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Cristofano e la peste del 1630-1631

Un simpatico libricino, di quelli tascabili, quelli che mi attirano molto perché con moltissime probabilità li leggo tutti di un fiato senza nemmeno il tempo che mi annoino. Non é il primo libricino del professor Cipolla che leggo, questo riguarda degli appunti di un commissario della sanità, Cristofano, coinvolto con un ondata della peste nella cittadina di prato alle porte di Firenze

Prato

1. Le prime contromisure

Cristofano di Giulio Ceffini, uno degli ufficiali sanitari di Prato, lasciò scritto un Libro della Sanità. egli fornisce un elenco di ciò che secondo lui un ufficiale sanitario doveva fare in caso di peste:
  • inzolfare e profumar le case o stanze dove sono stati morti o malati;
  • separare subito scoperto il male gl'infermi da' sani;
  • abbruciar subito e levar via le robe che hanno servito per uso al morto o malato;
  • serrar subito quelle case dove è stato infetti e tenerle almeno giorni 22, acciò chi vi è dentro nel praticare non infetti gli altri;
  • proibire i comerzi
Sono norme di buon senso, e non occorreva essere medici per impadronirsene.

2. Appostamento delle guardie

Tra i compiti di Cristofano c'era anche quello dell'appostamento delle guardie. In mancanza di ogni conoscenza in materia di vaccinazione, preghiere e processioni a parte, il ricorso al cordone sanitario era la sola misura preventiva cui ci si potesse aggrappare. Normalmente si stabilivano due linee di difesa: una ai confini del territorio, ai valichi delle montagne ed ai guadi, l'altra porte della città. 

Il 1° novembre, gli ufficiali di Prato informarono quelli di Firenze di aver provveduto a tutto quanto stabilito nelle istruzioni del 26 ottobre". Il 27 dicembre, dato il clima freddissimo, gli ufficiali ordinarono la costruzione di baracche per le guardie a tre delle otto porte, e decisero anche di provvederle di uno staio di brace al giorno. La razione di combustibile era ben magra, ma a quei tempi la gente era abituata ad una vita dura. E così passò l'inverno.

Decisero di collocare quattro guardie al passo dell'Antella, nelle montagne verso Bologna, e misero guardie alle cinque porte della città. Più tardi, per suggerimento di Cristofano Ceffini, sostituto provveditore di palazzo, gli ufficiali modificarono i piani e misero le guardie di frontiera al passo della Cerbaia invece cheall'Antella

4. Qualifiche di medici e chirurghi e monatti

I medici erano persone di alto rango. I chirurghi appartenevano ad un livello sociale decisamente più basso. Ad un certo momento alcune guardie delle porte furono messe in galera, il che dimostra che la loro condotta non fu sempre esemplare. I becchini erano dei poco di buono, ed i nomignoli di alcuni di essi indicano chiaramente gente grossolana e brutale. 

A un certo punto un detenuto fu assunto come becchino per mancanza di personale. Questo, in parole povere, l'esercito che gli ufficiali sanitari guidarono nella loro battaglia contro la peste: un esercito piccolo ma eterogeneo, che comprendeva insieme medici e sbirri, frati e galeotti.

Secondo la Sanità di Firenze, i becchini di Prato, per quanto regolarmente pagati dalla città, estorcevano denaro alle famiglie dei defunti, chiedendo 2 scudi per ogni corpo che portavano via.
Uno dei becchini era soprannominato Michelaccio, un altro Vaccaio.




Pianta di Prato nel XVI secolo.
A. Ospedale della Misericordia
B. Ospedale di San Silvestro
C. Convento di Sant'Anna
D. Casa del Poder murato
E. Casa della Ven. Compagnia del Pellegrino

Porte: 1. San Paolo; 2, Pistoiese; 3. San Fabiano; 4, del Serraglio; 5. Mercatale;
6. Fiorentina; 7. del Soccorso; 8. Santa Trinità.

5. Abusi

Le informazioni fornite da Cristofano in questo passo si dimostrano esatte in ogni dettaglio, ma c'è un punto che va chiarito. Cristofano nel suo passo parla di «errori». Ma intendeva «abusi». C'erano individui che rimanevano confinati in casa anche dopo la scadenza della quarantena, per godere del sussidio quotidiano. Nell'elenco dei compiti assegnati al provveditore, il punto 5 suggerisce anche che secondo gli ufficiali sanitari, i decessi che si verificavano nelle case non venivano prontamente denunciati, in modo che l'amministrazione cittadina continuava a pagare per dei «fantasmi», ed il denaro veniva intascato o dall'ufficiale addetto al pagamento o dalla famiglia del defunto o da tutti e due.

Il primo atto di Cristofano in qualità di provveditore fu di far aprire quelle case che «havevan fatto 22 giorni o più di quarantena,

6. Sospetti contagiati e convalescenti

A Milano si mandavano al lazzaretto sia gli infetti che i sospetti, ma si tenevano distinti gli uni dagli altri: nel lazzaretto milanese c'era in effetti un reparto per i contagiati ed uno per i sospetti. In altre città, come Torino, Roma o Palermo, c'erano lazzaretti separati. Prato non aveva possibilità del genere: la povertà impediva il perfezionismo. A Prato i «sospetti» venivano quarantenati in casa e quanto agli infetti si mandavano al lazzaretto quelli che si potevano.

Per riassumere, le «regole» di Cristofano erano le seguenti: 

a) rinchiudere in casa tutti i sospetti per una quarantena di 22 giorni; 
b) mandare al lazzaretto i contagiati; 
c) mandare i sopravvissuti dal lazzaretto in casa di convalescenza; 
d) mantenerveli per altri 22 giorni di quarantena. 

In teoria, tutto ciò era semplice ma in pratica sorgevano complicazioni a non finire. Il fatto è che Cristofano aveva a che fare non solo con i germi della peste, ma anche con burocrati e problemi finanziari che non erano meno funesti dei primi.

7. Si fa quello che si può

Ogni dimesso dalla convalescenza aveva diritto ad abiti nuovi (i vecchi venivano bruciati) ed a una piccola somma, d'altra parte, poiché gli mancavano i fondi necessari all'acquisto di nuovi abiti, Cristofano non poteva neppure dimettere regolarmente i ricoverati completamente rimessi. Il pover uomo si trovava così tra l'incudine ed il martello. Poteva solo cercare di arrangiarsi eludendo le disposizioni che lui stesso aveva sottoscritto.

A volte venivano rilasciati con gli stessi abiti, altri prima dei 22gg di quarantena, altri si dimettevano in convalescenza perché al lazzaretto non c’era più posto

peste a Firenze nel 1630

8. Ori, forca e fuoco

Quando nel 1576 la peste devastò la Sicilia, il medico Giovan Filippo Ingrassia pubblicò la Informatione del pestifero et contagioso morbo il quale affligge et have afflitto questa città di Palermo et molte altre città e terre di questo Regno. Come motto per la sua opera, scelse «Oro, fuoco, forca». Ignis, furca, aurum sunt medicina mali: l'oro per le spese, la forca per punire chi violava le disposizioni sanitarie e spaventare gli altri, il fuoco per eliminare gli oggetti infettati.

Le società preindustriali erano fondamentalmente povere e non potevano permettersi la distruzione massiccia di beni scarsi in ottemperanza a concetti vaghi ed astrusi di sanità e di igiene.
Come si potevano bruciare materassi, coperte, lenzuola, anche se infetti, quando nel lazzaretto c'erano malati che giacevano sul pavimento fradicio, senza nulla per proteggersi dal freddo e dall'umidita? Cristofano tagliò corto. Requisì mobili e masserizie nelle case «dove sono stati malati o morti per contagio» e separò il buono dal cattivo. I criteri di questa cernita furono puramente soggettivi: «buono» era ciò che era ben conservato e di qualche valore, e «cattivo» ciò che era vecchio e valeva poco o nulla. «Le robbe cattive» furono bruciate nel greto del Bisenzio. In quei roghi sinistri furono distrutti?:

Cristofano arrotondò la piccola somma raccolta con i proventi di una multa. Due uomini, Sabatino da Colonica e Simone da Fossi, erano stati colti mentre entravano in Prato senza passaporto sanitario. Per l'infrazione, furono condannati come d'uso a due tratti di corda. Visto però che c'era bisogno di denaro e che i due avevano proposto di pagare, prevalse il buon senso e la tortura fu sostituita con una multa di 70 lire. Da sola, questa somma rappresentò poco meno della metà di quanto in denaro si era raccolto nella «cerca».

9. Quarantena generale

All'inizio di gennaio la Sanità di Firenze decretò per tutte le comunità del territorio la «quarantena generale».
Era questa una misura tipica in tempo di peste, intesa ad accelerarne la soluzione: consisteva nel limitare i movimenti delle persone costringendo la gente in casa e proibendo riunioni e assembramenti per la durata di quaranta giorni.
L'ordinanza fu inviata a Prato il 5 gennaio e pubblicata «ne luoghi soliti a suon di tromba» il 9 ed ancora il 13 gennaio

Il primo comma proibiva a chiunque di andare a Firenze, ad eccezione di una persona per nucleo familiare, debitamente provvista di passaporto sanitario. Il secondo proibiva di andare da una casa all'altra «specialmente per fare in dette case o in altri luoghi ritrovi, giuochi, veglie o trattenimenti di sorte alcuna»; autorizzava però «l'andare alle chiese, al mulino, a' mercati permessi, al fornaio, al macellaio e altre botteghe, solamente per provvedimento di loro bisogni». Il quinto comma proibiva anche ai gentiluomini e cittadini fiorentini che si trovassero nelle ville del contado di fare «giuochi, trattenimenti o radunate» o di andare in casa d'altri durante tutto il periodo della quarantena generale.

Il 21 settembre 1631 la veneranda Confraternita del Pellegrino «rese il lazzaretto a' deputati per non esservi più malati». A celebrare l'avvenimento, un domenicano, padre Campana «fece in Duomo predica riguardevole» e «la sera si fecero feste con fuochi e campane».

Nessuno degli ufficiali sanitari morì. L'incaricato dei passaporti sanitari, vicecancelliere Novellucci, che apparteneva ad una delle famiglie più ricche della cittato sopravvisse alla epidemia e morì nel 1648. I medici se la scamparono. I due medici condotti, Lattanzio Magiotti e Giobatta Serrati, erano ancora vivi alla fine del settembre 1631, quando in una petizione al Consiglio cittadino esaltarono la loro opera durante il contagio, gli altri tre medici morirono tutti diversi anni dopo la fine dell'epidemia: Pier Francesco Fabbruzzi nel 1635, Giuliano Losti nel 1648 e Jacopo Lionetti nel 1638. 

In stridente contrasto i ranghi più bassi pagarono alla peste un forte tributo. Uno dei chirurghi morì e becchini e inservienti caddero come mosche. La mortalità differenziale che possiamo documentare all'interno del gruppo di coloro che in un modo o nell'altro si batterono contro la peste, fu notata dagli stessi contemporanei per tutta la città. Il podestà di Prato, scrivendo alla Sanità di Firenze il 25 novembre 1630, riferì che «questi che muoiono son tutti poveretti». Una simile osservazione faceva a Firenze il Rondinelli: «la strage maggiore del male è stata nel popolo minuto». Il fatto comunque non era eccezionale. Di regola, la peste colpiva maggiormente le classi più povere che vivevano in condizioni igieniche disastrose.

10. Buon uscita

La mozione a favore di Cristofano fu approvata all'unanimità e con una certa solennità («con il voto del signor Podestà»). Era una «recognitione» decisamente encomiastica ma non era accompagnata da donativo alcuno. Il fatto è che tradizionalmente la funzione di ufficiale sanitario non era retribuita, e benché per la carica di provveditore si fosse stabilito un onorario, tuttavia esso era più simbolico che effettivo, visto che non superava il salario di un becchino.

Per di più Cristofano era benestante e le finanze del comune erano in pessimo stato. I parchi amministratori di Prato evidentemente ritennero che una «recognitione» verbale sarebbe bastata. Ma si sbagliavano. Cristofano era uomo attivo, onesto, dotato di senso civico, ma quando c'erano di mezzo i soldi - che fossero suoi o che fossero «del Pubblico» - non era uomo facile. Certamente non era il tipo che si contentasse di parole. Per mesi deve aver rimuginato sulla «recognitione» puramente onorifica che gli era stata data, poi, nella primavera del 1632, si decise: prese la penna e avanzò una petizione in cui elencava tutto quanto egli aveva fatto per la Sanità e chiedeva un riconoscimento pecuniario. L'amministrazione prese in esame il caso e, considerati i molti meriti di Cristofano, decise una «recognitione» di 24 scudi", Non era male, ma quando si trattava di soldi Cristofano non era tipo da accontentarsi facilmente. 

I due medici avevano ricevuto «per recognitione» 30 scudi ciascuno! Cristofano non si dava pace.
Il 28, dopo lunga discussione, si decise di regalare ad ognuno dei richiedenti sei cucchiai e sei forchette d'argento del valore di 12 scudi; ma la decisione non fu unanime «ostando il gonfaloniere»

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