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Il Perseo di Firenze

Nel 2018  ho avuto modo di fare una toccata e fuga a Firenze, 48 ore molto intense che mi hanno distolto dalla normale attenzione che ho per tutto quel che riguarda l’arte e la storia.

Andando però a ripescare nei ricordi alcune istantanee mi sono ben rimaste impresse, ponte vecchio, la testa di medusa del Caravaggio sullo scudo e più quella serie di statue sotto una loggia, in particolare quella in cui un guerriero tiene in mano una testa di medusa (si proprio una passione per le teste di medusa).

Uno dei rarissimi scatti fatti nella due giorni a Firenze, devo tornare a riscattarmi

Completamente distratto e in balia degli eventi non mi rendevo conto a cosa fotografavo, il tanto decantato "occhio medievale" completamente assente, ero semplicemente un semplice turista che fotografava alla cazzo oggetti che all'improvviso mi si paravan dinnanzi senza aver una minima idea di chi, perché, quando eccetera eccetera

Il Perseo 

Come spesso accade anni dopo le informazioni sulla statua mi cadono addosso, senza nemmeno si rende necessaria una banale ricerca in internet, l'incrollabile curiosità su storia di uomini e cose mi crea l'occasione di ritrovarmi faccia a faccia o meglio faccia a pagina della misteriosa opera fotografata 5 anni prima

Nel lavoro di Cellini, Perseo ha le fattezze di Cencio, un giovane garzone della bottega dell'artista. Perseo, figlio di Zeus e di Danae, principessa di Argo, è l'eroe che sconfigge Medusa, una delle Gorgoni: Medusa è una creatura mostruosa, con serpenti al posto dei capelli, capace di trasformare in pietra chiunque incrociasse il suo sguardo. Nel bronzo di Cellini, la testa di Medusa, grondante di sangue, è tenuta alta da Perseo, mentre il corpo, dal cui collo esce sangue a fiotti, gli sta ai piedi. La mano destra del giovane impugna la spada con la quale ha tagliato la testa della Gorgone.

Benvenuto Cellini

A Firenze, Cosimo de' Medici commissiona a Benvenuto Cellini una statua di Perseo, e in poche settimane ne realizza un esemplare in cera. Al duca il modello piace talmente tanto che gli chiede di realizzarlo in grande, e gli promette di dargli spazio sulla piazza della Signoria, nella Loggia dei Lanzi, vicino alle opere di Donatello e Michelangelo.

Cellini fa avere a Cosimo la lista di quello che gli occorre per la realizzazione del Perseo, ma il duca cerca di risparmiare, e questo infastidisce molto Benvenuto, che però non rinuncia all'impresa.

Benvenuto Cellini, Autoritratto, 1558-1560.

Ancora una volta si riaccende la competizione con altri artisti, in particolare con lo scultore Baccio Bandinelli.
Il Perseo è per Benvenuto un'impresa difficile. Inizia a modellarlo in gesso, tuttavia si rivela un impegno molto lungo, in più fatica a trovare persone che possano lavorare per lui.
Bandinelli gli fa una cattiva pubblicità: dice al duca che il Perseo è un'opera troppo ambiziosa per Cellini, che non sarà assolutamente in grado di realizzarla.

A Benvenuto non resta dunque che fare da solo. Lavora notte e giorno.
Inizia dalla testa della Medusa, per la quale realizza un'ossatura in ferro, ricoperta di creta e infine cotta. Riesce poi a fonderla in bronzo in una piccola fornace, e il risultato è stupefacente.

Non appena Cosimo la vede ne rimane meravigliato, ma Bandinelli continua a dire che Benvenuto non sarà comunque in grado di realizzare l'intera statua, perché lui è solo un orafo, non uno scultore.

Il duca si allarma e per precauzione decide di diminuire il compenso di Benvenuto. Cellini protesta, però non riesce a ottenere da Cosimo tutto ciò che gli serve, per cui continua a lavorare pagando i suoi collaboratori di tasca propria.

Quando chiede di nuovo il denaro che gli occorre, l'amministratore del duca gli risponde che lo stesso Cosimo crede che il Perseo non sarà mai terminato.
Pure questa volta Cellini non molla, nonostante sia disperato.

Ogni tanto, però, cede alla fatica, e un giorno pensa anche di tornare in Francia, dove ritiene che la sua arte sia meglio apprezzata.
Prende il cavallo ed esce dalla città, ma poi decide di tornare e sulla strada incontra Baccio Bandinelli, che vedendolo si spaventa.


Benvenuto Cellini, l'orafo sanguinario, la tentazione di aggredirlo ce l'avrebbe, eppure riesce a tenerla a bada, e nella Vita scrive che in quel momento a dominare l'impulso alla violenza è stato un pensiero: «Solo con la mia opera ucciderò i miei nemici, solo con quella saranno più gloriose e maggiori le mie vendette».

Tornato a casa, per dimostrare a Cosimo le sue capacità, scolpisce su un pessimo marmo fornitogli da Bandinelli una statua di Ganimede, che il duca gradisce molto.

Nel 1548 il principe di Palestrina inviò a Cosimo I de’ Medici un bel torso romano acefalo databile al I o II secolo d.C.; il duca Cosimo affidò l’opera a Benvenuto Cellini, orafo, scultore e restauratore al servizio dei Medici perché lo restaurasse. L’artista integrò l’opera scolpendo la testa, le braccia e i piedi, e – aggiungendo l’aquila sul lato sinistro – trasformò un semplice busto antico in una raffigurazione del mito di Giove e Ganimede.

La fusione del Perseo

Per il progetto del Perseo, una volta preparata l'impalcatura in ferro e rivestita a creta, Cellini inizia a fondere il metallo in una piccola fornace, la sola che si può permettere.

Proprio quando tutto è ormai pronto per la fusione del Perseo, Cellini è vittima di un violentissimo attacco febbrile, che lo costringe a restare a letto. Ma i suoi aiutanti, ai quali egli ha affidato la delicata operazione in sua assenza, non si dimostrano all’altezza del compito. Cellini allora si strappa dalle coperte, sfida la pioggia che tormenta la notte fiorentina e si precipita in bottega, dove riesce nell’impresa di resuscitare la statua.

«Essendomi finito di vestire, mi avviai con cattivo animo inverso bottega, dove io viddi tutte quelle gente, che con tanta baldanza avevo lasciate, tutti stavano attoniti e sbigottiti. 

Cominciai, e dissi: – Orsú intendetemi, e dappoi che voi non avete o saputo o voluto ubbidire al modo che io v’insegnai, ubbiditemi ora che io sono con voi alla presenza dell’opera mia; e non sia nessuno che mi si contraponga, perché questi cotai casi hanno bisogno di aiuto e non consiglio -. 

A queste mie parole e’ mi rispose un certo maestro Alessandro Lastricati e disse: – Vedete, Benvenuto, voi vi volete mettere a fare una impresa, la quale mai nollo promette l’arte, né si può fare in modo nissuno -. 
A queste parole io mi volsi con tanto furore e resoluto al male, che ei e tutti gli altri, tutti a una voce dissono: – Sú, comandate, che tutti vi aiuteremo tanto quanto voi ci potrete comandare, in quanto si potrà resistere con la vita -. 
E queste amorevol parole io mi penso che ei le dicessino pensando che io dovessi poco soprastare a cascar morto. Subito andai a vedere la fornace, e viddi tutto rappreso il metallo, la qual cosa si domanda l’essersi fatto un migliaccio. Io dissi a dua manovali, che andassino al dirimpetto, in casa ’l Capretta beccaio, per una catasta di legne di quercioli giovani, che erano secchi di piú di uno anno, le quali legne madonna Ginevra, moglie del detto Capretta, me l’aveva offerte; e venute che furno le prime bracciate, cominciai a impiere la braciaiuola. 
E perché la quercia di quella sorte fa ’l piú vigoroso fuoco che tutte l’altre sorte di legne, avvenga che e’ si adopera legne di ontano o di pino per fondere per l’artiglierie, perché è fuoco dolce; oh quando quel migliaccio cominciò a sentire quel terribil fuoco, ei si cominciò a schiarire, e lampeggiava. Dall’altra banda sollecitavo i canali, e altri avevo mandato sul tetto arriparare al fuoco, il quale per la maggior forza di quel fuoco si era maggiormente appiccato; e di verso l’orto avevo fatto rizzare certe tavole e altri tappeti e pannacci, che mi riparavano all’acqua (II, LXXVI).

Di poi che io ebbi dato il rimedio attutti questi gran furori, con voce grandissima dicevo ora a questo e ora a quello: – Porta qua, leva là – di modo che, veduto che ’l detto migliaccio si cominciava a liquefare, tutta quella brigata con tanta voglia mi ubbidiva che ogniuno faceva per tre. Allora io feci pigliare un mezzo pane di stagno, il quale pesava in circa a 6o libbre, e lo gittai in sul migliaccio dentro alla fornace, il quale, cone gli altri aiuti e di legne e di stuzzicare or co’ ferri e or cone stanghe, in poco spazio di tempo e’ divenne liquido. 
Or veduto di avere risuscitato un morto, contro al credere di tutti quegli ignoranti, e’ mi tornò tanto vigore che io non mi avvedevo se io avevo piú febbre o piú paura di morte.

La fornace esplode

 Innun tratto ei si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo, che parve propio che una saetta si fussi creata quivi alla presenza nostra; per la quale insolita spaventosa paura ogniuno s’era sbigottito, e io piú degli altri. Passato che fu quel grande romore e splendore, noi ci cominciammo a rivedere in viso l’un l’altro; e veduto che ’l coperchio della fornace si era scoppiato e si era sollevato di modo che ’l bronzo si versava, subito feci aprire le bocche della mia forma e nel medesimo tempo feci dare alle due spine. 

Azione-reazione

E veduto che ’l metallo non correva con quella prestezza ch’ei soleva fare, conosciuto che la causa forse era per essersi consumata la lega per virtú di quel terribil fuoco, io feci pigliare tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa a dugento, e a uno a uno io gli mettevo dinanzi ai mia canali, e parte ne feci gittare drento nella fornace; di modo che, veduto ogniuno che ’l mio bronzo s’era benissimo fatto liquido, e che la mia forma si empieva, tutti animosamente e lieti mi aiutavano e ubbidivano; e io or qua e or là comandavo, aiutavo e dicevo: – O Dio, che con le tue immense virtú risuscitasti da e’ morti, e glorioso te ne salisti al cielo! – di modo che innun tratto e’ s’empié la mia forma; per la qual cosa io m’inginochiai e con tutto ’l cuore ne ringraziai Iddio; dipoi mi volsi a un piatto d’insalata che era quivi in sur un banchettaccio, e con grande appetito mangiai e bevvi insieme con tutta quella brigata; dipoi me n’andai nel letto sano ellieto, perché gli era due ore innanzi il giorno; e come se mai io non avessi aùto un male al mondo, cosí dolcemente mi riposavo (LXXVII)».

Si tratta di un passo davvero eccezionale, che racchiude l’essenza più profonda del Rinascimento: la celebrazione dell’uomo, che sconfigge la malattia – la febbre è un chiaro riferimento alle potenze demoniache, che aleggiano inquietanti in molti luoghi della Vita – e la natura, riuscendo a realizzare l’opera d’arte. Opera d’arte che incarna l’ideale di perfezione e di bellezza proprio del XVI secolo, e si pensi alle figure umane dipinte e scolpite da Michelangelo.

Il titanico individualismo di Cellini sconfigge di slancio le forze avverse, con l’artista che s’impone quasi come un Dio. Perché più che creare il Perseo egli lo resuscita, trionfando sull’ignoranza e, soprattutto, sulla morte, la forza disgregatrice per eccellenza: «Or veduto di avere risuscitato un morto, contro al credere di tutti quegli ignoranti, e’ mi tornò tanto vigore che io non mi avvedevo se io avevo piú febbre o piú paura di morte». Cellini raggiunge di fatto l’immortalità: il più grande privilegio concesso all’artista.

La scopertura

Dopo aver lasciato raffreddare la statua per due giorni, inizia a rimuovere la terracotta per liberare il bronzo. Prima di tutto la Medusa, che appare subito bellissima, e poi tutto il resto del corpo del Perseo.

Il 27 aprile 1554, dopo quasi dieci anni da quando il duca gli aveva chiesto la statua, il Perseo viene finalmente ultimato e scoperto sotto la Loggia dei Lanzi, davanti a tutta la città.

E una vera e propria apoteosi, ma anche stavolta Benvenuto impiega molto tempo e molta fatica a farsi pagare il giusto compenso dal duca.


Infine, per chiudere con le curiosità, l'artista realizzò il proprio autoritratto nella parte posteriore del Perseo, tra l'elmo e i capelli dell'eroe, e firmò l'opera sulla cinghia a tracolla che doveva servire a reggere la spada

L'autoritratto del Cellini


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