Oltre ad Alberto Cerro, la disastrosa disfatta del Sonderbund ed il passaggio di Suvorov Airolo fu anche teatro della guerra delle forcelle. Siamo nel 1799 e malgrado i francesi si siano installati in Svizzera da un anno l'unanimità é ben lungi da essere conquistata. Sull'onda dei moti di Lugano anche nella svizzera centrale ed in Leventina ci si rivolta.
L’entrata delle truppe francesi sul territorio della vecchia Confederazione nel gennaio 1798, ufficialmente motivata dal sostegno ai moti contro il dominio bernese nelle terre vodesi, aveva come obiettivo strategico quello di trasformare la Svizzera in un prezioso alleato sullo scacchiere europeo.
La rivoluzione scoppia nel momento in cui i cantoni della Svizzera alpina insorgono contro il reclutamento di truppe per la Francia, ordinato dal Governo Elvetico, che portò all'esasperazione e insofferenza al regime dell'Unitaria. I Waldstätten, l'alto Vallese, Uri soprattutto, passarono all'azione.
L'atteggiamento dei Leventinesi, al momento della invasione della Svizzera, da parte degli eserciti francesi della Grande Rivoluzione, non venne mai posto nel giusto rilievo. Non solo essi marciarono in soccorso di Berna arrivando sino al Brünig, troppo tardi però, che, Berna, era già stata sconfitta dai Francesi al Grauholz ed aveva dovuto capitolare sopraffatta.
Diario del Trosi
Saggio di alcune memorie e racconti di Trosi Giuseppe del fu Giacomo Antonio di Bedrina, frazione di Airolo
1798 In Febbrajo 25
Uomini per Vicinanza (200 in Leventina) unironsi a quelli d’Urania e recaronsi alla frontiera in Berna per impedire l’entrata di truppe francesi in Isvizzera ma, scorgendo degli inganni, gli uomini si ritirarono e licenziarono i Leventinesi, diedero Eziandio la libertà a tutto il paese di Leventina che era soggetto.
Si governarono nella cui epoca, il presidente Camossi, tenente, tenne tre parlamenti in Faido. Essendo il nostro Consigliere debole di voce, il nostro signor Curato Pozzi il parlamento si conchiuse in pace.
La bandiera stette in luogo eminente, l’alfiere fu Giovan Giuseppe Lombardi di Airolo.
I francesi si sono avanzati in Isvizzera ed hanno sottomesso i piccoli Cantoni e incendiarono Untervaldo, indi passarono il Canton d’Urania ed il San Gottardo e sono discesi da noi circa il 28 ottobre e per maggior incomodo abbiamo dovuto sopportarli e quartierarli fino in Marzo 1799 dopo di che partirono per il Grigioni.
Nel giugno del 1798 Pedrazzi fu designato dal governo membro della delegazione che unitamente a rappresentanti di Riviera e Bellinzona si doveva recare ad Aarau per conoscere i destini degli ex baliaggi dei cantoni forestali.
Pedrazzi in quella missione ebbe modo di confrontarsi con la reale volontà del direttorio riguardo agli ex baliaggi. Dopo il suo rientro, anche in Leventina, senza troppi intoppi, si procedette all’applicazione del dispositivo dell’Elvetica: venne approvata la Costituzione, si riunirono i circoli e vennero nominati gli elettori. Bernardino Pedrazzi fu a sua volta nominato dal prefetto del cantone di Bellinzona Giuseppe Rusconi, vice prefetto di Leventina, carica che assunse a pieno titolo dopo lo scioglimento del governo provvisorio della valle.
Un oste al comando
La Leventina era un caso particolare nei baliaggi superiori, in quanto era l’unico baliaggio svizzero sudalpino ad essere stato legato ad un unico cantone sovrano: Uri
Un primo consiglio provvisorio, alla cui testa si trovava Giovanni Antonio Camossi (oste di Airolo) dovette agire in favore della mobilitazione di una truppa che all’inzio di marzo, guidata dal colonnello Emanuele Jauch, si mosse verso Lugano con l’intento di difendere la “neutralità svizzera”.
Il 14 marzo le autorità di Altdorf concessero l’indipendenza sperando in un’adesione della Leventina a Uri. Secondo Camossi effettivamente la valle si espresse in tal senso il 6 aprile, probabilmente a determinate condizioni, che non poterono essere negoziate in seguito alla creazione della Repubblica elvetica, che definiva precisamente i confini dei cantoni.
L’unione ad Uri non doveva però fare l’unanimità: secondo un memoriale consegnato il 20 giugno a Jauch nelle sue nuove vesti di commissario del direttorio, a caldeggiare la soluzione urana erano soprattutto i vicini di Airolo e più in generale le comunità dell’alta valle Leventina. Bernardino Pedrazzi, dal canto suo, in prese di posizione posteriori, si mostrò ostile all’incorporazione della valle ad Uri.
Il 22 aprile si tenne, per la prima volta dopo il 1755, un congresso generale della valle che confermò a capo del consiglio provvisorio Giovanni Antonio Camossi, e gli statuti di Leventina “in ciò però che non sia contro la costituita libertà”.
Il giorno successivo le comunità della valle elessero gli altri membri del consiglio provvisorio. La comunità di Faido nominò come suo rappresentante Bernardino Pedrazzi, che in seguito assurse alla vice presidenza. Il governo provvisorio nelle settimane che seguirono stabilì il passaggio del dazio di Monte Piottino in mani leventinesi, propose l’istituzione per ogni vicinanza di un tribunale per le cause civili di prima istanza e di delegati atti a sorvegliare la buona manutenzione delle strade. Timide riforme che mostravano volontà di rinnovamento.
Il 26 aprile giunge in Leventina una deputazione urana per far insorgere la valle
nunciarsi. Intanto però, mentre il fuoco accesosi a Quinto si estende: arresto di altri militari francesi, atterramento degli alberi di libertà, campana a martello e via
28 aprile 1799 - Attacco alle salmerie
Il guasto alle bagaglie del generale Lecourbe, fu una delle prime bravate dei Leventinesi, a dirla con Franscini-Peri. Bravata? I popolani di Quinto, vedendo passare il convoglio, in fila (28 aprile 1799) sulla strada maestra, tra Fiesso e Ambri, corsero ad assalire la scorta (poco importa se debole) e privarono delle impedimenta l'esercito straniero invasore. Bravata? Non si farebbe lo stesso oggi ancora? Non lo si dovrebbe almeno tentare? Sembra che la preda fosse di poco conto, che però la valle dovette restituire a mille doppi. E' però il gesto che conta. L'animo.
Un consiglio di Guerra, fu tenuto a Pollegio, per ordine del quale, parte della milizia fu ivi lasciata di guardia, (come a Giornico) con avamposti al ponte di Biasca, sul Brenno, l'ingresso della valle. Il rimanente si affrettò, con altri armati, al di là del Gottardo, in aiuto d'Uri, combattendo a Wassen. La bravata era una bene organizzata sollevazione, in difesa della patria.
Mancanti di armi da fuoco (Uri le aveva sequestrate, nel 1755) impugnarono falci, forche da letame, da fieno, cosi che la guerra di indipendenza prese il nome di guerra delle forcelle, o meglio, in dialetto, guerra di forchett.
Né va dimenticato il Taddei, che i Leventinesi scelsero a generale di tutta la valle. Sono molto interessanti le lettere del Camossi dal Quartiere Generale dei Leventinesi ad Amsteg, 5 maggio 1799, e del Taddei, dal Quartiere Generale di Quinto, li 9 maggio 1799. In altra, del 6 maggio, da Orsera il Camossi narra di aver trovato una freddezza inesprimibile — sono le su" parole — negli Orserani e dichiara che « se si potesse capire sinanche nella minima persona de" sospetti, di traffiggerla immediatamente ». Chiede invio di aiuti, ritirando anche quelli che sono nei castelli di Bellinzona che « mi pare inutile lasciarvi, più d'una buona guarnigione ».
Giovanni Camossi sapeva la debolezza dei suoi nell'impari confitto, cercava alleati. Egli si era recato da Airolo a Coirà e a Bregenz, per conferire, nel luglio 1798, col generale Austriaco Auffenberg, come riferiva a Vienna l'ambasciatore austriaco Cronthal: « Il generale fu molto contento di aver fatta la conoscenza del signor Camozzi di Airolo e me ne ringrazia, osservando che questo uomo può essere un fattore di grande utilità, prestandosi l'occasione. »
Dopo che il 1° maggio la Leventina ebbe dichiarato la guerra alla Francia, fu inviato a Milano, presso il ripristinato governo austriaco, a sollecitare l'invio di 4'000 fucili
Purtroppo, l'aiuto straniero fu più di danno che d'utile, alla causa svizzera. Facciamo nostre le parole di padre Cattaneo nei Leponti, che chiama ironicamente gli Austriaci « questi altri liberatori » e poi così narra: « Infrattanto tutte queste soldatesche vivevano di requisizioni, o meglio di rapine, sempre alle spalle dei miseri abitanti, né mai avveniva, che fossero esterminate, né le une né le altre, o tutte insieme, come dai più si sarebbe desiderato. » Ed ecco ora i particolari della difesa leventinese del S. Gottardo.
9 maggio 1799 - Battaglia sul San Gottardo
Degno di storia e di poema è l'aver fiancheggiato eroicamente le truppe Urane nella difesa del loro Cantone, deponendo ogni rancore per i maltrattamenti crudeli subiti nel 1755. Essi sapevano però che il S. Gottardo, era patria libera ed indipendente d'entrambi.
Nell'avvicinarsi delle truppe francesi al passo del S. Gottardo, come poscia anche delle truppe austriache, i Leventinesi, corsero alle armi, con una leva in massa, che condusse sotto la loro bandiera altri 400 valorosi.
Sembra incredibile l'audacia con cui nel 1799, con la quale il 9 maggio essi affrontarono le truppe agguerrite del generale Soult prima nella valle della Reuss a Wassen,
Durante la marcia di inseguimento, tra Göschenen e Andermatt, le truppe francesi persero parecchi uomini, travolti da massi smossi e precipitati su di esse dai ribelli. Soltanto a stento si riuscì a mantenere un certo ordine nella colonna.Sbarramento al ponte del diavolo
Cottonclads
Gli insorti attesero la 1ª semibrigata, condotta dal generale Bontemps, presso il rifugio del Mätteli. Solo quando si videro quasi accerchiati da cinque compagnie sui pendii del Furkaegg, arretrarono fino al valico. Ciò nonostante la situazione dei francesi andava prendendo una piega piuttosto preoccupante per via del crescente pericolo di valanghe e del terreno, al quale le truppe non erano affatto abituate.
Ad Ambrì si combatte ancora
de fuyards...». (Si consumò un'orribile carneficina e non si riuscì a sottomettere questa gente sfortunata. La strada era disseminata di cadaveri e le montagne erano piene di fuggitivi)
12 maggio 1799 - Battaglia in fronte alle sassi grossi
13 maggio 1799 - la resa
Si può asserire die alla caduta della vecchia Confederazione, esse furono le sole che difesero il S.Gottardo, lottando strenuamente pro aris et focis, per gli altari ed i fuochi, la ce' nossa come essi dicono nel loro robusto dialetto, la nostra casa. Soli tra tutti gli Svizzeri
Contrattacco
sparando replicatamente con i cannoni, con grande perdita di gente da ambo le parti e le ossa di questi rimangono disperse nei nostri dintorni airolesi
Tre eroi leventinesi
Il padre Cattaneo ci fa conoscere i nomi di tre eroi che per nostra somma vergogna, abbiamo sinora dimenticati, o peggio spregiati. Essi erano Giovanni e Domenico Guscetti, figli di Agostino di Ronco di Quinto, ed Antonio Maria Gianini, figlio di Giacomo Antonio di Deggio, tutti e tre giovani sui venti ai 35 anni.
Colti armati, in vicinanza di Bellinzona, dalla truppa francese che moveva ad invadere la Leventina, comandata dal generale Bontemps, interrogati chi fossero e dove andassero, così armati, risposero: « Siamo Leventinesi, abbiamo preso le armi in difesa del nostro paese e andiamo ora ad unirci agli imperiali (illusione d'aiuto! ma la Sviz-zera non esisteva più) per venir poscia a vendicare la nostra patria, e battere contro i Francesi, per liberamela ».
Interrogati se, perdonato questo loro errore, e lasciati in libertà di tornare alle proprie case, volessero deporre le armi, essi francamente replicarono: « Le abbiamo impugnate in difesa della nostra religione e libertà e non le deporremo sino alla morte ». Oh, non erano frasi, ma convinzioni profonde! Senza sotterfugi, con franchezza ammirevole, degna della fiera Leventina! Tradotti subito a Bellinzona, avanti ad un consiglio di guerra e ordinato brevemente il loro costituto, se ne doveva avere la pena di morte.
Parecchi signori Bellinzonesi si interessarono per averli salvi, né vedevasi altra via che dare qualche pretesto alle loro intenzioni meglio, addimostrandoli pazzi. Malgrado la buona disposizione, dimostrata dallo stesso Consiglio di guerra a salvarli, se somministrassero qualche scusa a loro discolpa, e nonostante gli forzi fatti da quei signori per indurveli essi stettero fermi nell'asserire: « non siamo niente affatto pazzi, né vogliamo mentire la verità delle nostre intenzioni, ben contenti di morire piuttosto per una sì bella causa, quale era quella della religione e della lor Patria oppressa. » Chiesto da loro, ed ottenuto l'ultimo conforto della religione, andarono festosi, ed intrepidi al sacrificio.
Il giorno 14 maggio vennero fucilati fuori delle, porte di Bellinzona. Così lo storico dei Leponti. Dov'è il posto dove caddero, perchè si possa coprirlo di rose e stelle delle Alpi e condurvi i nostri soldati ad una Messa da campo, col saluto fraterno delle armi? E' giunto il momento di esumare tanto sacrificio pro aris ed focis.
Commenti
Posta un commento