Nominato quotidianamente, perno della civiltà, strumento di sopravvivenza, simbolo di foza e vigore: si lui, il benamato.
Anche in passato si era solito rappresentarlo come amuleto, portafortuna, inno alla fecondità. Che poi crescessero anche sulle piante é una novità sono venuto a conoscenza in tempi poco remoti
Nella graziosa località di Massa Marittima, in provincia di Gros-seto, nel 1999 fu intrapreso il restauro di un antico palazzo denominato "dell'Abbondanza". Con grande sorpresa degli addetti ai Lavori, sotto gli strati di intonaco, nei pressi di un'antica fontana, fu rinvenuto un affresco databile fra il 1265 e il 1335 destinato a fare scalpore. Esso raffigurava un grande albero che produceva frutti la cui particolarità era probabilmente la causa che aveva spinto i cittadini a celarlo con grande cura.
Dai rami pendevano infatti un gran numero (ben 25) falli virili in evidente stato di turgescenza. Sotto di esso alcune donne si intrattenevano conversando, mentre due di loro si accapigliavano per accaparrarsene i migliori.
Il dettaglio mostra un particolare che rende meglio l'idea di questi oggetti del desiderio. Si tratta probabilmente di un simbolo di fertilità che doveva avere una funzione apotropaica, ovvero tenere lontani gli influssi malefici ed essere di buon augurio per avere messi abbondanti. Intorno all'albero si vedono svolazzare alcuni corvi, desiderosi anch'essi di nutrirsi di tanto buon cibo.
La scoperta non poteva sfuggire all'occhio attento degli studiosi della miniatura. Esiste, infatti, un manoscritto del Roman de la Rose, composto da Guillaume de Lorris e Jean de Meung, che offre curiosità aggiuntive a quanto abbiamo detto finora.
Una premessa è necessaria, i due autori non hanno lavorato insieme. De Lorris, che ha scritto tra il 1230 e il 1235 la prima parte composta di 4058 versi, lo ha fatto con uno spirito allegorico, dove la rosa è una metafora della donna amata. L'altro, invece, ne ha composti ben 17.722 tra il 1275 e il 1280 ed è spesso in contrasto con il primo. Il suo intento è francamente libertario sul piano della sessualità.
Anche qui c'è un arbre à vitz ("albero dei falli") che produce frutti assai ambiti dal genere femminile (e non solo...)
Va pur detto che nel testo di Jean de Meung non vi è nessun accenno all'albero dei falli, le immagini del manoscritto non sono illustrazioni dirette del testo; vi sono bensì personaggi che danno consigli tesi a dare libero sfogo ai propri istinti sessuali. Una di questi è una vecchia ruffiana che si impegna a denigrare la castità.
In altro luogo si spronano gli appartenenti al sesso maschile a servirsi con impegno del proprio "aratro" per dissodare il "terreno"
delle donne al fine di evitare l'estinzione della specie umana.Arate, per Dio, baroni, arate,
e restaurate i vostri lignaggi.
Se non pensate ad arare con forza,
non c'è nulla che li possa restaurare.
Alzatevi bene le vesti davanti,
come se voleste accogliere il vento,
o, se preferite, mettetevi tutti nudi,
ma non prendete troppo freddo né caldo.
Alzate con le due mani tutte nude i manici dei vostri aratri,
sosteneteli forte con le vostre braccia,
e datevi da fare per mettere il vomere
ben dritto nel posto giusto,
per meglio affondare nel solco.
Ma c'è un aspetto ancora più sorprendente che rende maggiormente interessante questa storia. Il fatto è che la miniatrice è, appunto, una donna. Di lei conosciamo nome e cognome, e il fatto che si sia esposta in maniera così evidente è cosa abbastanza insolita in una società che noi crediamo fosse assai bigotta e in cui le donne erano fortemente represse e assoggettate ai mariti, ai quali non doveva fare piacere palesare il fatto che le loro compagne fossero sessualmente così audaci.
Va pur detto che Jeanne de Montbaston (questo era il suo nome) gestiva insieme al marito Richard una bottega di miniatura a Parigi. E Parigi, si sa... è sempre Parigi.
Commenti
Posta un commento