavora in condizioni non molto dissimili da quelle dei secoli passati. Il sorgere di alcune nuove aziende d'allevamento nei villaggi dell'alta valle rende possibile anche per il futuro il mantenimento della pastorizia almeno sugli alpi più favorevoli.
numerosi segni lasciati dai pastori sulle nostre montagne, anche nei luoghi più impensabili, stanno a ricordarci le tappe secolari della loro dura lotta per la sopravvivenza.

La vacca

"La vacca, mite e paziente, è l'animale più caro alla nostra gente."
Plinio Martini, Nessuno ha pregato per noi

La razza bovina che fino all'800 è allevata in Ticino ha poco in comune con quella che conosciamo oggi.
È piccola, di colore rossastro e scarna. Tori di pessima qualità e un cattivo foraggio non aiutano certo a migliorare la razza. A suo vantaggio la vacca ha però l'agilità, simile a quella delle capre, che le permette di raggiungere gli alpi più impervi.
La produzione di latte è molto scarsa. Una mucca che fornisce sei litri di latte è già considerata buona.
Raramente però la produzione supera i quattro litri.
Le capre, animali molto agili e di carattere indipendente, sanno procurarsi il cibo anche nei luoghi più discosti e difficili; vengono quindi allevate in gran numero anche dale famiglie più povere. Nel 1866, ad esempio, ci sono in tutta la Valle 2'659 vacche e ben 13'046 capre: la Valmaggia è una valle da capre!
Poche sono le pecore, rari i maiali e inesistenti gli animali da soma.

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